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domenica 10 agosto 2014

Lavoratori a termine – Diritto di precedenza in caso di nuove assunzioni

Nella Circolare n.16 del 22 luglio 2014, la Fondazione Studi del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro ha analizzato il diritto di precedenza in favore dei lavoratori a termine in caso di nuove assunzioni, ai sensi delle modifiche introdotte dal D.L. n.34/2014 (1).

Il diritto di precedenza
L’art.5, comma 4-quater, del D.Lgs. n.368/2001 prevede che  "il lavoratore che, nell'esecuzione di uno o più contratti a termine presso la stessa azienda, abbia prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi ha diritto di precedenza, fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine".

In questo caso, dunque, il diritto di precedenza scatta al superamento della soglia di sei mesi.

Il suddetto termine, inoltre, può essere ridotto o ampliato dalla contrattazione collettiva nazionale, territoriale o aziendale, purché sottoscritta  dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale
Le Circolari della NO 2014 CIRCOLARE NUMCIRCOLARE PAGINA 2 / PA Diritto di precedenza delle lavoratrici in congedo di maternità
Il periodo di congedo di maternità (2), intervenuto nel corso di un contratto a termine, viene conteggiato per determinare il periodo di attività lavorativa utile a conseguire il diritto di precedenza in analisi. Tale disposizione, tuttavia, si riferisce solamente al diritto di precedenza di cui al precedente comma 4-quater e non anche a quello previsto per i lavoratori assunti per attività stagionali.

Alle lavoratrici  che hanno maturato un diritto di precedenza avendo prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi comprensivo di un periodo di astensione di cui sopra, inoltre, è riconosciuto il diritto di precedenza anche nelle assunzioni a tempo determinato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi, con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei precedenti rapporti a termine.

A tal fine, però,  solamente il periodo di congedo ricadente entro il termine apposto al contratto concorre quale periodo di attività lavorativa. L'eventuale periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, anche se indennizzato dall'Istituto direttamente alla lavoratrice, non potrà dunque  essere conteggiato.

Il diritto di precedenza per le attività stagionali
L’art.5, comma 4-quinquies, del D.Lgs. n.368/2001 è rivolto, invece, ai lavoratori assunti per lo svolgimento di attività stagionali, i quali maturano un diritto di precedenza rispetto a nuove assunzioni a termine da parte dello stesso datore di lavoro per le medesime attività stagionali.

In questo caso il lavoratore potrà esercitare il diritto di precedenza solamente se ne abbia   manifestato la propria volontà:

-          entro  sei mesi dalla cessazione, per la casistica generale;

-         entro  tre mesi dalla cessazione per lo svolgimento di attività stagionali.

Tale diritto di precedenza, se opzionato, si estingue entro un anno dalla data di cessazione del rapporto di lavoro.

Decorso tale termine, quand’anche il lavoratore abbia manifestato il proprio interesse a venire di nuovo occupato dal medesimo datore di lavoro, quest'ultimo sarà libero di
instaurare un rapporto con un differente lavoratore.

Il successivo comma 4-sexies, cosi come modificato da ultimo, prevede che il diritto di precedenza sopra analizzato debba essere espressamente richiamato nell'atto scritto di apposizione del termine di cui all'articolo 1, comma 2, del D.Lgs. n.368/2001.

Il diritto di precedenza per i lavoratori a chiamata a tempo determinato
Nelle risposte alle Faq rilasciate dall'Inps, l'Istituto aveva evidenziato come il diritto di precedenza relativo ai rapporti a termine fosse applicabile anche ai contratti di lavoro intermittenti, in caso di prestazione  effettivamente resa per più di 6 mesi anche in modo non continuativo.

Tale interpretazione, però, non appare condivisibile, proprio in relazione alla disciplina speciale che regolamenta il contratto a chiamata.

Per quanto riguarda il diritto di precedenza, pertanto, il rapporto di lavoro intermittente a tempo determinato non potrà essere assimilato al rapporto a termine.

Tale indirizzo è stato confermato dal Ministero del Lavoro  con la Circolare n.4/2005 (3).

Valerio Pollastrini

(1)   - cosi come convertito con modifiche nella Legge n.78/2014;
(2)   - fruito dalle lavoratrici ai sensi dell'art.16, comma 1, del Testo Unico di cui al D.Lgs. n.151/2001;
(3)   - richiamata e confermata con interpello n.72/2009;

Tabella riassuntiva

Tipologia contrattuale
Obbligo richiamo
Diritto di precedenza in contratto di assunzione
Termine per esprimere la volontà alla riassunzione (da cessazione rapporto)
Scadenza diritto di precedenza
Il lavoratore deve palesare autonomamente il proprio interesse
 
Attivazione datore di lavoro per conoscere interesse lavoratore
Tempo determinato uguale o inferiore a 6 mesi
Si
 
Non previsto
 
Non previsto
Non previsto
Non previsto
 
Tempo determinato maggiore a 6 mesi
Si
6 mesi
12 mesi
Si
No
Lavoro stagionale – per medesime attività stagionali
Si
3 mesi
12 mesi
Si
No
 
Tempo indeterminato per riduzione di personale o mobilità
 
No
 
Non previsto
 
6 mesi
No
Si

Per maggiori approfondimenti, si rinvia al testo integrale della Circolare in commento:


 

 

giovedì 7 agosto 2014

Quando l’attività sportiva è incompatibile con la malattia del lavoratore

Nella sentenza n.17625 del 5 agosto 2014, la Corte di Cassazione ha ritenuto  legittimo il licenziamento irrogato ad un lavoratore che, affetto da cervicale,  aveva partecipato ad un concorso ippico.

L’azienda aveva avviato la procedura di contestazione disciplinare ai danni del  dipendente assunto con la qualifica di esattore che, benché versasse in stato di malattia  a causa della "cervicalgia muscolo tensiva con difficoltà di movimento", aveva partecipato, in qualità di driver, ad un concorso ippico, presso l’ippodromo locale.

Dopo l’audizione con la quale il lavoratore aveva fornito  le proprie giustificazioni sull’accaduto, l’azienda aveva  inoltrato allo stesso una nuova contestazione, relativa alla  sua partecipazione  ad altro concorso ippico,  in contrasto con la malattia descritta nella certificazione medica prodotta.

Al termine della fase procedurale, il datore di lavoro aveva intimato al dipendente il licenziamento per giusta causa.

Il dipendente si era quindi rivolto al giudice del lavoro, sostenendo di aver svolto una attività compatibile con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa, ed inidonea a pregiudicare il suo  recupero delle normali energie lavorative.

Per tali ragioni, il ricorrente aveva impugnato il recesso ed aveva chiesto che la società venisse condannata a reintegrarlo nel posto di lavoro, con le conseguenze risarcitorie connesse alla applicabilità dell'art.18 della legge n.300/70.

Espletata l’attività istruttoria, il Tribunale aveva ritenuto illegittimo il recesso e tale pronuncia era stata successivamente confermata dalla Corte di Appello.

Contro questa sentenza, la società aveva adito la Cassazione, rilevando che il lavoratore avesse fraudolentemente simulato lo stato di malattia.

A tale proposito, la Suprema Corte ha più volte ribadito la legittimità del licenziamento del dipendente in malattia per il concomitante  svolgimento di altra attività che, di per sé, risulti sufficiente a far presumere l'inesistenza della patologia lamentata.

Parimenti,  la stessa Corte (1) ha  affermato in passato che lo svolgimento di altra attività giustifica il recesso qualora, in violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore.

Nel caso di specie, però, il giudice dell’appello aveva correttamente affermato che  il solo contemporaneo svolgimento di un’attività sportiva non fosse sufficiente ad escludere la sussistenza della "cervicalgia muscolo tensiva con difficoltà di movimento" lamentata dal dipendente.

Conseguentemente il thema decidendum doveva essere circoscritto alla verifica se l'attività sportiva agonistica, svolta dal dipendente in due diverse circostanze, avesse influito sulla sua possibilità di recuperare le energie psicofisiche.

Ai sensi dell’art.2110 c.c., infatti, lo stato di malattia  non necessariamente comporta l'impossibilità assoluta di svolgere qualsiasi attività, ma sancisce il  solo impedimento delle normali prestazioni lavorative del dipendente.

Per tale ragione, nel caso in cui un lavoratore assente per malattia  sia stato sorpreso a svolgere  altre attività, su di esso incombe l’onere di  dimostrare la compatibilità di dette attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa.

Si tratta di considerazioni dalle quali deriva il principio di diritto che, in linea generale, non esclude che il lavoratore assente  possa svolgere altra attività in concomitanza con la malattia.

Sul piano disciplinare, dunque, è necessario accertare se la partecipazione  ad eventi ludici o di intrattenimento,   non solo sia compatibile con lo stato di malattia, ma risulti conforme agli obblighi di correttezza e buona fede, in adempimento dei quali  il dipendente deve adottare ogni cautela volta al  recupero dell’idoneità al lavoro.

A questo proposito, la giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito (2) che l'espletamento di altra attività, lavorativa ed extralavorativa, da parte del lavoratore in malattia  giustifica  il recesso  solo se evidenzi una sua scarsa attenzione alla propria salute ed ai  relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione.

Tornando alla vicenda in commento, la Cassazione ha preso atto che l’accertamento peritale aveva accertato  che la malattia diagnosticata  rendeva il dipendente temporaneamente inabilitato a svolgere l'attività lavorativa di operatore al casello di pedaggio, connaturata da continue e ripetute rotazioni laterali del collo, unitamente al costante utilizzo dell'arto superiore sinistro.

La stessa analisi peritale, inoltre, aveva confermato che il suddetto  stato di malattia non era invece impeditivo dell'attività sportiva di driver, sia per la scarsa  durata della gara ippica che per  la mancanza di particolari scuotimenti o sollecitazioni al rachide.

La richiamata perizia, infine, aveva rilevato che i comuni presidi terapeutici contemplano per la malattia diagnosticata al lavoratore il riposo, e nelle fasi acute, l'assunzione di farmaci antidolorifici, antinfiammatori e miorilassanti.

Richiamando le risultanze della C.T.U., il giudice dell’appello si era limitato a verificare che le gare di trotto con calesse non comportassero «particolari scuotimenti o sollecitazioni del rachide» e, dunque, non potevano compromettere, né  ritardare, la guarigione del dipendente.

Gli ermellini hanno però rilevato che la Corte territoriale non aveva  esteso la sua indagine anche al rispetto dell'obbligo di correttezza e buona fede, in base ai quali  il lavoratore avrebbe dovuto adottare  quei comuni presidi terapeutici che, a detta del C.T.U., contemplavano il riposo per la patologia lamentata, nonché l’assunzione di antidolorifici, antinfiammatori e miorilassanti nelle fasi acute.

Secondo la Cassazione, nell’affermare che  la partecipazione  a due concorsi ippici non avesse inciso sulla doverosa attenzione che il lavoratore avrebbe dovuto prestare al suo recupero psico-fisico, l’impugnata sentenza aveva erroneamente contraddetto la risultanza peritale che imponeva il riposo per una pronta guarigione.

In conclusione la Cassazione ha ritenuto la pronuncia del merito viziata dal mancato approfondimento in merito all’obbligo del lavoratore in malattia di attuare comportamenti che ne  favoriscano la guarigione.

Queste, in sostanza, sono state le motivazioni che hanno indotto la Suprema Corte ad accogliere il ricorso aziendale.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Cass., Sentenza  n.6399 del 7 giugno 1995;
(2)   - Cass., Sentenza n.9474 del 21 aprile 2009;

Licenziamento del lavoratore disabile

Nella sentenza n.8450 del 10 aprile 2014, la Corte di Cassazione ha chiarito che il licenziamento intimato al lavoratore disabile, se motivato con l’aggravamento dell’infermità che aveva dato luogo alla sua assunzione tramite il collocamento obbligatorio, è legittimo solo nei casi di perdita totale della capacità lavorativa o di situazione di pericolo per la salute e l'incolumità degli altri lavoratori o per la sicurezza degli impianti, accertati dall'apposita Commissione Medica.

Nel caso di specie, la Corte di Appello di Palermo, riformando la pronuncia di primo grado, aveva ritenuto illegittimo il recesso, condannando la società a reintegrare il disabile nel posto di lavoro ed a risarcirgli il danno subito.
 
In particolare, la Corte territoriale aveva chiarito che il licenziamento di un dipendente assunto come soggetto invalido e avviato al lavoro tramite le apposite liste di collocamento dei disabili, può ritenersi legittimo solo in presenza delle condizioni previste dall’art.10 della Legge n.68/1999.

Ricordando che  la valutazione in ordine alla definitiva impossibilità di reinserire il disabile all'interno dell'azienda, anche attuando i possibili adattamenti all'organizzazione del lavoro, è riservata esclusivamente alla Commissione di cui all'articolo 10, comma 3, di detta legge, il giudice dell’appello aveva precisato come l’azienda avrebbe potuto validamente intimare il recesso soltanto nel caso in cui l'organo sanitario avesse ravvisato tale impossibilità.

In sostanza, la  Corte del merito aveva dichiarato illegittimo il licenziamento in quanto aveva accertato che il datore  di lavoro aveva dato luogo al recesso in base alla  propria valutazione del giudizio espresso dal Comitato Tecnico Provinciale per l'inserimento dei disabili e dal medico competente aziendale.

Contro questa sentenza, la società aveva adito la Cassazione, rilevando che,  dopo una visita richiesta dal lavoratore, la Commissione medica l’avesse dichiarato non completamente inabile al lavoro, bensì abile con la limitazione di evitare la prolungata stazione eretta.

A detta del ricorrente, il licenziamento sarebbe stato necessario poiché nell'organizzazione aziendale non vi erano posizioni lavorative compatibili con tale limitazione.

Investita della questione, la Cassazione ha ricordato che l’art.10, comma 3, della Legge n.68/1999 prescrive che  nel caso di aggravamento delle condizioni di salute o di significative variazioni dell'organizzazione del lavoro, il disabile può chiedere che venga accertata la compatibilità delle mansioni a lui affidate con il proprio stato di salute.

Nelle medesime ipotesi il datore di lavoro può chiedere che vengano accertate le condizioni di salute del disabile per verificare se, a causa delle sue minorazioni, possa continuare ad essere utilizzato presso l'azienda.

Qualora si riscontri una condizione di aggravamento che, sulla base dei criteri definiti dall'atto di indirizzo e coordinamento di cui all'articolo 1, comma 4, sia incompatibile con la prosecuzione dell'attività lavorativa, o tale incompatibilità sia accertata con riferimento alla variazione dell'organizzazione del lavoro, il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che l'incompatibilità persista.

Durante tale periodo il lavoratore può essere impiegato in tirocinio formativo.

Gli accertamenti sono effettuati dalla commissione di cui all’art.4 della Legge n.104 del  5 febbraio 1992 (1).

La richiesta di accertamento e il periodo necessario per il suo compimento non costituiscono causa di sospensione del rapporto di lavoro.

Il rapporto di lavoro può essere risolto nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro, la predetta commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all'interno dell'azienda.

Dopo questa lunga disamina, la Suprema Corte ha precisato come la norma suddetta abbia sostituito la precedente norma speciale (2), con riferimento alla quale la  Corte di legittimità (2) aveva  affermato il principio secondo cui, "il licenziamento dell'invalido assunto in base alla normativa sul collocamento obbligatorio segue la generale disciplina normativa e contrattuale solo quando è motivato dalla comuni ipotesi di giusta causa e giustificato motivo, mentre, quando è determinato dall'aggravamento dell'infermità che ha dato luogo al collocamento obbligatorio, e' legittimo solo in presenza di una perdita totale della capacità lavorativa o dalla situazione di pericolo per la salute e l'incolumità degli altri lavoratori o per la sicurezza degli impianti, accertati dall'apposita commissione medica(4).

La Cassazione ha quindi ribadito tale principio di specialità  anche in relazione alla nuova normativa, con riguardo alle condizioni e modalità ivi previste (5), ai sensi della quale, la verifica delle predette condizioni è categoricamente riservata alla competenza della apposita Commissione, che valuta le condizioni stesse in funzione della maggior tutela riservata ai disabili, per i quali, ai fini della risoluzione del rapporto è necessaria la definitiva impossibilità di reinserimento all'interno dell'azienda anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro (6).

Poiché, nella specie,  il licenziamento non era stato preceduto da un accertamento effettuato dalla Commissione Medica (7), gli ermellini hanno osservato come la pronuncia della Corte territoriale avesse fatto corretta applicazione delle norme di diritto cui è sussumibile la fattispecie concreta.

Per tali ragioni, la Cassazione ha concluso con il rigetto del ricorso, condannando l’azienda al pagamento delle spese del processo di legittimità, liquidate in  3.500,00 € per compensi professionali, 100,00 € per esborsi, oltre accessori come per legge.

Valerio Pollastrini
 

(1)   - integrata a norma dell'atto di indirizzo e coordinamento di cui all'articolo 1, comma 4, della presente legge, che valuta sentito anche l'organismo di cui all’art.6, comma 3 del Decreto Legislativo n.469 del 23 dicembre 1997, come modificato dall'articolo 6 della presente legge;

(2)    - art.10 della Legge n.482/1968,  in rel. all'articolo 20 della stessa legge;

(3)   - Cass., Sentenza n.10347/2002;

(4)   – ossia delle condizioni previste dall’art.10 della Legge n.482/1968;

(5)   - competenza speciale della commissione di cui alla Legge n.104/1992, come appositamente integrata e con valutazione, sentito anche l'organismo di cui all’art.6, comma 3, del Decreto Legislativo n.469/1997, articolo 6; verifica se il disabile, a causa delle sue minorazioni, possa continuare ad essere utilizzato presso l'azienda; possibilità di risoluzione del rapporto soltanto nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro, la predetta commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all'interno dell'azienda.

(6)   - Cass., Sentenza  n.15269/2012;

(7)   - di cui all’art.4 della Legge n.104/1992, integrata a norma dell'atto di indirizzo e coordinamento di cui all’art.1, comma 4, della Legge n.68/1999, che abbia valutato, sentito anche l'organismo di cui all’art.6, comma 3, del Decreto Legislativo n.469/1997, come modificato dall’art.6 della  Legge n.68/1999, la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all'interno dell'azienda, anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro;

Salute e sicurezza sul lavoro, ricostituita la Commissione consultiva permanente

Ricostituita per il prossimo quinquennio  la Commissione Consultiva Permanente per la salute e sicurezza sul lavoro, introdotta  dal D.Lgs n.81/2008 (1).

Lo scorso 4 luglio, infatti, il Ministro Poletti ha firmato un Decreto con il  quale è stato delineato il sistema istituzionale degli organismi preposti alla elaborazione e all’applicazione delle misure di prevenzione e protezione.

Detta Commissione,  composta da 10 rappresentanti delle amministrazioni pubbliche centrali, 10 rappresentanti delle Regioni, 10 esperti designati delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e altrettanti indicati dalle organizzazioni datoriali, opererà presso il Ministero, avvalendosi della consulenza dell’Inail.

Nel rispetto di quanto disposto dal richiamato Decreto Legislativo (2), la Commissione Consultiva Permanente avrà il compito di realizzare una serie di attività nell’ambito della salute e sicurezza sul lavoro, tra cui la validazione delle buone prassi, la formulazione di proposte per lo sviluppo ed il perfezionamento della legislazione vigente, la valorizzazione degli accordi sindacali e dei codici di condotta ed etici, l’elaborazione delle procedure standardizzate per la redazione del documento di valutazione dei rischi e la promozione degli aspetti legati alla differenza di genere nella predisposizione delle misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Valerio Pollastrini


(1)    Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro;

(2)   - art.6, comma 8, del D.Lgs. n.81/2008 e successive modificazioni ed integrazioni;

Mobilità - Applicazione generalizzata dei criteri di scelta

Nella sentenza n.14170 del 23 giugno 2014, la Corte di Cassazione ha ribadito che, a proposito dei lavoratori rientranti nelle procedure di mobilità, i criteri di scelta individuati dalle parti sociali vanno applicati alla generalità dei dipendenti, senza la necessità del consenso dei singoli interessati.

Nella premessa, la Suprema Corte ha ricordato che la dichiarazione di mobilità, quale rappresentazione unilaterale della situazione aziendale e momento di mero inizio di una procedura destinata a svilupparsi nel confronto delle parti sociali, non condiziona i poteri delle organizzazioni sindacali nella determinazione dei criteri da applicare per la soluzione della crisi.

La Cassazione ha quindi proseguito osservando che, qualora, come avvenuto nel caso di specie, le parti sociali individuino quale unico criterio di scelta quello della prossimità alla pensione, esso non può che riferirsi a tutto il personale aziendale, a prescindere dall’assegnazione ai reparti in esubero originariamente evidenziati nella dichiarazione iniziale della procedura (1).

La Suprema Corte, infine, ha ricordato che la mera violazione dell’obbligo, puramente procedurale, di ricerca del consenso dei singoli dipendenti  non inficia la legittimità della procedura collettiva.

Valerio Pollastrini


(1)   – Cass., Sentenza n.26057 dell’ 11 dicembre 2009;

La CGIL ricorre alla Commissione UE contro il Jobs Act

Con un comunicato stampa del 5 agosto 2014, la CGIL ha annunciato la presentazione del ricorso alla Commissione Europea contro l’eliminazione della causale del contratto a tempo determinato disposta dalla Legge n.78/2014 (1), che ha introdotto nel nostro ordinamento alcuni contenuti del c.d. Jobs Act.

Secondo l’organizzazione sindacale, tale norma determinerebbe nel nostro Paese, in contrasto con i dettami europei,  una sostanziale prevalenza della forma di lavoro a termine rispetto a quella a tempo indeterminato.

Nel ricorso viene posto l’accento sul fatto che il precedente obbligo della causale per il legittimo   ricorso ai contratti a tempo determinato rappresentasse un argine contro un loro utilizzo improprio.

L’eliminazione della motivazione, pertanto, favorirebbe il ricorso ad una fattispecie contrattuale che penalizzerebbe il dipendente quale parte debole del rapporto di lavoro.

Il ricorrente, inoltre, lamenta che le ulteriori possibilità di  rinnovo e proroga del contratto a termine esporrebbero il lavoratore al rischio di non pervenire ad una stabilità del rapporto, condizione ritenuta primaria proprio dalla normative UE, con forti penalizzazioni soprattutto per gli over-50 e le donne.

L’azione della CGIL, in sostanza, è rivolta ad ottenere la modifica di norme, ritenute penalizzanti per i lavoratori, deducendo, in particolare, l’assenza di prove statistiche che possano confermare che ad un aumento della precarietà corrisponda un aumento dell’occupazione, anche perché, facilitando il ricorso al lavoro a tempo determinato, si perverrebbe ad un’assoluta discrezionalità dei licenziamenti.

Valerio Pollastrini


(1)   - che ha convertito  con modifiche il D.L. n.34/2014;

Legittimo rifiutare le prestazioni fuori dall’orario di lavoro

Nella  sentenza n.17582 del 4 agosto 2014, la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il comportamento di un dipendente pubblico che si era rifiutato di svolgere prestazioni straordinarie in occasione dei Consigli Comunali convocati in orario serale.

Nella premessa, la Suprema Corte  ha ricordato  che il D.P.R. n. 268/1987 (1), relativo al personale degli Enti Locali, prevede, al primo comma, che le prestazioni di lavoro straordinario sono rivolte a fronteggiare situazioni di lavoro eccezionali e non possono essere utilizzate come fatto ordinario di programmazione del tempo di lavoro e di copertura dell’orario di lavoro, mentre il secondo comma stabilisce che la prestazione di lavoro straordinario è disposta sulla base delle esigenze individuate dall’Amministrazione, rimanendo esclusa ogni forma generalizzata di autorizzazione.

Si tratta di disposizioni il cui intento è quello  di limitare il ricorso al lavoro straordinario ai fini del contenimento della spesa pubblica.

Parimenti, nessun obbligo per il dipendente è previsto in tal senso dal CCNL 1994-1997 per il personale del comparto delle Regioni e delle Autonomie Locali,  nonché dal successivo CCNL 1998-2001, il quale si limita a dettare previsioni in ordine alle risorse finanziarie utilizzabili per il lavoro straordinario e per il contenimento dello stesso, fissando il limite annuale massimo di 180 ore.

Posto dunque che nella specie trova applicazione il R.D. n. 692 del 1923 (2), la Cassazione ha sottolineato che il predetto art. 5-bis dispone, al secondo comma, che il ricorso al lavoro straordinario deve essere contenuto e che, "in assenza di disciplina ad opera dei contratti collettivi nazionali", esso "è ammesso soltanto previo accordo tra datore e prestatore di lavoro".

Lo stesso R.D. aggiunge poi al secondo comma, che il ricorso al lavoro straordinario "è inoltre ammesso, salvo diversa previsione del contratto collettivo", tra l’altro, nei "casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive e di impossibilità di fronteggiarle attraverso l’assunzione di altri lavoratori”.

Il Comune aveva dedotto che, in base a tali disposizioni, la dipendente non avrebbe potuto sottrarsi all’espletamento del lavoro straordinario, poiché  la convocazione serale del Consiglio Comunale sarebbe stata dettata da una "eccezionale esigenza", imposta dalla necessità di permettere ai  consiglieri di  contemperare la funzione esercitata con le esigenze di lavoro.

Tuttavia, tale disposizione non esclude la prestazione del consenso da parte del lavoratore, disponendo che il ricorso al lavoro straordinario è ammesso "soltanto" previo accordo tra datore e prestatore di lavoro ed "inoltre" in casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive. Proprio tale ultimo avverbio, in luogo della locuzione "in ogni caso", evidenzia che, oltre all’imprescindibile consenso del prestatore di lavoro, occorre anche la sussistenza delle esigenze anzidette, peraltro non fronteggiabili attraverso l’assunzione di altri lavoratori.

Gli ermellini, inoltre, hanno aggiunto che, nella specie, le convocazioni in orario serale erano divenute la regola e non erano quindi dettate da esigenze straordinarie ed occasionali.

Il rifiuto della dipendente, il cui orario di servizio era dalle ore 7,30 alle 13,30, doveva pertanto considerarsi legittimo.

Al riguardo, la Corte di legittimità  ha già avuto modo di chiarire che, anche nelle ipotesi in cui la contrattazione collettiva prevede la facoltà, per il datore di lavoro, di richiedere prestazioni straordinarie - non è il caso in esame -, l’esercizio di tale facoltà deve essere esercitato secondo le regole di correttezza e di buona fede, poste dagli arti. 1175 e 1375 cod. civ., nel contenuto determinato dall’art.41, secondo comma, Cost. (3).

Alla stregua di tutto quanto precede deve escludersi che il datore di lavoro possa imporre ai propri dipendenti lo svolgimento del lavoro straordinario.

Valerio Pollastrini


(1)   - che ha recepito la disciplina prevista dagli accordi sindacali per il triennio 1985-1987;

(2)   -  nel testo di cui all’art.1 del D.L. n.335/1998, convertito, con modificazioni, nella Legge n.409/1998 - disposizione questa riprodotta dall’art.5 del D.Lgs. n.66 dell’ 8 aprile 2003 n. 66, emanato in attuazione delle direttive CE, non applicabile ratione temporis;

(3)   - Cass., Sentenza n.11821 del  5 agosto 2003; Cass., Sentenza n.2161 del 7 aprile 1982; Cass., Sentenza n.2073 del 19 febbraio 1992, la quale ha escluso la configurabilità dell’illecito disciplinare in relazione al rifiuto da parte del lavoratore di riprendere servizio dopo circa otto ore dalla fine del turno notturno per svolgere lavoro straordinario, non essendo la relativa richiesta giustificata da esigenze aziendali assolutamente prevalenti;

martedì 5 agosto 2014

Infortunio mortale – Condizioni per il sequestro del cantiere

Nella sentenza n.9222 del 25 febbraio 2014, la Corte di Cassazione ha chiarito che, di per sé, un infortunio verificatosi in azienda non consente il sequestro di un’intera area di lavoro. Tale disposizione, infatti, può essere emessa legittimamente solamente nel caso in cui  la zona predetta  risulti qualificabile come corpo di reato e appaia strumentale per la prosecuzione delle indagini.

Nel caso di specie, il Tribunale del riesame aveva confermato il provvedimento di sequestro probatorio di un'area adibita a demolizione veicoli, disposto a seguito delle indagini per omicidio colposo conseguente ad un infortunio lavorativo.

Investita della questione, la Suprema Corte ha evidenziato come, sia il PM che il Tribunale, avessero disatteso l'obbligo di motivare specificamente la necessità probatoria perseguita con il provvedimento in commento, omettendo di indicare il nesso di causalità esistente tra l'area sequestrata e l’incidente.

Dal momento che l’infortunio si era verificato mentre la vittima  stava effettuando delle riparazioni su un veicolo posteggiato sull'area, le indagini per l'accertamento di eventuali responsabilità si sarebbero dovute incentrare esclusivamente sul veicolo in argomento.

Conseguentemente, la Cassazione ha accolto il ricorso dell’imprenditore, negando ogni finalità probatoria al disposto sequestro dell’intera area destinata ad attività produttiva, in assenza di specifiche indicazioni riguardo alle ragioni per le quali la medesima dovesse essere ritenuta, nella sua interezza, corpo di reato.

Valerio Pollastrini

Disabile part-time adibito in turni di lavoro

Nella sentenza n.17009 del 25 luglio 2014, la  Corte di Cassazione è stata sollecitata a chiarire se il disabile con contratto part-time,  nell’ambito del suo ridotto orario settimanale, possa essere adibito in turni di lavoro e se, in caso affermativo, occorra il  necessario  consenso del dipendente.

Nella premessa, gli ermellini hanno ricordato come attraverso il contratto  part-time si costituisca un normale rapporto di lavoro, caratterizzato esclusivamente da una riduzione dell'orario  rispetto a quello ordinario.

Per questa fattispecie contrattuale, la normativa di riferimento (1) dispone l’obbligo di individuare  una puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della ripartizione temporale dell'orario, con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno.

Il lavoratore, in sostanza, deve conoscere preventivamente il periodo di svolgimento della sua prestazione.

La Suprema Corte ha quindi osservato che, ove tale condizione sia soddisfatta, il contratto di lavoro a tempo parziale risulta del tutto  compatibile con un'organizzazione del lavoro articolata su turni predefiniti, purché ciò abbia carattere convenzionale, sottraendosi ad ogni variazione unilaterale del datore di lavoro, anche nell'ipotesi di clausole cosiddette elastiche  (2).

Ricapitolando, qualora il contratto di lavoro part-time preveda una precisa e predeterminata articolazione della prestazione su turni, garantendo al lavoratore l’esatta conoscenza del tempo del suo impegno lavorativo, il rapporto deve ritenersi validamente stipulato, rimanendo escluso il potere del datore di lavoro di variare l'orario lavorativo a suo arbitrio, senza alcuna preventiva concertazione.

A detta della Cassazione, questa particolare regolamentazione del contratto di lavoro non è incompatibile con il regime delle assunzioni obbligatorie e, parimenti, nelle norme che disciplinano i contratti di lavoro a tempo parziale (3), non vi sono  disposizioni limitative per quanto riguarda i soggetti disabili.

Il sistema del collocamento obbligatorio, infatti, lascia all’autonomia delle parti la determinazione concreta di molteplici ed essenziali elementi contratto di lavoro, quali, ad esempio, la qualifica, le mansioni, la retribuzione ed il  patto di prova, e, pertanto, in mancanza di disposizioni contrarie, appare certamente lecito l’inserimento di una siffatta clausola nella richiesta di avviamento del disabile.

Si tratta di un’opzione che, tra l’altro, appare conforme all’esigenza di stimolare una maggiore diffusione della  collocazione   nel mercato del lavoro dei  disabili, efficacemente tutelati  dall'obbligo imposto al datore di lavoro di non richiedere agli stessi prestazioni non compatibili con le patite minorazioni (4).

In base alle richiamate considerazioni, la Cassazione ha concluso che, per rispondere ai questi avanzati, occorre verificare se, nel caso specifico, la richiesta di avviamento inoltrata dall’impresa agli uffici competenti contenga una chiara predeterminazione dell'orario di lavoro e dei turni su cui deve articolarsi la prestazione lavorativa, in modo da assicurare un assetto contrattuale certo, inerente alla sua collocazione temporale.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Art.2, comma 2, del  D.Lgs. n.61 del 25 febbraio 2000;
(2)   – Di cui all’art.3 del D.Lgs. n.61/2000;
(3)   – Art.3 del D.Lgs. n.61/2000;
(4)   - Art.10 della Legge n.68/1999;

Crescono gli stranieri occupati in Italia

Nei giorni scorsi l’Inail ha diffuso  il rapporto  "Gli immigrati nel mercato del lavoro in Italia", predisposto dal Ministero del Lavoro  e realizzato in collaborazione con la Direzione Generale per le Politiche per i Servizi per il Lavoro, l’Inail, l’Inps, Unioncamere, e con il  coordinamento di Italia Lavoro.

Dall’analisi emerge che nel corso del 2013 è cresciuta in Italia l’occupazione dei lavoratori stranieri, con un incremento rispetto all’anno precedente di 22mila unità, tuttavia, resta alta la preoccupazione per il sommerso e per la generale stagnazione del mercato occupazionale, che non ha risparmiato  la forza lavoro immigrata.

In totale, sono stati 2.355.923 gli stranieri che nell'ultimo anno hanno trovato un impiego nel nostro Paese.

Se dal 2007 al 2013  l'occupazione degli italiani ha registrato un calo di 1,6 milioni di unità, quella degli stranieri, invece, è aumentata di 853mila unità, raggiungendo un'incidenza del 10,5% sul totale degli occupati.

Sempre a proposito del 2013, l’andamento occupazionale degli stranieri risulta in controtendenza rispetto a quello che interessa gli italiani, nel quale, al contrario, si è registrata una flessione di 500 mila unità.

Nel nostro Paese, dunque, il tasso di occupazione straniera rimane più alto rispetto a quello della popolazione autoctona con il 58,1% a fronte del 55%, mentre in altre nazioni dell’Unione Europea, come Francia, Regno Unito o Germania, accade esattamente il contrario.

Con il 19,7%, il settore delle costruzioni è quello che impiega di più i lavoratori stranieri. Al secondo posto l’agricoltura, che ha registrato la percentuale del 13,6%.

Il lavoro immigrato, inoltre, è apprezzato in modo crescente nei servizi di cura, con  l’80%  rispetto al totale degli impiegati. In questo ambito, la componente femminile assume una particolare incidenza, specie nelle mansioni di badante e di assistente alla persona, settore nel quale, su base annua,  l'occupazione degli stranieri è stata  pari al 43,8%.

Ad essere inquadrato è soprattutto il lavoro manuale non qualificato.

A parità di un elevato livello di istruzione , corrispondente al possesso di laurea e post lauream,  la quota di lavoratori stranieri impiegati con mansioni di basso livello è pari al 22,6% del totale, a fronte dello 0,4% degli italiani.

Nel commentare i dati appena richiamati, il sottosegretario al lavoro, Franca Biondelli, ha espresso la preoccupazione per la crescita esponenziale registrata negli ultimi anni dal lavoro sommerso, settore nel quale non rientrano solo i clandestini in arrivo da un altro Paese, ma anche persone immigrate da tempo e con famiglia, che spesso hanno perso il lavoro e, pur di rimanere in Italia, accettano di svolgere prestazioni  in nero.

Per tale ragione, il sottosegretario ha ribadito l’importanza di una mappatura del sommerso e la necessità di  promuovere politiche attive di inserimento, formazione e qualificazione.

Per quanto riguarda  l'impatto della crisi economica sulle fasce di età inferiori ai 30 anni, dal 2007 al 2013 l'occupazione degli under 30 italiani è calata drasticamente di 1,162 milioni di unità,  a fronte di una crescita dei giovani stranieri di circa 63mila ragazzi.

Il rapporto evidenzia che la necessità di reperire personale per lo svolgimento di mansioni in settori tradizionalmente connotati da andamenti asimmetrici rispetto al ciclo economico garantisce una più ampia appetibilità della forza lavoro immigrata e dunque, in caso di perdita dell'occupazione, maggiore rapidità nel rientrare nel mercato.

Da segnalare, inoltre, che ammontano a 385.179 gli immigrati con età tra i 15 ed i 29 anni inclusi tra le persone inattive e al di fuori dei sistemi formativi, il 66% dei quali è rappresentato dalle donne.

In molti casi si tratta di giovani arrivati nel nostro Paese in seguito a ricongiungimenti familiari. Come detto, il fenomeno riguarda soprattutto le ragazze,  anche a causa della componente culturale che impone alle donne di restare a casa e agli uomini lavorare.

Si tratta di un aspetto questo che, inevitabilmente, dovrà essere affrontato, soprattutto a beneficio  delle seconde generazioni.

In aumento, infine, la popolazione straniera inattiva, che nel 2013 ha raggiunto quota 1.275.343, con un aumento su base annua di 77 mila unità.

Tale aumento  ha interessato principalmente la componente extra Ue, con un incremento  di 52 mila unità, dovuta al fenomeno dei ricongiungimenti familiari, all' aumento del numero degli stranieri di seconda generazione e alle quote di ingresso non programmate di popolazione straniera non comunitaria, come, ad esempio, i richiedenti protezione internazionale.

Valerio Pollastrini

Requisiti del patto di prova

Nella sentenza n.17591 del 4 agosto 2014, la Corte di Cassazione ha riepilogato i requisiti richiesti per la validità del patto di prova, con particolare riguardo alla definizione contrattuale delle mansioni assegnate al lavoratore.

Nel caso di specie, il dipendente aveva impugnato il licenziamento deducendo la nullità del patto di prova contenuto nel suo contratto di assunzione, in quanto privo della specifica indicazione delle mansioni, nonché per divergenza tra le mansioni di responsabile dell’ufficio tecnico  e quelle di addetto all’ufficio tecnico concretamente svolte nel corso del rapporto di lavoro.

La Corte di Appello di Genova, riformando la sentenza del Tribunale, aveva però ritenuto legittimo il recesso, osservando che,  ai fini della corretta indicazione delle mansioni da svolgere, sia sufficiente  il semplice  riferimento alla previsione delle declaratorie contrattuali, purché attraverso di essa il lavoratore risulti in grado di conoscere le funzioni da svolgere e che il periodo di prova decorra effettivamente nella concreta esecuzione delle stesse.

Nella lettera di assunzione, il lavoratore era stato inquadrato con la qualifica di Quadro Cat.7Q del C.C.N.L. Industria Metalmeccanica Privata ed Installazione di Impianti, il cui art.4 ne definisce le mansioni di Responsabile Ufficio Tecnico.

Secondo il Giudice dell’appello, il riferimento alla descrizione della suddetta mansione previste nel C.C.N.L. ne consentiva una sufficiente determinazione, tale da permettere al lavoratore di conoscere il suo campo di azione e, quindi, l’oggetto della prova.

La Corte del merito, inoltre, aveva escluso la supposta divergenza delle mansioni svolte di fatto rispetto a quelle contrattualmente prefissate, in quanto nella lettera con la quale il ricorrente aveva contestato la valutazione negativa dell’attività svolta,  nel riepilogare i compiti assolti per il raggiungimento degli obiettivi preposti, aveva indicato funzioni  rientranti appieno in quelle del responsabile dell’ufficio tecnico.

Investita della questione, la Suprema Corte ha premesso che “il patto di prova apposto al contratto di lavoro, oltre a dover risultare da atto scritto, deve contenere la specifica indicazione delle mansioni che ne costituiscono l’oggetto, che, tuttavia, specie quando trattasi di lavoro intellettuale e non meramente esecutivo, non debbono necessariamente essere indicate in dettaglio, essendo sufficiente che, in base alla formula adoperata nel documento contrattuale, siano determinabili(1).

La Suprema Corte ha poi ribadito che, ai fini della validità del patto di prova, la specifica indicazione  delle mansioni che ne costituiscono l'oggetto può essere operata anche per relationem  alle declaratorie del contratto collettivo che definiscano le mansioni comprese nella qualifica di assunzione e sempre che il richiamo sia sufficientemente specifico (2).

Tanto premesso, gli ermellini hanno sottolineato che, nel ritenere sufficientemente determinata la descrizione delle mansioni attraverso il riferimento alla declaratoria del C.C.N.L. applicato, la Corte di Appello avesse correttamente applicato i principi sopra menzionati e che, pertanto, il lavoratore fosse pienamente in grado di conoscere il proprio campo di azione e, quindi, l’oggetto della prova.

La Cassazione, infine, ha negato ogni fondamento alla censura proposta dal ricorrente in merito alla divergenza tra le mansioni contrattuali e quelle svolte di fatto, confermando il valore probante della lettera con la quale lo stesso aveva contestato la valutazione negativa del proprio operato elencando, tra i compiti assolti, quelli rientranti nella funzione attribuitagli all’atto dell’assunzione.

Per tutte le richiamate motivazioni, la Cassazione ha rigettato il ricorso e, nel confermare la legittimità del licenziamento, ha condannato il lavoratore al pagamento delle spese del processo di legittimità, liquidate in 4.000,00 € per compensi professionali, 100,00 € per esborsi,  oltre accessori come per legge.

Valerio Pollastrini

 
1)      -  Cass., Sentenza n.1957 del  27 gennaio 2011;

2)      - Cass., Sentenza n.11722 del  20 maggio 2009;