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sabato 28 giugno 2014

Licenziamento illegittimo del dirigente

Nella sentenza n.13959 del 19 giugno 2014, la Corte di Cassazione è intervenuta in merito ai risarcimenti del danno connessi al licenziamento illegittimo di un dirigente.

Il Tribunale di Verona, in parziale accoglimento del ricorso, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento irrogato al direttore generale dell’Aeroporto di Verona-Villafranca ed aveva condannato la società  al pagamento in suo favore di oltre 460 mila euro  a titolo di risarcimento del danno per l’anticipata risoluzione del rapporto di lavoro, nonché a titolo di indennità supplementare e di indennità sostitutiva del preavviso.

Il lavoratore aveva interposto appello per il mancato accoglimento delle domande  aventi ad oggetto il risarcimento del danno  arrecato dal demansionamento ed i comportamenti definiti “mobbizzanti” asseritamente diretti contro di lui, nonché per quella tendente a risarcire la mancata indicazione degli obiettivi da parte della società per l’anno 2003 come contrattualmente previsto.

Il ricorrente, inoltre, aveva impugnato   la liquidazione dell’indennità supplementare nella misura minima di due mensilità.

Nel rigettare le ulteriori domande del dipendente, la Corte di Appello di Venezia aveva sottolineato come  il primo giudice avesse legittimamente  disatteso le richieste di prova testimoniale formulate dall’attore per dimostrare la condotta illecita denunciata, in quanto irrilevanti, generiche ed inammissibili.

Parimenti, la Corte territoriale aveva condiviso l’assunto per il quale era stata rigettata la domanda relativa alla mancata indicazione degli obiettivi per l’anno 2003.

A tal fine, il ricorrente avrebbe dovuto offrire ulteriori elementi a sostegno del diritto al risarcimento del danno, in modo che si potesse ritenere che, ove prefissati, i suddetti obiettivi sarebbero stati raggiunti.

Il giudice dell’appello aveva concluso, ribadendo l’adeguatezza della liquidazione dell’indennità supplementare nella misura minima, in quanto il licenziamento era stato irrogato in epoca in cui esisteva un serio contrasto giurisprudenziale in ordine all’applicabilità dell’art.7 della legge n.300 del 1970 ai dirigenti.

Contro questa sentenza, il lavoratore aveva adito la Cassazione, contestando, riguardo al  mobbing,  sia l’istanza di reiezione delle prove orali, sia l’omesso esame di 36 documenti ritenuti  di primaria importanza.

A proposito della presunta inadeguatezza della quantificazione dell’indennità supplementare liquidata nella misura minima, il dipendente aveva rilevato che il licenziamento sarebbe dovuto essere  considerato illegittimo, oltre che per quelli formali,  anche per motivi sostanziali.

Con l’ultima critica si denuncia, da ultimo, omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione riguardo al mancato riconoscimento del risarcimento del danno per violazione dell’impegno contrattuale di fissare annualmente gli obiettivi aziendali.

In merito alla prima censura, la Suprema Corte ha ribadito il principio in base al quale il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per Cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (1).

A detta della Cassazione, nel caso di specie nessuno dei capitoli di prova testimoniale non ammessi dai giudici di merito si riferisce a fatti dotati di tale carattere di decisività.

Quanto poi ai 36 documenti  di cui il lavoratore aveva  lamentato l’omesso esame, gli ermellini hanno  rilevato come, ove si denunci ai giudici di legittimità il difetto di motivazione sulla valutazione di un documento, sussiste l’onere di indicare nel ricorso il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, trascrivendone il contenuto essenziale e fornendo, al contempo,  elementi sicuri per consentire alla Corte di individuarli e di reperirli negli atti processuali (2).

Nella vicenda in commento, il suddetto onere era stato del tutto  trascurato nel ricorso posto all’attenzione della Corte di legittimità.

Infine, non può essere accolta neanche la censura relativa all’invocato  difetto di motivazione sulla  quantificazione dell’indennità supplementare nella misura minima, nonostante il licenziamento fosse da considerare illegittimo anche per motivi sostanziali, oltre che per quelli formali riscontrati dai giudici di merito.

Nel ricorso, infatti, l’istante non aveva  riportato il contenuto della clausola della contrattazione collettiva sulla quale  aveva fondato la pretesa della liquidazione dell’indennità in una diversa misura.

A questo riguardo, la Cassazione ha rammentato come il giudizio sull’ammontare dell’indennità supplementare spettante ai dirigenti sia rimesso alla valutazione discrezionale del giudice di merito e che, pertanto, non può essere censurato in sede di legittimità, se non per vizio di motivazione (3).

Nel caso di specie, la valutazione compiuta dalla Corte di Appello di Venezia non appare né illogica né contraddittoria,  laddove aveva concluso per il minimo della indennità supplementare, considerando che il licenziamento fosse stato dichiarato illegittimo per un motivo formale sul quale, al momento dell’adozione del recesso, sussisteva un serio contrasto giurisprudenziale.

A proposito della doglianza  sul mancato riconoscimento del risarcimento del danno per violazione dell’impegno contrattuale di fissare annualmente gli obiettivi aziendali, il ricorrente aveva ritenuto che, poiché per previsione del contatto individuale di lavoro, gli obiettivi andavano concordati entro il 31 marzo di ogni anno, il non avervi provveduto giustificherebbe automaticamente la legittimità della richiesta risarcitoria.

Si tratta di un assunto giudicato privo di rilevanza dalla Cassazione, che ha ribadito il principio di diritto (4) in base al quale l’inadempimento del datore di lavoro per violazione di obblighi derivanti dal contratto è regolato dagli artt. 1218 e  1223 del codice civile, valendo anche in questo caso la distinzione tra “inadempimento” e “danno risarcibile” secondo gli ordinari canoni civilistici per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio.

Dall’inadempimento datoriale, pertanto, non deriva  automaticamente l’esistenza del danno ed il soggetto che se ne dolga deve allegare e provare l’effettività ed entità del pregiudizio.

La sostenuta tesi che la violazione dell’obbligo contrattuale giustificherebbe di per sé il risarcimento del danno, attribuendo una somma di denaro in considerazione del mero accertamento dell’inadempimento e configurandosi come una sanzione civile punitiva estranea al nostro ordinamento appare del tutto infondata.

Alla stregua delle osservazioni esposte, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed ha condannato il lavoratore al pagamento delle spese del processo di legittimità, liquidate in 5.000,00 € per compensi professionali, 100,00 € per esborsi, oltre accessori.

Valerio Pollastrini


(1)   - Cass., Sentenza  n.11457/2007; Cass., Sentenza n.4369/2009; Cass., Sentenza n.5377/2011;
(2)   - Cass. SS.UU., Sentenza n.5698  dell’11 aprile 2012; Cass. SS.UU., Sentenza n.22726 del  3 novembre 2011; Cass., Sentenza n.15477 del 14 settembre 2012; Cass., Sentenza n.15952 del 17 luglio 2007;
(3)   - Cass., Sentenza n.389/1998;
(4)   - Cass. SS. UU., Sentenza n.6572/2006;

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