Nella
premessa, la Suprema Corte ha ricordato che il D.P.R. n. 268/1987 (1), relativo al
personale degli Enti Locali, prevede, al primo comma, che le prestazioni di
lavoro straordinario sono rivolte a fronteggiare situazioni di lavoro
eccezionali e non possono essere utilizzate come fatto ordinario di programmazione
del tempo di lavoro e di copertura dell’orario di lavoro, mentre il secondo
comma stabilisce che la prestazione di lavoro straordinario è disposta sulla
base delle esigenze individuate dall’Amministrazione, rimanendo esclusa ogni
forma generalizzata di autorizzazione.
Si
tratta di disposizioni il cui intento è quello
di limitare il ricorso al lavoro straordinario ai fini del contenimento
della spesa pubblica.
Parimenti,
nessun obbligo per il dipendente è previsto in tal senso dal CCNL 1994-1997 per
il personale del comparto delle Regioni e delle Autonomie Locali, nonché dal successivo CCNL 1998-2001, il quale
si limita a dettare previsioni in ordine alle risorse finanziarie utilizzabili
per il lavoro straordinario e per il contenimento dello stesso, fissando il
limite annuale massimo di 180 ore.
Posto
dunque che nella specie trova applicazione il R.D. n. 692 del 1923 (2), la Cassazione
ha sottolineato che il predetto art. 5-bis dispone, al secondo comma, che il
ricorso al lavoro straordinario deve essere contenuto e che, "in assenza di disciplina ad opera dei
contratti collettivi nazionali", esso "è ammesso soltanto previo accordo tra datore e prestatore di lavoro".
Lo
stesso R.D. aggiunge poi al secondo comma, che il ricorso al lavoro
straordinario "è inoltre ammesso,
salvo diversa previsione del contratto collettivo", tra l’altro, nei
"casi di eccezionali esigenze
tecnico-produttive e di impossibilità di fronteggiarle attraverso l’assunzione
di altri lavoratori”.
Il
Comune aveva dedotto che, in base a tali disposizioni, la dipendente non
avrebbe potuto sottrarsi all’espletamento del lavoro straordinario, poiché la convocazione serale del Consiglio Comunale
sarebbe stata dettata da una "eccezionale
esigenza", imposta dalla necessità di permettere ai consiglieri di contemperare la funzione esercitata con le
esigenze di lavoro.
Tuttavia,
tale disposizione non esclude la prestazione del consenso da parte del
lavoratore, disponendo che il ricorso al lavoro straordinario è ammesso "soltanto" previo accordo tra datore
e prestatore di lavoro ed "inoltre"
in casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive. Proprio tale ultimo
avverbio, in luogo della locuzione "in
ogni caso", evidenzia che, oltre all’imprescindibile consenso del
prestatore di lavoro, occorre anche la sussistenza delle esigenze anzidette,
peraltro non fronteggiabili attraverso l’assunzione di altri lavoratori.
Gli
ermellini, inoltre, hanno aggiunto che, nella specie, le convocazioni in orario
serale erano divenute la regola e non erano quindi dettate da esigenze
straordinarie ed occasionali.
Il
rifiuto della dipendente, il cui orario di servizio era dalle ore 7,30 alle
13,30, doveva pertanto considerarsi legittimo.
Al
riguardo, la Corte di legittimità ha già
avuto modo di chiarire che, anche nelle ipotesi in cui la contrattazione
collettiva prevede la facoltà, per il datore di lavoro, di richiedere
prestazioni straordinarie - non è il caso in esame -, l’esercizio di tale
facoltà deve essere esercitato secondo le regole di correttezza e di buona
fede, poste dagli arti. 1175 e 1375 cod. civ., nel contenuto determinato
dall’art.41, secondo comma, Cost. (3).
Alla
stregua di tutto quanto precede deve escludersi che il datore di lavoro possa
imporre ai propri dipendenti lo svolgimento del lavoro straordinario.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
che ha recepito la disciplina prevista dagli accordi sindacali per il triennio
1985-1987;
(2)
- nel testo di cui all’art.1 del D.L. n.335/1998,
convertito, con modificazioni, nella Legge n.409/1998 - disposizione questa
riprodotta dall’art.5 del D.Lgs. n.66 dell’ 8 aprile 2003 n. 66, emanato in
attuazione delle direttive CE, non applicabile ratione temporis;
(3)
-
Cass., Sentenza n.11821 del 5 agosto 2003;
Cass., Sentenza n.2161 del 7 aprile 1982; Cass., Sentenza n.2073 del 19
febbraio 1992, la quale ha escluso la configurabilità dell’illecito
disciplinare in relazione al rifiuto da parte del lavoratore di riprendere servizio
dopo circa otto ore dalla fine del turno notturno per svolgere lavoro
straordinario, non essendo la relativa richiesta giustificata da esigenze aziendali
assolutamente prevalenti;
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