Nella
sentenza n.13959 del 19 giugno 2014, la Corte di Cassazione è intervenuta in
merito ai risarcimenti del danno connessi al licenziamento illegittimo di un
dirigente.
Il
Tribunale di Verona, in parziale accoglimento del ricorso, aveva ritenuto
illegittimo il licenziamento irrogato al direttore generale dell’Aeroporto di
Verona-Villafranca ed aveva condannato la società al pagamento in suo favore di oltre 460 mila
euro a titolo di risarcimento del danno
per l’anticipata risoluzione del rapporto di lavoro, nonché a titolo di
indennità supplementare e di indennità sostitutiva del preavviso.
Il
lavoratore aveva interposto appello per il mancato accoglimento delle
domande aventi ad oggetto il risarcimento
del danno arrecato dal demansionamento
ed i comportamenti definiti “mobbizzanti” asseritamente diretti contro di lui,
nonché per quella tendente a risarcire la mancata indicazione degli obiettivi
da parte della società per l’anno 2003 come contrattualmente previsto.
Il
ricorrente, inoltre, aveva impugnato la liquidazione dell’indennità supplementare
nella misura minima di due mensilità.
Nel
rigettare le ulteriori domande del dipendente, la Corte di Appello di Venezia
aveva sottolineato come il primo giudice
avesse legittimamente disatteso le
richieste di prova testimoniale formulate dall’attore per dimostrare la
condotta illecita denunciata, in quanto irrilevanti, generiche ed
inammissibili.
Parimenti,
la Corte territoriale aveva condiviso l’assunto per il quale era stata
rigettata la domanda relativa alla mancata indicazione degli obiettivi per
l’anno 2003.
A
tal fine, il ricorrente avrebbe dovuto offrire ulteriori elementi a sostegno del
diritto al risarcimento del danno, in modo che si potesse ritenere che, ove
prefissati, i suddetti obiettivi sarebbero stati raggiunti.
Il
giudice dell’appello aveva concluso, ribadendo l’adeguatezza della liquidazione
dell’indennità supplementare nella misura minima, in quanto il licenziamento
era stato irrogato in epoca in cui esisteva un serio contrasto
giurisprudenziale in ordine all’applicabilità dell’art.7 della legge n.300 del
1970 ai dirigenti.
Contro
questa sentenza, il lavoratore aveva adito la Cassazione, contestando, riguardo
al mobbing, sia l’istanza di reiezione delle prove orali,
sia l’omesso esame di 36 documenti ritenuti di primaria importanza.
A
proposito della presunta inadeguatezza della quantificazione dell’indennità
supplementare liquidata nella misura minima, il dipendente aveva rilevato che
il licenziamento sarebbe dovuto essere
considerato illegittimo, oltre che per quelli formali, anche per motivi sostanziali.
Con
l’ultima critica si denuncia, da ultimo, omessa, insufficiente, contraddittoria
motivazione riguardo al mancato riconoscimento del risarcimento del danno per
violazione dell’impegno contrattuale di fissare annualmente gli obiettivi
aziendali.
In
merito alla prima censura, la Suprema Corte ha ribadito il principio in base al
quale il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o
di altra prova può essere denunciato per Cassazione solo nel caso in cui essa
abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia
e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea
a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non
di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno
determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva
di fondamento (1).
A
detta della Cassazione, nel caso di specie nessuno dei capitoli di prova
testimoniale non ammessi dai giudici di merito si riferisce a fatti dotati di
tale carattere di decisività.
Quanto
poi ai 36 documenti di cui il lavoratore
aveva lamentato l’omesso esame, gli ermellini
hanno rilevato come, ove si denunci ai
giudici di legittimità il difetto di motivazione sulla valutazione di un
documento, sussiste l’onere di indicare nel ricorso il contenuto del documento
trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, trascrivendone
il contenuto essenziale e fornendo, al contempo, elementi sicuri per consentire alla Corte di
individuarli e di reperirli negli atti processuali (2).
Nella
vicenda in commento, il suddetto onere era stato del tutto trascurato nel ricorso posto all’attenzione
della Corte di legittimità.
Infine,
non può essere accolta neanche la censura relativa all’invocato difetto di motivazione sulla quantificazione dell’indennità supplementare
nella misura minima, nonostante il licenziamento fosse da considerare
illegittimo anche per motivi sostanziali, oltre che per quelli formali
riscontrati dai giudici di merito.
Nel
ricorso, infatti, l’istante non aveva riportato il contenuto della clausola della
contrattazione collettiva sulla quale
aveva fondato la pretesa della liquidazione dell’indennità in una
diversa misura.
A
questo riguardo, la Cassazione ha rammentato come il giudizio sull’ammontare
dell’indennità supplementare spettante ai dirigenti sia rimesso alla
valutazione discrezionale del giudice di merito e che, pertanto, non può essere
censurato in sede di legittimità, se non per vizio di motivazione (3).
Nel
caso di specie, la valutazione compiuta dalla Corte di Appello di Venezia non
appare né illogica né contraddittoria, laddove aveva concluso per il minimo della
indennità supplementare, considerando che il licenziamento fosse stato
dichiarato illegittimo per un motivo formale sul quale, al momento
dell’adozione del recesso, sussisteva un serio contrasto giurisprudenziale.
A
proposito della doglianza sul mancato
riconoscimento del risarcimento del danno per violazione dell’impegno
contrattuale di fissare annualmente gli obiettivi aziendali, il ricorrente aveva
ritenuto che, poiché per previsione del contatto individuale di lavoro, gli
obiettivi andavano concordati entro il 31 marzo di ogni anno, il non avervi
provveduto giustificherebbe automaticamente la legittimità della richiesta risarcitoria.
Si
tratta di un assunto giudicato privo di rilevanza dalla Cassazione, che ha
ribadito il principio di diritto (4) in base al quale l’inadempimento del
datore di lavoro per violazione di obblighi derivanti dal contratto è regolato
dagli artt. 1218 e 1223 del codice
civile, valendo anche in questo caso la distinzione tra “inadempimento” e
“danno risarcibile” secondo gli ordinari canoni civilistici per i quali i danni
attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano “conseguenza immediata e
diretta” dell’inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento
della violazione degli obblighi da quello, solo eventuale, della produzione del
pregiudizio.
Dall’inadempimento
datoriale, pertanto, non deriva automaticamente l’esistenza del danno ed il
soggetto che se ne dolga deve allegare e provare l’effettività ed entità del
pregiudizio.
La
sostenuta tesi che la violazione dell’obbligo contrattuale giustificherebbe di
per sé il risarcimento del danno, attribuendo una somma di denaro in
considerazione del mero accertamento dell’inadempimento e configurandosi come
una sanzione civile punitiva estranea al nostro ordinamento appare del tutto
infondata.
Alla
stregua delle osservazioni esposte, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed
ha condannato il lavoratore al pagamento delle spese del processo di
legittimità, liquidate in 5.000,00 € per compensi professionali, 100,00 € per
esborsi, oltre accessori.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
Cass., Sentenza n.11457/2007; Cass.,
Sentenza n.4369/2009; Cass., Sentenza n.5377/2011;
(2)
-
Cass. SS.UU., Sentenza n.5698 dell’11
aprile 2012; Cass. SS.UU., Sentenza n.22726 del
3 novembre 2011; Cass., Sentenza n.15477 del 14 settembre 2012; Cass.,
Sentenza n.15952 del 17 luglio 2007;
(3)
-
Cass., Sentenza n.389/1998;
(4)
-
Cass. SS. UU., Sentenza n.6572/2006;