Nel
caso di specie, una donna aveva convenuto in giudizio l’ex datore di lavoro,
lamentando di essere stata licenziata verbalmente dopo essersi assentata dal
lavoro a causa di minacce di aborto.
La
Corte di Appello di Roma, riformando parzialmente la sentenza del Tribunale di
primo grado, aveva rigettato la domanda avente
ad oggetto l'impugnativa del supposto licenziamento verbale.
La
Corte territoriale, infatti, aveva osservato che il solo certificato di nascita
della figlia della ricorrente non fosse sufficiente a ritenere provato il
suddetto recesso.
Di
contro, il giudice dell’appello aveva rilevato che, dall’escussione di una
teste, era emerso solamente che la dipendente si era volontariamente
allontanata dal lavoro.
Avverso
questa sentenza, la donna aveva adito la
Cassazione, sostenendo che la Corte territoriale erroneamente non aveva
considerato che sul lavoratore incombe il solo onere della prova relativo alla
sua estromissione dal rapporto, mentre la relativa prova della controdeduzione
spetta la datore di lavoro.
La
ricorrente, inoltre, aveva dedotto che la Corte del merito non aveva tenuto
conto della convocazione dell’azienda per il tentativo di conciliazione dinanzi
la DPL di Roma in epoca d'interdizione del licenziamento e della sua
manifestazione della disponibilità a
ripristinare il rapporto di lavoro.
Investiti
della questione, gli ermellini hanno ritenuto infondate le predette censure.
Nella
premessa, la Suprema Corte ha confermato che la giurisprudenza di legittimità,
richiamata dalla ricorrente, sia concorde nel ritenere che, qualora il
lavoratore deduca di essere stato licenziato oralmente e faccia valere in
giudizio la inefficacia o invalidità dello stesso, il datore di lavoro è
chiamato a dedurre la sussistenza di dimissioni del dipendente.
In
simili casi, pertanto, la prova gravante sul lavoratore è limitata alla sua
estromissione dal rapporto, mentre la
controdeduzione del datore di lavoro assume la valenza di un'eccezione in senso
stretto, il cui onere probatorio ricade sull'eccipiente ai sensi dell'art.2697,
secondo comma, del Codice Civile (1).
In
sostanza, il lavoratore è chiamato a
dimostrare la sua estromissione.
Ebbene,
con riguardo al caso di specie, la Corte del merito aveva chiarito che l’unica circostanza provata era stata
quella dell'allontanamento volontario
della lavoratrice, difettando, invece, la prova della sua estromissione.
Né
la dimostrazione del recesso poteva essere desunta dalla mancata presentazione
della società alla convocazione per il tentativo di conciliazione avanti alla
DPL di Roma, nonché dal fatto che, in tale sede, la lavoratrice aveva formalmente
messo a disposizione dell’azienda le proprie energie lavorative.
Tali
circostanze, infatti, poiché afferenti ad un periodo successivo alla data del
dedotto licenziamento, non potevano assumere rilievo ai fini di cui trattasi.
Sulla
base delle esposte considerazioni, la Cassazione ha concluso con il rigetto del
ricorso.
Valerio
Pollastrini
1)
-
Cass., Sentenza n.21684 del 19 ottobre 2011;
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