Il
caso è giunto al vaglio della Cassazione dopo che il Tribunale e la Corte di
Appello di Cagliari avevano rigettato la domanda avanzata dalla madre di un
dipendente deceduto in seguito ad infortunio sul lavoro, volta a conseguire la rendita ai superstiti
prevista dall’art.85 del D.P.R. n.1124/65.
Nonostante
avesse accertato che il lavoratore contribuisse al mantenimento della madre con
la quale conviveva, la Corte del merito aveva escluso la presenza del requisito
dell’insufficienza dei mezzi di sussistenza della donna, sulla base del rilievo
secondo cui, tenuto conto della pensione di reversibilità integrata al minimo
della quale godeva, il reddito residuo, detratto l’affitto per la casa di
abitazione IACP, pur assai limitato, non
fosse insufficiente a fronteggiare le primarie esigenze di vita.
Investita
della questione, la Cassazione ha sottolineato che, ai sensi dell’art.106 del D.P.R. n.1124 del 30 giugno 1965, la vivenza a carico
è provata quando risulti che gli ascendenti si trovino senza mezzi di sussistenza
autonomi sufficienti e quando al mantenimento di essi concorreva in modo
efficiente il defunto.
In
proposito, la Cassazione ha ribadito che l’espressione “mezzi di sussistenza”, con
cui l’art.106 del suddetto D.P.R. definisce lo stato di vivenza a carico,
richiama l’analoga espressione “mezzi necessari per vivere” di cui all’art.38,
primo comma, della Costituzione, e non i “mezzi adeguati di vita del
lavoratore”, di cui al secondo comma.
Per
quanto attiene all’individuazione dei
cespiti e dei debiti rilevanti per la valutazione della sufficienza dei mezzi
propri di sussistenza, la Suprema Corte ha ritenuto corretta la premessa
sottesa nella decisione del giudice d’appello, il quale aveva attribuito
rilievo al reddito da pensione ed ai debiti inerenti alla casa di abitazione, e
non a fatti eccezionali, quali i debiti ereditati dal marito defunto nella
gestione dell’attività commerciale.
Per
accertare il diritto alla rendita in commento, nel tempo la giurisprudenza di
legittimità ha focalizzato la propria attenzione sul rapporto tra il contributo del de cuius con i mezzi propri
dell’ascendente.
Per
quanto riguarda l’apporto del lavoratore deceduto, il principio scaturito dalla
suddetta analisi non richiede che il
superstite fosse totalmente mantenuto in tutti i suoi bisogni dal defunto, ma impone,
altresì, che quest’ultimo abbia contribuito in modo efficiente al suo
mantenimento, mediante aiuti economici che, per la loro costanza e regolarità,
costituivano un mezzo normale, anche se parziale, di sussistenza (1).
Affinché
la rendita sia dovuta, la giurisprudenza, però, è parimenti concorde nel
ritenere necessaria la presenza dell’ulteriore presupposto dell’insufficienza
dei mezzi propri di sussistenza (2).
Tornando
al caso di specie, la Cassazione ha ricordato come la valutazione sulla
sufficienza della pensione percepita, depurata dell’onere del canone di affitto
dell’alloggio assegnato dall’Istituto autonomo case popolari, costituisce un’analisi
tipica, di fatto insindacabile in sede di legittimità.
Conseguentemente,
la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed ha condannato la donna al pagamento
delle spese processuali, liquidate in 1.500,00 € per compensi professionali,
100,00 € per esborsi, oltre accessori di legge.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
Cass., Sentenza n.6794 del 18 maggio 2001; Cass., Sentenza n.5910 del 12 giugno
1998; Cass., Sentenza n.3069 del 4 marzo
2002; Cass., Sentenza n.15914 del 28
luglio 2005;
(2)
-
Cass., Sentenza n.2630/2008; Cass., Sentenza n.29238/2011;
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