Chi siamo


MEDIA-LABOR Srl - News dal mondo del lavoro e dell'economia


lunedì 12 maggio 2014

Pubblico Impiego: chiarimenti sul prepensionamento

Nella Circolare Funzione Pubblica n.4 del 28 aprile 2014 sono stati forniti gli indirizzi operativi sulla possibilità per la Pubblica Amministrazione di ricorrere ad alcuni strumenti finalizzati ad una migliore allocazione del personale, con la definizione, in particolare, dei limiti entro i quali ammettere il ricorso al c.d. “prepensionamento” per l’assorbimento delle eccedenze di personale, conseguenti alla riduzione delle dotazioni organiche, ovvero alla redazione di piani di ristrutturazione per ragioni funzionali o finanziarie, finalizzate alla diminuzione della  spesa per i dipendenti.

Nella premessa, la Circolare ha chiarito  che, in nessun caso,   il prepensionamento potrà essere  utilizzato come strumento per eludere il regime pensionistico introdotto dall'articolo 24 del Decreto Legge n.201 del 6 dicembre 2011 (1).

Definizioni
 Si intende per:

 a)    Soprannumerarietà -  Situazione in cui il personale complessivamente in servizio supera la dotazione organica in tutte le qualifiche, le categorie o le aree. In tal caso, l'Amministrazione non presenta posti vacanti utili per un'eventuale riconversione del personale o una diversa distribuzione dei posti;

 b)    Eccedenza -  Situazione per cui il personale quantitativamente in servizio  supera la dotazione organica in una o più qualifiche, categorie, aree o profili professionali di riferimento. Tale situazione si differenzia dalla soprannumerarietà, in quanto la disponibilità di posti in altri profili della stessa area o categoria, ove ricorrano le condizioni, potrebbe consentire la riconversione del personale;

 c)    Esubero -  Individuazione nominativa del personale in sovrannumero o eccedente. Il personale in esubero, ove ne ricorrano le condizioni, è quello da porre in prepensionamento,  o da mettere in disponibilità (2).

d)    Prepensionamento - Risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro del personale in soprannumero o eccedente, individuato in esubero, per il quale, fino al 31 dicembre 2016, è prevista l'ultrattività delle disposizioni relative ai requisiti di accesso al trattamento pensionistico e alle decorrenze di tale trattamento previgenti rispetto alla riforma prevista dall'articolo 24 del D.L. n. 201/2011.

Le cause della soprannumerarietà o dell’eccedenza di personale
Le situazioni di soprannumerarietà o di eccedenza di personale possono derivare da:

1)              Riduzione delle dotazioni organiche delle amministrazioni centrali disposta dall'articolo 2 del D.L. n.95 del  6 luglio 2012 (3);

2)              Ragioni funzionali, conseguenza degli interventi indicati nel successivo paragrafo 4;

3)              Ragioni finanziarie riferite a situazioni di squilibrio finanziario rilevate dal collegio dei revisori, dalla Corte dei conti, dall’ amministrazione vigilante o descritte da specifiche disposizioni normative;

4)              Piani di ristrutturazione decisi dalle Amministrazioni Pubbliche seguendo la procedura di ricognizione del fabbisogno derivante dal combinato disposto dell'articolo 6 e dell'articolo 33 del D.Lgs. n. 165/2001. Per quanto riguarda, in particolare, gli Enti Locali le situazioni in esame possono derivare dalla volontà dell'Ente di rientrare in un più virtuoso rapporto tra spesa di personale e spesa corrente (4).

Per la gestione delle situazioni sopra riportate, dovrà essere applicato il combinato disposto dell'articolo 33 del D.Lgs. n.165/2001 e dell'articolo 2, comma 11, del D.L n.95/2012.

In assenza di specifiche previsioni di legge, lo strumento in esame non potrà però essere utilizzato da altri organismi di diritto pubblico o dalle società partecipate da Amministrazioni Pubbliche.

La revisione del fabbisogno di personale
La revisione del fabbisogno di personale, conseguente all'attuazione di misure di razionalizzazione degli assetti organizzativi e dei procedimenti amministrativi, è una misura straordinaria e ulteriore rispetto alla ricognizione annuale ordinariamente prevista, i cui principi sono comunque applicabili anche in presenza di processi speciali di ristrutturazione.

L'obbligo, imposto agli organi di vertice delle Amministrazioni Pubbliche, di adottare la programmazione triennale del fabbisogno di personale, è previsto dall'articolo 39, comma 1, della Legge n.449 del  27 dicembre 1997, ribadito dall'articolo 6 del D.Lgs. n.165/2001.

La programmazione triennale del fabbisogno e la ricognizione annuale sono finalizzate a garantire la funzionalità e l'ottimizzazione delle risorse, nell'ottica del miglior funzionamento dei servizi compatibile con le disponibilità finanziarie e di bilancio, nonché nel rispetto dei vincoli previsti dalla normativa vigente in materia di dotazioni organiche, spesa di personale, regime delle assunzioni e mobilità obbligatoria e volontaria.

Il documento di programmazione triennale del fabbisogno di personale e i suoi aggiornamenti debbono essere elaborati su proposta dei competenti dirigenti, che individueranno i profili professionali necessari allo svolgimento dei compiti istituzionali delle strutture cui sono preposti (5).

Per gli atti organizzativi privi di ripercussioni sui rapporti di lavoro non è richiesta motivazione, ma dovranno comunque essere ispirati ai principi della razionalità, di efficienza, economicità, trasparenza e imparzialità, indispensabili per una corretta pianificazione delle politiche di personale e di reclutamento di risorse.

Gli atti di organizzazione, frutto di scelte strategiche non derivanti direttamente dalla legge, dovranno invece essere adeguatamente motivati nel caso in cui si riflettano sui rapporti di lavoro.

Anche per questa ragione, il citato articolo 6 del D.Lgs. n.165/2001 prevede che "nei casi in cui processi di riorganizzazione degli uffici comportano l'individuazione di esuberi o l'avvio di processi di mobilità, al fine di assicurare obiettività e trasparenza, le pubbliche amministrazioni sono tenute a darne informazione alle organizzazioni sindacali rappresentative del settore interessato e ad avviare con le stesse un esame sui criteri per l'individuazione degli esuberi o sulle modalità per i processi di mobilità. Decorsi trenta giorni dall'avvio dell'esame, in assenza dell'individuazione di criteri e modalità condivisi, la pubblica amministrazione procede alla dichiarazione di esubero e alla messa in mobilità. (…) Ai fini della mobilità collettiva le amministrazioni effettuano annualmente rilevazioni delle eccedenze di personale su base territoriale per categoria o area, qualifica e profilo professionale".

Procedure da seguire in caso di soprannumero o di eccedenza di personale
Nel caso in cui si verifichino situazioni di sovrannumero o eccedenze di personale, le Pubbliche Amministrazioni dovranno seguire le procedute definite dall'articolo 33 del D.Lgs. n.165/2001 e dall'articolo 2, comma 11, del D.L. n.95/2012.

La normativa di riferimento (6), impone al dirigente responsabile di informare preventivamente le Rappresentanze Unitarie del personale e le Organizzazioni Sindacali firmatarie del Contratto Collettivo Nazionale del comparto o area.

Sempre in relazione agli adempimenti di natura sindacale, al fine di assicurare obiettività e trasparenza, nei casi in cui i processi di riorganizzazione degli uffici comportino l'individuazione di esuberi o l'avvio di processi di mobilità,  le Pubbliche Amministrazioni sono tenute a darne informazione alle Organizzazioni Sindacali rappresentative del settore interessato e ad avviare con le stesse un esame sui criteri per l'individuazione degli esuberi o sulle modalità per avviare i processi di mobilità.

Decorsi trenta giorni dall'avvio dell'esame, in assenza dell'individuazione di criteri e modalità condivisi, la Pubblica Amministrazione potrà procedere alla dichiarazione di esubero e alla messa in mobilità (7).

Il comma 5 dell'articolo 33 del D.Lgs. n.165/2001 dispone che l'amministrazione dovrà applicare l'articolo 72, comma 11, del D.L n.112 del  25 giugno 2008 (8).

In subordine, l’amministrazione dovrà verificare la ricollocazione totale o parziale del personale in situazione di soprannumero o di eccedenza,  anche mediante il ricorso a forme flessibili di gestione del tempo di lavoro o a contratti di solidarietà.

Previo specifico accordo, è inoltre possibile effettuare la ricollocazione presso altre amministrazioni all’interno della stessa Regione (9).

I Contratti Collettivi Nazionali potranno comunque stabilire criteri generali e procedure per consentire il passaggio diretto ad altre amministrazioni anche al di fuori del territorio regionale.

Nel caso in cui l'amministrazione, in base all'ordine di priorità (10), ritenga di ricorrere alle misure del prepensionamento,  dovrà effettuare una ricognizione delle posizioni dei  lavoratori che potrebbero risultare in possesso dei requisiti anagrafici e contributivi applicati prima dell'entrata in vigore del D.L. n.201/2011 o che li possano conseguire in tempo utile per maturare la decorrenza del trattamento medesimo entro il 31 dicembre 2016.

Rispetto a tali posizioni, l'amministrazione, dovrà chiedere all'INPS la certificazione del diritto a pensione e della relativa decorrenza.

In proposito, l'Istituto Previdenziale dovrà rilasciare le dette certificazioni entro trenta giorni dall'invio degli  elenchi del personale da parte delle Amministrazioni che abbiano deciso di ricorrere alla misura del prepensionamento, assicurando altresì di provvedere, nello stesso termine, a richiedere agli Enti la certificazione dei periodi mancanti qualora la posizione assicurativa risultasse incompleta.

Solo dopo aver acquisito siffatta certificazione, nei limiti del soprannumero, l'amministrazione potrà procedere alla risoluzione unilaterale dei rapporti di lavoro dei dipendenti in possesso dei requisiti di legge (11).

Senza necessità di motivazione, trova applicazione anche l'articolo 72, comma 11, del D.L.  n.112/2008, che prevede la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro del personale dipendente a decorrere dal raggiungimento dei requisiti contributivi (12).

La tempistica di assorbimento delle eccedenze dovrà essere necessariamente fissata preventivamente e motivatamente. Dalla tempistica definita potrebbe rivelarsi sufficiente il ricorso al pensionamento ordinario che dovrà sempre essere preferito rispetto allo strumento del prepensionamento.

Le posizioni dichiarate eccedentarie non potranno essere ripristinate nella dotazione organica di ciascuna amministrazione (13).

Inoltre, le cessazioni disposte per prepensionamento, limitatamente al periodo di tempo necessario al raggiungimento dei requisiti previsti dall'articolo 24 del D.L. n.201/2011, non possono essere calcolate come risparmio utile per definire l'ammontare delle disponibilità finanziarie da destinare alle assunzioni o il numero delle unità sostituibili in relazione alle limitazioni del turn over (14).

Trascorsi novanta giorni dalla informativa inoltrata alle Organizzazioni Sindacali, l'amministrazione che non assorbe le eccedenze con il pensionamento ordinario o con il prepensionamento o con le altre modalità previste dall'articolo 33 del D.Lgs. n.165/2001 potrà collocare in disponibilità il personale.

Dalla data di collocamento in disponibilità restano sospese tutte le obbligazioni inerenti al rapporto di lavoro e il lavoratore avrà diritto ad un'indennità pari all'80 per cento dello stipendio e dell'indennità integrativa speciale, con esclusione di qualsiasi altro emolumento retributivo comunque denominato, per la durata massima di ventiquattro mesi (15).

I periodi di godimento dell'indennità saranno riconosciuti ai fini della determinazione dei requisiti di accesso alla pensione e della misura della stessa e daranno luogo all’erogazione dell'assegno per il nucleo familiare.

Allo scadere dei 24 mesi, il rapporto di lavoro sarà considerato definitivamente cessato.

Vincoli da rispettare in caso di ricorso al prepensionamento
Fino al 31 dicembre 2016, l’applicazione dell'articolo 2, comma 11, del decreto-legge n. 95 del 2012 è condizionata ai seguenti vincoli per la salvaguardia degli equilibri di finanza pubblica:

-         Le amministrazioni che dichiarano eccedenza di personale non possono ripristinare i posti soppressi nella dotazione organica. Dalla riduzione di quest'ultima deve scaturire una diminuzione strutturale della spesa di personale;

-         I prepensionamenti non possono essere conteggiati nell'immediato come risparmi utili ai fini del calcolo del budget da destinare a eventuali assunzioni;

-         Non sono consentite assunzioni, né di vincitori di concorso né di idonei, finché non è riassorbito il personale eccedentario nelle aree/categorie nelle quali è dichiarata l'eccedenza e non si sono create ulteriori vacanze in relazione al pensionamento ordinario.

In conclusione, le limitazioni ed i vincoli sopra illustrati, assicurano che le misure di prepensionamento non si ripercuotano negativamente sugli equilibri della finanza pubblica complessivamente intesa, ma anzi consentano dei risparmi. Ciò richiede che le amministrazioni pubbliche utilizzino correttamente questo strumento, realizzando riduzioni strutturali della spesa del personale, che potranno essere garantite e certificate solo dalla coerenza delle scelte operate dall'amministrazione anche nel medio periodo.

Sarà cura del collegio dei revisori, della Corte dei conti o dell’amministrazione vigilante, verificare che la misura adottata realizzi gli obiettivi predetti, favorendo anche un riequilibrio del bilancio della stessa amministrazione.

A tal scopo, le amministrazioni dovranno fornire ai suddetti organi di controllo informazioni complete sulle misure adottate, che dovranno essere accompagnate da una certificazione di conformità ai vincoli previsti dalla normativa vigente e agli obiettivi di riduzione di spesa perseguiti, come illustrati nella presente circolare.

La predetta certificazione, sottoscritta dal vertice amministrativo o dal dirigente responsabile in ragione dell'assetto organizzativo dell'ente, dovrà accompagnare la documentazione inoltrata all'Inps per la liquidazione dei prepensionamenti.

Le sedi territoriali dell'Inps, anche sulla base della predetta certificazione di conformità delle delibere di prepensionamento, procederanno quindi alla liquidazione dei trattamenti pensionistici, inoltrandone contestuale comunicazione alla Direzione centrale Previdenza/Pensioni.
                                                                                                
Valerio Pollastrini

 
(1)   - Convertito, con modificazioni, dalla Legge n.214 del 22 dicembre 2011;
(2)   - Ai sensi dell'articolo 33 del D.L n.165 del 30 marzo 2001;
(3)   – Convertito, con modificazioni, dalla Legge n.135 del 7 agosto 2012,
(4)   - Ai sensi dell'articolo 76, comma 7, del D.L. n.112/2008, convertito dalla Legge n.133/2008, le Regioni e gli Enti locali dovrebbero avere un'incidenza delle spese di personale pari o inferiore al 50 per cento delle spese correnti;
(5)   – Ai sensi del comma 4-bis dell’articolo 6 del D.Lgs. n.165/2001;
(6)   – Comma 4 dell'articolo 33 del D.Lgs. n.165/2001;
(7)   - Ai sensi dell'articolo 6 del D.Lgs. n.165/2001, così come modificato dall'articolo 2, comma 18, lettere a) e b), del D.L. n.95/2012;
(8)   - Convertito, con modificazioni, dalla Legge n.133 del 6 agosto 2008;
(9)   - Tenuto anche conto di quanto previsto dall'articolo 1, comma 29, del D.L. n.138 del  13 agosto 2011, convertito, con modificazioni, dalla Legge n.148 del  14 settembre 2011, nonché del comma 6;
(10)                      - Definito dall'articolo 2, comma 11, del D.L. n.95/2012,
(11)                      - Indicati nell’articolo 2, comma 6, del D.L. n.101/2013;
(12)                      - Di cui all'articolo 24, comma 20, del D.L. n.201/2011;
(13)                      – Come disposto dall’art.2, comma 3, del D.L. n.101/2013;
(14)                      – Ai sensi dell’art.14, comma 7, del D.L. n.95 del 6 luglio 2012;
(15)                      – Come previsto dall'articolo 33, comma 8, del D.Lgs. n.165/2001;

Autoliquidazione 2014 – Gli ultimi chiarimenti dell’Inail

Nella Circolare n.25 dello scorso 7 maggio  l’Inail ha fornito gli ultimi chiarimenti relativi all’autoliquidazione 2014, la cui scadenza è fissata per il 16 del mese corrente.

La nota contiene alcune indicazioni sulle modalità applicative della riduzione dei premi e dei contributi per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, disposta dalla c.d. “Legge di Stabilità 2014” (1).

In proposito, si ricorda che per il 2014 la percentuale di riduzione dell’importo dei premi e contributi  è stata fissata nella misura del  14,17% e,  ad eccezione delle fattispecie espressamente previste dalla norma citata, riguarda tutti i soggetti tenuti all’obbligo assicurativo.

La Circolare ha chiarito che l’aliquota ridotta potrà essere applicata, in via automatica, esclusivamente dalle aziende attive da oltre un biennio, che abbiano registrato nel triennio 2010-2012 un andamento infortunistico pari od inferiore a quello medio nazionale della lavorazione o attività svolta.

Le aziende attive da meno di un biennio, invece, potranno  beneficiare della riduzione, solo dopo aver presentato, in via telematica, l’istanza attestante  il rispetto delle norme in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Per verificare il possesso dei requisiti richiesti per la riduzione del tasso, le aziende dovranno tenere conto di quanto riferito nell’ultima lettera ricevuta dall’Inail tramite Pec o invio cartaceo. In via alternativa, sarà possibile  accedere alle basi di calcolo dall’area riservata del portale dell’Istituto.

Testo integrale della Circolare in commento:

Valerio Pollastrini

(1)   - Legge n.147/2013;

sabato 10 maggio 2014

In Gazzetta il Decreto sul premio di produttività 2014

Lo scorso  29 aprile è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Dpcm del 19 febbraio 2014, che ha regolamentato, anche per quest’anno, la tassazione agevolata sui premi di produttività, eventualmente corrisposti dalle aziende ai propri lavoratori.

Saranno solamente le aziende del settore privato a potersi avvalere dell’imposta sostitutiva del 10 % sui compensi aggiuntivi legati al rendimento, a patto, però, che i dipendenti beneficiari non abbiano percepito, nell’anno 2013, redditi da lavoro subordinato superiori  a 40.000,00 €, al lordo delle somme assoggettate ad imposta nel medesimo anno.

Per ciascun lavoratore, l’importo massimo del premio di produttività, al  quale sarà possibile applicare la suddetta aliquota agevolata, non potrà  superare  i 3.000,00 € annui lordi.

Valerio Pollastrini

L’imprenditore è responsabile per l’infarto del dipendente causato dagli eccessivi carichi lavorativi

Nella sentenza n.9945 dell’8 maggio 2014 la Corte di Cassazione ha ritenuto un imprenditore responsabile della morte di un dipendente, causata da un infarto riconducibile allo stress accumulato per l’eccessivo lavoro.  

Nella pronuncia, in sostanza, è stato affermato che il datore di lavoro  non può ignorare le modalità con le quali  ciascun collaboratore svolge le proprie prestazioni.

Il caso di specie è quello di un funzionario della Ericsson Tlc che, costantemente oberato  di una gran mole di lavoro, pur di raggiungere gli obiettivi aziendali, aveva preso l’abitudine di portare a casa la pratiche da espletare, esponendo il proprio fisico ad uno stress continuo, senza tuttavia lamentarsene.

Le undici ore di lavoro al giorno svolte in maniera costante, avevano però causato un infarto, in seguito al quale il dipendente era deceduto.

La società aveva adito la Cassazione dopo che la Corte di Appello di Roma, ribaltando la decisione del Tribunale, aveva riconosciuto, in favore della vedova e della figlia minorenne del lavoratore, un risarcimento del danno patrimoniale e materiale, liquidato, rispettivamente, in 434.000,00 € e 425.000,00 €, oltre agli oneri accessori.

Nel respingere il ricorso, la Suprema Corte ha ricordato come l’organizzazione del modello gestionale, così come la distribuzione del lavoro, sono competenze direttamente riconducibili alla  responsabilità aziendale.

Tale assunto sostiene adeguatamente la motivazione con la quale la Corte del merito aveva escluso che il datore di lavoro potesse sottrarsi agli addebiti  derivanti dalla inadeguatezza dei ritmi lavorativi.

Dall’istruttoria era emerso che, per lo smaltimento degli incarichi di competenza, il deceduto, ancorché non direttamente sollecitato dal datore di lavoro, fosse costretto a conformare i propri ritmi lavorativi all'esigenza di realizzare le prestazioni affidategli nei tempi richiesti dalle esigenze aziendali.

La disposta Ctu, aveva evidenziato l’elevato indice di probabilità, in base al quale l’infarto patito dal dipendente potesse essere correlato alle trascorse vicende lavorative.

Dinnanzi alla Suprema Corte, la società aveva dedotto che i serrati ritmi lavorativi sostenuti abitualmente dal dipendente fossero dovuti esclusivamente alla sua attitudine  ad espletare il proprio impegno professionale attraverso un particolare coinvolgimento intellettuale ed emotivo nella realizzazione degli obiettivi.

La Cassazione ha però ritenuto infondata una simile doglianza, ricordando come, in via generale,  il datore di lavoro non può sostenere la mancata conoscenza delle condizioni di lavoro nelle quali le mansioni affidate ai dipendenti vengano svolte concretamente.

In conclusione, in quanto espressione ed attuazione concreta dell'assetto organizzativo adottato dall'imprenditore con le proprie direttive e disposizioni interne, deve essere presunta la conoscenza, in capo ai vertici aziendali, delle modalità attraverso le quali ciascun dipendente svolge il proprio lavoro, salvo, ovviamente, non venga fornita una prova contraria.

Valerio Pollastrini

In assenza del mandato, il professionista non è responsabile

Nella sentenza n.10189 del 9 maggio 2014 la Corte di Cassazione ha affermato che, in assenza di un mandato, il cliente non può chiedere al proprio consulente il risarcimento del danno derivante dall’attività professionale.

Nel caso di specie, un contribuente aveva citato in giudizio l’ex commercialista che, contrariamente a quanto concordato con il cliente,  aveva omesso di impugnare una sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Verona per le somme richieste a titolo di Imposta sul Valore Aggiunto.

In seguito alla condanna definitiva al pagamento delle imposte pretese dal Fisco, in assenza della pendenza della lite, il contribuente non aveva avuto neppure la possibilità di usufruire del successivo condono disposto dalla Legge n.413/1991.

Questi, in sostanza, i fatti che avevano indotto il cliente ad agire nei confronti dell’ex commercialista.

Sia il Tribunale di Verona che la Corte di Appello di Venezia avevano accolto la domanda del contribuente, quantificando in 50.000,00 € il  risarcimento dovuto dal professionista.

Da ultimo, la Cassazione ha però sconfessato quanto disposto nei primi due gradi di giudizio, durante i quali era stata ritenuta irrilevante la presenza o meno di uno specifico conferimento dell’incarico di impugnare la decisione della Commissione Tributaria.

In conclusione, a detta della Suprema Corte, a carico del professionista sussiste l’obbligo di informazione nei confronti del cliente, solo nel caso sia dimostrato il conferimento dell’incarico.

Valerio Pollastrini

Istituito il codice tributo per il recupero in F24 del bonus di 80 euro

Con la risoluzione n.48/E del 7 maggio 2014 l’Agenzia delle Entrate ha istituito il codice tributo, attraverso il quale i sostituti d’imposta potranno recuperare nel Modello F24 il bonus di 80,00 € erogato ai propri dipendenti ai sensi dell’art.1 del D.L. n.66/2014.

Come chiarito nella precedente Circolare n.8/E dello scorso 28 aprile, il credito d’imposta deve essere automaticamente corrisposto agli aventi diritto dai datori di lavoro  che rivestono anche la qualifica di sostituti d’imposta.

Le aziende potranno recuperare le somme erogate attraverso il modello F24, portando in compensazione,  in primis, le ritenute IRPEF e, se queste non dovessero bastare, i contributi INPS dovuti nel mese di riferimento.

A tal fine, l’Agenzia delle Entrate ha predisposto il seguente codice:
-         1655”,  denominato “Recupero da parte dei sostituti d’imposta delle somme erogate ai sensi dell’articolo 1 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66”.

Il suddetto codice tributo dovrà essere esposto nel Modello F24, nella sezione “Erario”, in corrispondenza delle somme indicate nella colonna “importi a credito compensati”, con l’indicazione nel campo “rateazione/regione/prov./mese rif.” e nel campo “anno di riferimento”, del mese e dell’anno in cui è avvenuta l’erogazione del beneficio fiscale, rispettivamente nel formato “00MM” e “AAAA”.

Valerio Pollastrini

venerdì 9 maggio 2014

Individuazione del responsabile dell’infortunio nella società di capitali

Nella sentenza n.4968 del 31 gennaio 2014 la Corte di Cassazione ha affermato che, nelle imprese gestite da società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni e all’ igiene del lavoro a carico del datore di lavoro, gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione.

Nel caso di specie, il legale rappresentante di una società per azioni era stato chiamato in giudizio penale per l’omessa adozione dei necessari accorgimenti  per la sicurezza dei lavoratori impegnati nell'utilizzo delle attrezzature di sollevamento di carichi  e, in particolare, per avere omesso di assicurarsi che tali operazioni venissero correttamente progettate nonché adeguatamente controllate ed eseguite.

Secondo la tesi accusatoria, la condotta aziendale aveva causato le lesioni subite da un lavoratore che, mentre stava sollevando un fusto metallico del peso di 830 Kg. senza utilizzare gli appositi accessori, era stato colpito al volto da una trave di legno sospinta dal peso del fusto sganciatosi improvvisamente dai sostegni, riportando conseguenze fisiche che avevano scaturito una malattia guaribile dopo oltre quaranta giorni, con conseguente incapacità, per tale periodo, di attendere alle normali occupazioni.

Per tali ragioni,  il Tribunale aveva riconosciuto  l'imputato colpevole del reato ascrittogli, condannandolo alla pena di tre mesi di reclusione, sospesa ex art. 163 del codice penale,  ed al risarcimento dei danni alla parte civile da liquidarsi in separata sede.

Il giudicante aveva riconosciuto nel legale rappresentante della società il soggetto investito della qualifica di datore di lavoro, escludendo che la delega in materia di prevenzione infortuni e di igiene del lavoro, attribuita con una delibera assembleare ad altro componente del consiglio, potesse essere considerato un valido atto di conferimento ad altro soggetto degli obblighi di prevenzione e sorveglianza del datore di lavoro.

Al riguardo, il Tribunale aveva osservato  che la delega fosse priva del requisito di specificità in ordine ai compiti attribuiti, non preventivamente e dettagliatamente indicati. Il soggetto delegato era risultato privo della necessaria capacità tecnica  e nell’atto non vi era alcun riferimento al potere di spesa di quest’ultimo ed alla sua piena autonomia decisionale, nonché alla disponibilità di mezzi adeguati in relazione alla natura e complessità dell'incarico, disponibilità che invece era continuata a sussistere  in capo al rappresentante legale.

Indipendentemente dai requisiti della delega, al datore di lavoro era in ogni caso addebitabile la mancata valutazione del rischio e la negligente redazione del documento di valutazione dei rischi.

Questa decisione era stata successivamente confermata dalla Corte di Appello che, a sua volta, aveva posto in evidenza come la qualità di datore di lavoro fosse stata attestata  più volte dall’imputato legale rappresentante  in diversi atti e documenti della società.

Dall’analisi di un verbale dell’assemblea dei soci, la Corte del merito aveva rilevato che,  nella definizione del contenuto delle deleghe attribuite ai vari componenti del consiglio di amministrazione, non era stata fatta nessuna menzione ai poteri di gestione e di spesa attribuiti al delegato, a cui, invece, era stato conferito  il potere di generale direzione dello stabilimento, attraverso il quale, semmai, aveva assunto la qualità di preposto, con conseguente mantenimento, nella figura del presidente, dei poteri di gestione dell'impresa, comprensivi degli atti di straordinaria amministrazione e senza limiti di spesa.

Inoltre,  la ridotta capacità tecnica del delegato si era tradotta nella  mancata rilevazione del rischio insito nella movimentazione dei gusci dallo stesso progettata.

In ogni caso, il conferimento  del ruolo di Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione  non era sufficiente ad investire il soggetto preposto della  qualità di delegato alla sicurezza.

Nello stabilimento nel quale si era verificato  l’infortunio  operavano 27 dipendenti e non 40, come dedotto dall’azienda, pertanto, anche le dimensioni dell'impresa non consentivano  di attribuire rilevanza al principio di affidamento al fine dell'esonero della responsabilità.

Sulla base delle richiamate considerazioni, la Corte di Appello aveva escluso che il dovere di vigilanza e di controllo del legale rappresentante della società fossero venuti meno  attraverso la nomina del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, al quale erano stati affidati i compiti  di effettuare la valutazione dei rischi e di elaborare le misure preventive e protettive e le procedure di sicurezza relative alle varie attività aziendali.

Contro la sentenza della Corte di Appello, il legale rappresentante dell’azienda aveva proposto ricorso per Cassazione, contestando l’attribuita   qualifica di datore di lavoro ed il conseguente riconoscimento, a suo carico, della posizione di garanzia in relazione all'incidente accaduto al dipendente.

In proposito, il ricorrente aveva evidenziato  che la Corte di Appello non aveva tenuto conto della organizzazione effettiva dell’azienda, limitandosi invece a considerare solo quella formale, in base alla quale lo stesso era stato individuato come datore di lavoro della struttura.

Al di là della regolarità o meno della delega, la tesi dell’imputato sarebbe a suo dire avvalorata dal fatto che il direttore della struttura, che tra l’altro ricopriva già tale mansione da diversi anni, era anche componente del consiglio di amministrazione  e che lo stesso, con una delibera dell'assemblea dei soci, era stato incaricato a sovraintendere all'attività dello stabilimento e ad accertare che i lavori fossero stati predisposti e condotti nel rispetto delle normative in materia di infortuni e di igiene sul lavoro.

Sempre secondo il ricorrente, allo stesso direttore erano stati  attribuiti  i poteri di organizzazione dello stabilimento ed i poteri illimitati di spesa all'interno dell'azienda, per l’esercizio dei quali  non doveva essere preventivamente autorizzato dall’imputato.

Nell’individuare nel legale rappresentante il datore di lavoro della società, la Corte di Appello, dunque, non avrebbe tenuto conto dell’organizzazione di fatto presente nella gestione dell’azienda, limitandosi, invece, ad attribuire rilevanza al mero dato formale della firma apposta dall’imputato sul documento di valutazione rischi.

L’imputato aveva poi posto in evidenza che, conformemente al principio di diritto costantemente affermato dalla Corte di Cassazione, la  veste sostanziale di datore di lavoro doveva essere attribuita al direttore dello stabilimento e consigliere di amministrazione.

Richiamando un precedente della giurisprudenza di legittimità (1), il legale rappresentante aveva precisato che  nelle persone giuridiche e segnatamente nelle società di capitali il datore di lavoro si identifica con i soggetti effettivamente titolari di poteri decisionali e di spesa all'interno dell'azienda e quindi con i vertici dell'azienda stessa, quali il presidente del consiglio d'amministrazione, l'amministratore delegato o un componente del consiglio d'amministrazione al quale siano state attribuite le relative funzioni o nel preposto ad un determinato stabilimento. Nell'eventualità di una ripartizione di funzioni e di compiti nell'ambito del consiglio d'amministrazione ai sensi dell'articolo 2381 c.c., dei fatti illeciti compiuti dall'amministratore delegato o dal preposto ad un determinato stabilimento, risponde solo quest'ultimo, salvo che gli altri amministratori abbiano dolosamente omesso di vigilare o, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli per la società o dell'inidoneità del delegato, non siano intervenuti”.

Investita della questione, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ricordando come la Suprema Corte avesse già avuto modo di statuire che, nelle imprese gestite da società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni ed igiene sul lavoro, posti dalla legge a carico del datore di lavoro, gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione. 

Anche di fronte alla presenza di una eventuale delega di gestione conferita ad uno o più amministratori, specifica e comprensiva dei poteri di deliberazione e spesa, tale situazione può ridurre la portata della posizione di garanzia attribuita agli ulteriori componenti del consiglio, ma non escluderla interamente, poiché non possono comunque essere trasferiti i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo nel caso di mancato esercizio della delega.

Si tratta di un assunto pienamente confortato da quanto previsto, in merito alle Spa, nell'art.2392 c.c. vigente all'epoca dei fatti, in base al quale, nel prevedere che, nella gestione della società, gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dall'atto costitutivo, stabilisce che, anche se taluni compiti sono attribuiti ad uno o più amministratori, gli altri componenti sono solidalmente responsabili in caso di mancata vigilanza sul generale andamento della gestione.

Quanto poi alla validità della delega in presenza di difetti strutturali o di processo dell’azienda, la Cassazione ha  tenuto a precisare che,  in presenza di strutture aziendali complesse, la delega di funzioni esclude la riferibilità di eventi lesivi ai deleganti, sole se scaturiti da occasionali disfunzioni.

Nel caso in cui tali eventi  sono determinati da difetti strutturali aziendali e del processo produttivo,  invece, permane la responsabilità dei vertici aziendali e quindi di tutti i componenti del consiglio di amministrazione.

Diversamente opinando, si violerebbe il principio del divieto di totale derogabilità della posizione di garanzia, che attribuisce pur sempre a carico del delegante gli obblighi di vigilanza ed intervento sostitutivo.

La Suprema Corte ha quindi concluso che, anche in presenza di una  delega  ad uno o più amministratori di specifiche attribuzioni in materia di igiene del lavoro, la posizione di garanzia degli altri componenti del consiglio non viene meno, pur in presenza di una struttura aziendale complessa ed organizzata, con riferimento a ciò che attiene alle scelte aziendali di livello più alto in ordine alla organizzazione delle lavorazioni che attengono direttamente alla sfera di responsabilità del datore di lavoro.

Ciò è quanto accaduto nel caso in esame, nel quale è stato riscontrato che la violazione delle disposizioni a tutela della sicurezza dei lavoratori hanno riguardato un aspetto strutturale e permanente del processo produttivo interno allo stabilimento  e, in particolare, un momento molto delicato, come quello del sollevamento dei gusci, mai sottoposto ad adeguata attenzione e del quale  non si era tenuto conto nel documento di valutazione dei rischi.

In definitiva, tale violazione  non poteva essere imputata ad un fattore contingente e occasionale o comunque non prevedibile, rivelandosi talmente grave e "strutturale", da investire compiti e decisioni di alto livello aziendale non delegabili e proprie di tutti i membri del consiglio di amministrazione ed, in ogni caso, obblighi di sorveglianza e denuncia gravanti su ciascuno dei suoi componenti.

Valerio Pollastrini


(1)   – Cass., Sentenza n.12370 del 9 marzo 2005;

giovedì 8 maggio 2014

Ridotti i vincoli per gli appalti pubblici di lavori

Gli emendamenti al c.d. “Decreto Casa” (1), approvati il 6 maggio dalle Commissioni ottava e tredicesima del Senato, hanno notevolmente ridotto i vincoli negli appalti pubblici di lavori.

In particolare, sono state abbassate le limitazioni per i raggruppamenti temporanei di imprese e, con la soppressione, anche per i lavori, dell’equivalenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione, è stata concessa una maggior libertà  alle aziende nella fase esecutiva del contratto.

Tra le novità, si segnala, inoltre, l’introduzione, per il settore dei servizi e delle forniture, dell’obbligo dei requisiti minimi per i concorrenti raggruppati, fissati al 40% per la capogruppo ed al 10% per le mandanti.

Le modifiche in commento, hanno ridisegnato, in sostanza, la disciplina dei requisiti richiesti agli  operatori economici che si presentano in raggruppamento temporaneo o in consorzio.

Con l’attuazione delle nuove disposizioni verrà abrogato il comma 13 dell’art.37 del Codice dei Contratti Pubblici che attualmente prevede, per il solo settore dei lavori, che i concorrenti riuniti in raggruppamento siano obbligati ad  eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento stesso.

Si ricorda che questo vincolo era stato soppresso nell’agosto del 2012 solamente per il settore delle forniture e dei servizi, consentendo, dunque, in tale ambito la libertà per i concorrenti  di modificare in sede di esecuzione del contratto la quota di attività dichiarate per ognuno di essi nella fase di offerta, ovviamente con il vincolo della necessaria qualificazione.

Valerio Pollastrini


(1)   – Decreto Legge n.47 del 28 marzo 2014;

Lavoratori domestici stranieri, in arrivo una nuova guida Inail per la sicurezza

Con una nota pubblicata nel portale istituzionale, l’Inail ha annunciato per il prossimo 10 maggio, in occasione del convegno di Federcolf, la presentazione della guida “Casa sicura” , il nuovo opuscolo informativo realizzato  in cinque lingue  per promuovere la cultura della salute e della prevenzione di colf e badanti immigrati in Italia.

La pubblicazione conferma l’attenzione dell’Istituto verso i collaboratori familiari immigrati nel nostro Paese, esposti quotidianamente a rischi spesso ignorati o sottovalutati, come l’utilizzo di prodotti chimici o le cadute da scale e sedie, e si inserisce nel solco delle iniziative della campagna lanciata nel 2011 per prevenirli, incoraggiando l’adozione di comportamenti corretti.

Nel 2012 la campagna ha portato alla realizzazione di due originali materiali didattici, elaborati sulla base dei risultati di una ricerca condotta dalla Fondazione Labos sul tema del lavoro e degli infortuni domestici.

Si tratta di un’agenda sulla salute e la sicurezza, specificatamente pensata per colf e badanti stranieri, e un opuscolo destinato ai loro datori di lavoro.

Visto il successo dell’iniziativa, attualmente è in corso l’aggiornamento dei contenuti dell’agenda, che sarà riproposta nel 2015 in italiano, inglese, spagnolo, romeno, russo e francese.

Valerio Pollastrini

mercoledì 7 maggio 2014

Approvato in Senato il Decreto Lavoro

Con 158 voti favorevoli e 122 contrari, il Governo ha incassato oggi al Senato la fiducia sul Decreto Lavoro.

Il provvedimento tornerà alla Camera per l'approvazione definitiva, che, pena la decadenza, dovrà avvenire entro il prossimo 19 maggio.

Si riepilogano le modifiche al  Decreto dopo l’approvazione del Senato, in seguito al maxi-emendamento inserito in Commissione Lavoro dal Governo.

Riscritto innanzitutto il preambolo, con la chiara attribuzione alla disposizione della funzione di raccordo con il Disegno di Legge delega, dal momento che i provvedimenti contenuti includono, come obiettivo, il contratto a tempo indeterminato a protezione crescente, che dovrà essere esaminato nella delega.

Contratti a termine
Modificata la sanzione per le aziende che dovessero sforare il tetto massimo del 20% dei contratti a tempo determinato sul totale dei contratti a tempo indeterminato stipulati dall’azienda nell’anno in corso. Il nuovo testo prevede ora l’irrogazione di una multa al posto dell’originaria   trasformazione dei contratti eccedenti in contratti a tempo indeterminato.

Se il numero dei dipendenti assunti in violazione del limite percentuale non sia superiore ad uno, la sanzione amministrativa sarà pari al 20% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni di durata del rapporto di lavoro.

Se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale sia invece superiore a uno, la sanzione  sarà equivalente, per ogni dipendente, al 50% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni di durata del rapporto di lavoro.

Sono stati esclusi dall’obbligo di rispettare il richiamato tetto del 20% gli istituti pubblici e privati che operano nella ricerca, proprio in ragione della specificità dell’attività svolta. Stessa deroga per le tutte le aziende con meno di 5 dipendenti.

Apprendistato
Saranno solamente le aziende con oltre 50 dipendenti a dover stabilizzare almeno il 20% degli apprendisti e dunque non più i datori di lavoro con oltre  30 dipendenti, come invece previsto nel testo approvato alla Camera.

E’ stata inoltre inserita la possibilità di utilizzare l’apprendistato con la modalità del tempo determinato per le attività stagionali. Per entrare a regime, questa disposizione dovrà però essere recepita dalle Regioni.

Regime transitorio
Rispetto alla prima formulazione del Decreto, in Senato è stato predisposto un regime transitorio.

Per quanto riguarda i contratti a termine, fino al 31 dicembre 2014, oltre alla norma di legge sul limite  del 20%, avranno valore anche le regole già inserite nei contratti vigenti.

Le imprese dovranno cioè adeguarsi al tetto del 20%, a meno che il Contratto Collettivo applicabile sia più favorevole. Conseguentemente, il datore di lavoro, che all’entrata in vigore del Decreto abbia in corso rapporti di lavoro a termine superiori al tetto del 20%, avrà la possibilità  di rientrare nella soglia prevista entro la data del 31 dicembre,  a meno che il Contratto Collettivo applicabile nell’azienda disponga un limite-percentuale o un termine più favorevole.

Da ultimo, è stato disposto  che il diritto di precedenza per le donne in gravidanza sia previsto nel contratto di lavoro individuale.

Valerio Pollastrini

Trasporto pubblico locale - Luogo di inizio e termine servizio non coincidenti – Retribuzione del tempo di viaggio

Nella sentenza n.9383 del  29 aprile 2014 la  Corte di Cassazione ha affermato che, nell’ambito del trasporto pubblico locale, qualora i luoghi di inizio e termine del servizio svolto dagli autisti non coincidano, il diritto dei lavoratori ad un compenso aggiuntivo sussiste solamente nel caso in cui tale condizione risulti imposta dal datore di lavoro.

 
Nel caso in commento, alcuni conducenti di linea, alle dipendenze di un’azienda di trasporto pubblico locale, premettendo che il luogo di inizio della loro prestazione lavorativa non coincidesse con quello in cui la stessa aveva termine e che, alla fine di ogni turno, il tempo di viaggio impiegato per raggiungere il luogo di partenza non fosse stato mai retribuito dal datore di lavoro, si erano rivolti al Tribunale di Napoli chiedendo che tale tempo di viaggio venisse considerato come lavoro effettivo, con il riconoscimento del diritto a percepire la metà della retribuzione ai sensi dell’art. 17, lett. c), del  R.D.L. n. 2328 del 19 ottobre 1923.

Dopo che il Tribunale adito aveva respinto i ricorsi,  la Corte di Appello di Napoli, in riforma della decisione di primo grado, aveva accolto le domande dei lavoratori, condannando l’Azienda a corrispondere in loro favore le relative differenze retributive.

In particolare, la Corte del merito, preso atto che la mancata coincidenza del luogo di inizio con quello di cessazione del lavoro giornaliero non fosse determinata da disposizioni aziendali, ma costituisse una  libera scelta dei dipendenti, aveva osservato che tale circostanza non valesse ad escludere l’applicabilità della norma sopra richiamata.

Il presupposto della disposizione di legge è infatti la separazione spaziale tra il luogo di inizio e quello di cessazione del lavoro, con la conseguente necessità dello spostamento del lavoratore dall’uno all’altro luogo, senza che occorra alcuna dimostrazione della connessione causale di questa separazione con le necessità aziendali.

L’interpretazione secondo la quale la norma andrebbe applicata solo nell’ipotesi in cui sia imposto obbligatoriamente al dipendente di raggiungere due diverse località per iniziare il proprio servizio ovvero per farvi ritorno a servizio compiuto, doveva, pertanto, considerarsi riduttiva.

Ciò che la norma presuppone per qualificare come comandato lo spostamento, infatti, è rappresentato unicamente dalla separazione dei luoghi di inizio e termine della prestazione lavorativa giornaliera.

Nella specie, acclarato che le modalità di svolgimento del lavoro prevedessero località differenti di inizio e termine della prestazione, per l’applicabilità della norma dedotta non era dunque necessaria alcuna prova in ordine alla durata degli spostamenti effettuati dai dipendenti.

Conseguentemente, il giudicante aveva ritenuto dovuto il compenso reclamato dai lavoratori, in quanto, per l’appunto,   relativo  agli spostamenti compiuti oltre l’orario di lavoro giornaliero.

Avverso questa sentenza l’azienda aveva proposto ricorso per Cassazione, denunziando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 17, lett. c), R.D.L. n. 2328 del 1923 e dell’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale.

La ricorrente aveva rilevato come la norma in questione miri a ricompensare il tempo impiegato dal lavoratore per gli spostamenti, da una località ad un’altra, per prendere servizio, e il tempo impiegato per fare ritorno a servizio compiuto. Spostamenti eseguiti nell’osservanza di disposizioni aziendali circa luoghi ed orari di lavoro impartite dal datore di lavoro, e perciò del tutto equivalenti a quelli “comandati”.

L’Azienda aveva quindi lamentato di non aver mai imposto ai lavoratori un obbligo in tal senso. I dipendenti in questione, infatti,  una volta iniziata la prestazione  presso il c.d. deposito, non erano  tenuti a far ritorno al luogo iniziale, né, quando iniziavano la prestazione nel c.d. posto di cambio, dovevano far ritorno in tale ultimo luogo.

I lavoratori erano liberi di organizzare i loro spostamenti in base a scelte discrezionali, dettate esclusivamente da proprie comodità personali.

La mancata coincidenza del luogo di inizio della prestazione lavorativa con quello di cessazione della stessa, non derivando da un’imposizione aziendale, escluderebbe che gli spostamenti del lavoratore fossero stati “comandati”. Ciò, in base alla tesi ricorrente,  non consentirebbe l’applicazione della disposizione in esame.

Investita della questione,  la Suprema Corte ha ricordato che l’art. 17, lett. c), del  R.D.L. n.2328 del 19 ottobre 1923,  dispone che “si computa come lavoro effettivo la metà del tempo impiegato per recarsi, senza prestare servizio, con un mezzo gratuito di servizio in viaggi comandati da una località ad un’altra per prendere servizio o fare ritorno a servizio compiuto”.

La Cassazione ha quindi osservato che, in base alle comuni più diffuse esigenze, la norma richiamata considera che il dipendente, al termine del lavoro, ripercorra la stessa strada con la quale si era inizialmente recato al lavoro ed abbia in tal modo interesse a concludere la prestazione nel luogo di inizio.

Quando ciò non fosse possibile a causa della programmazione aziendale, il tempo necessario allo spostamento dall’uno all’altro luogo deve assumere la natura di tempo di lavoro.

I presupposti per l’applicabilità della norma in esame, pertanto, non sono l’utilizzo del mezzo gratuito di servizio, né il fatto che il lavoratore si rechi al lavoro con un proprio mezzo, con mezzi pubblici o a piedi, bensì,  la non coincidenza del luogo di inizio con il luogo di cessazione del lavoro giornaliero e la circostanza  che questa non coincidenza sia determinata non da una scelta del lavoratore, ma  dalla  necessità logistica aziendale affinché il lavoro inizi in un determinato luogo e cessi in un altro.

Tali presupposti,  inducono a ritenere che la norma sia diretta a compensare il tempo che il dipendente impiega per recarsi dall’uno all’altro luogo. Spostamento che, tuttavia, assume rilievo solo all’inizio o alla cessazione del lavoro da prestare in azienda, posto che lo spostamento che avviene nel corso della giornata lavorativa risulta compensato attraverso l’ordinaria retribuzione.

In altri termini il fondamento del diritto in esame è la separazione spaziale fra luogo di inizio e luogo di cessazione del lavoro e che tale separazione non sia il prodotto di una scelta del lavoratore, ma sia oggettivamente predeterminata dalla programmazione del lavoro aziendale, che inizia in un luogo e si conclude in un altro.

Tale assunto, per i giudici di legittimità,  trova conforto dalla chiara dizione utilizzata dal legislatore di “viaggi comandati” e nella ratio del citato art. 17 R.D.L. n. 2328 del 1923, che attestano la necessità che le esigenze aziendali - a fronte delle quali si giustifica la richiesta del compenso rivendicato - vengano valutati da coloro che per le mansioni svolte hanno il compito, con l’assunzione di una propria personale responsabilità, di predeterminare la programmazione dei viaggi con modalità che ne consentano poi - in ragione della funzione di pubblico interesse dell’azienda - il doveroso controllo.

Al riguardo, la stessa Corte  di Cassazione ha costantemente affermato (1)  il principio di diritto, secondo cui al fine di poter considerare come lavoro effettivo la metà del tempo impiegato dal lavoratore dipendente di una società di pubblici servizi di trasporto in concessione per recarsi, “senza prestare servizio, con un mezzo gratuito di servizio in viaggi comandati da una località all’altra per prendere servizio o fare ritorno a servizio compiuto”, è necessario che non via sia coincidenza del luogo di inizio con quello di cessazione del lavoro giornaliero e che tale circostanza sia determinata non da una scelta del lavoratore, bensì, in via esclusiva, da una necessità logistica aziendale, rimanendo irrilevante l’uso del mezzo gratuito di servizio da parte del lavoratore o che quest’ultimo si rechi al lavoro con un proprio mezzo ovvero con mezzi pubblici od anche a piedi.

Concorrendo tali condizioni, il lavoratore può ottenere il riconoscimento del diritto previsto dalla suddetta norma, il cui fondamento è insito nell’esigenza di compensare il tempo necessario al menzionato spostamento indotto dall’organizzazione del lavoro riconducibile all’azienda.

Nella fattispecie in esame la Corte di merito, pur avendo preso  atto che gli stessi lavoratori avessero  ammesso che la mancata coincidenza del luogo di inizio con quello di cessazione del lavoro giornaliero non fosse determinata da disposizioni aziendali, ma costituisse una loro libera scelta, ha tuttavia ritenuto che tale scelta non valesse ad escludere l’applicabilità della norma in questione.

Così facendo, però, la Corte territoriale non si era  posta in linea con i principi di diritto sopra affermati,  secondo i quali il computo del tempo di viaggio ai fini indicati presuppone, non solo che non vi sia coincidenza del luogo di inizio con quello di cessazione del lavoro giornaliero, ma che tale circostanza sia determinata altresì non da una libera scelta del lavoratore, ma, esclusivamente, da specifiche disposizioni aziendali.

In altri termini, una volta accertato che gli spostamenti dei lavoratori, all’inizio o alla cessazione del lavoro da prestare in azienda, non erano imposti da esigenze organizzative aziendali e che i dipendenti non avevano interesse a concludere la prestazione nel luogo in cui questa era stata iniziata, viene meno il presupposto del “viaggio comandato”, e cioè del trasferimento inevitabile per l’organizzazione dei turni derivante da disposizione aziendale.

Per tale ragione, la Suprema Corte ha concluso con l’accoglimento del ricorso aziendale e, rilevando come non fossero necessari ulteriori accertamenti di fatto, ha deciso la causa  nel merito, con il rigetto dell’originaria domanda proposta dai lavoratori.

Valerio Pollastrini


(1)   - Cass., Sentenza  n.3575 del 20 febbraio 2006; Cass., Sentenza n.4496 del 21 febbraio 2008; Cass., Sentenza  n.7197 del 25 marzo 2010; Cass., Sentenza    n. 8355 dell’8 aprile 2010; Cass., Sentenza n.10020 del 6 maggio 2011; Cass., Sentenza n.26581 del 12 dicembre 2011;

Le novità annunciate per il Pubblico Impiego

Durante il Consiglio dei Ministri dello scorso 30 aprile, il Presidente Renzi ed il Ministro per la Pubblica Amministrazione Marianna Madia hanno illustrato  i  punti fondamentali della prossima  Riforma della Pubblica Amministrazione.

Per quanto attiene agli aspetti relativi alla gestione dei rapporti di lavoro nel Pubblico Impiego, si preannunciano diverse novità per il personale e per i dirigenti.

Tra i provvedimenti elencati, si segnalano  la programmazione strategica dei fabbisogni, alcune misure finalizzate a garantire un ricambio generazionale, una maggiore mobilità volontaria ed obbligatoria, l’introduzione di criteri per una corretta valutazione dei risultati e la possibilità di licenziare il dirigente rimasto  privo di incarico oltre un determinato termine.

Uno degli obiettivi è quello rivolto ad una migliore conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, attraverso l’introduzione degli asili nido nelle singole Amministrazioni ed il ricorso al  part-time.

Il Governo si è poi  impegnato  ad introdurre il ruolo unico della dirigenza e ad abolire la figura del Segretario Comunale.

Le nuove norme non avranno una valenza immediata, dal momento che le tre linee guida della Riforma  saranno sottoposte ad una consultazione pubblica, alla quale i cittadini  potranno partecipare, fornendo suggerimenti e proposte entro il prossimo 30 maggio all’indirizzo rivoluzione@governo.it

Esaurita la fase consultiva, il Governo predisporrà le misure concrete della Riforma, che il 13 giugno verranno sottoposte all’approvazione del Consiglio dei Ministri.

Valerio Pollastrini