Nel
caso di specie, la Corte di Appello Bari aveva confermato la sentenza con la
quale il Tribunale di Trani, sezione distaccata di Molfetta, aveva condannato un lavoratore per
appropriazione indebita aggravata dall'art.61, numero 11, del Codice Penale e
per interruzione di pubblico servizio.
La
Corte del merito aveva rilevato che il dipendente avesse arrecato un pregiudizio economico alla società pubblica
per la quale prestava la propria attività, in quanto si era appropriato della
linea telefonica aziendale, collegandosi ad Internet per motivi personali.
Dagli
atti era emerso che l’imputato aveva
distolto le apparecchiature informatiche, preposte 24 ore su 24 al monitoraggio degli impianti della pubblica
amministrazione, dalla telegestione cui erano preposte, interrompendo il
servizio pubblico per la durata degli
illeciti collegamenti.
Contro
questa sentenza, il lavoratore aveva adito la Cassazione, deducendo che il
Giudice dell’Appello non avrebbe potuto considerare prove documentali le videoriprese
eseguite da un privato.
A
detta del ricorrente, inoltre,
l'utilizzo del computer non avrebbe determinato alcun danno alla
società, presupponendo così l’insussistenza dei reati contestatigli.
Lamentando
come, in maniera del tutto apodittica, la corte territoriale avesse affermato che
i filmati e le immagine fossero di natura pedopornografica, il lavoratore aveva
sostenuto l'assenza dell'elemento
soggettivo del reato.
Investita
della questione, la Suprema Corte ha premesso che, per la soluzione della controversia, occorra prendere
le mosse dalla sentenza n.26795 del 28 marzo 2006, nella quale le Sezioni Unite, con riferimento alla materia
delle videoregistrazioni, hanno rimarcato la distinzione tra documento e atto del procedimento oggetto
di documentazione.
Nella
richiamata pronuncia, infatti, è stato chiarito che le norme sui documenti,
contenute nel codice di procedura penale, sono state concepite e formulate con
esclusivo riferimento ai documenti formati fuori del processo.
A
proposito della vicenda in commento, la Cassazione ha sottolineato che i
giudici di merito avevano correttamente ritenuto acquisite le immagini visive,
in quanto effettuate di propria iniziativa dal privato,
all'interno dell'edificio di propria spettanza.
Gli
ermellini hanno quindi proseguito ricordando come nella sentenza impugnata
fosse stato accertato che l'imputato,
approfittando dell'assenza dell'addetto all'ufficio ed avendo la disponibilità
dei locali anche al termine delle attività di ufficio, invece di provvedere
unicamente alle pulizie, avesse scelto di utilizzare il computer per visitare
siti pedopornografici.
Per
la Suprema Corte, la circostanza che la parte offesa non avrebbe subito danni, poiché
la società aveva stipulato un contratto flat
con la società Fastweb, comportante un
unico costo periodico, non aveva alcuna
rilevanza ai fini della configurazione del reato.
L’oggetto
dell’imputazione, infatti, non era rappresentato dall'uso dell'apparecchio
telefonico, ma nell'appropriazione delle energie costituite da impulsi
elettronici che erano entrate a far parte del patrimonio della parte offesa.
A
detta della Cassazione, tale condotta aveva integrato la contestata ipotesi
dell’appropriazione indebita.
Si
tratta di una conclusione del tutto
coerente con la consolidata giurisprudenza
di legittimità in materia di peculato (1).
E'
altresì indubbio che il dipendente fosse consapevole dell’ingiusto profitto realizzato
attraverso la visione di siti
pedopornografici per mezzo del collegamento internet di proprietà di terzi.
Distogliendo
il computer dalla gestione dell'impianto pubblico di illuminazione comunale per
destinarlo all'accesso ai siti pornografici, l’imputato aveva inoltre interrotto
il servizio di monitoraggio svolto nell'interesse pubblico, per tutta la durata
dei collegamenti illeciti, realizzando
così il reato contestato di cui all'articolo 340 del Codice Penale.
In
base a tutte le considerazioni esposte, la Cassazione ha rigettato il ricorso
del lavoratore, rilevando, tuttavia, l’estinzione dei reati contestati per intervenuta
prescrizione.
Valerio
Pollastrini
(1)
- Cass., Sentenza n.3879 del 23 ottobre
2000; Cass., Sentenza n.25273 del 9
maggio 2006; Cass., Sentenza n.21335 del
26 febbraio 2007;
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