Nella
pronuncia, in sostanza, è stato affermato che il datore di lavoro non può ignorare le modalità con le quali ciascun collaboratore svolge le proprie
prestazioni.
Il
caso di specie è quello di un funzionario della Ericsson Tlc che, costantemente
oberato di una gran mole di lavoro, pur
di raggiungere gli obiettivi aziendali, aveva preso l’abitudine di portare a
casa la pratiche da espletare, esponendo il proprio fisico ad uno stress
continuo, senza tuttavia lamentarsene.
Le
undici ore di lavoro al giorno svolte in maniera costante, avevano però causato
un infarto, in seguito al quale il dipendente era deceduto.
La
società aveva adito la Cassazione dopo che la Corte di Appello di Roma, ribaltando
la decisione del Tribunale, aveva riconosciuto, in favore della vedova e della figlia
minorenne del lavoratore, un risarcimento del danno patrimoniale e materiale,
liquidato, rispettivamente, in 434.000,00 € e 425.000,00 €, oltre agli oneri
accessori.
Nel
respingere il ricorso, la Suprema Corte ha ricordato come l’organizzazione del
modello gestionale, così come la distribuzione del lavoro, sono competenze
direttamente riconducibili alla responsabilità aziendale.
Tale
assunto sostiene adeguatamente la motivazione con la quale la Corte del merito aveva
escluso che il datore di lavoro potesse sottrarsi agli addebiti derivanti dalla inadeguatezza dei ritmi
lavorativi.
Dall’istruttoria
era emerso che, per lo smaltimento degli incarichi di competenza, il deceduto,
ancorché non direttamente sollecitato dal datore di lavoro, fosse costretto a
conformare i propri ritmi lavorativi all'esigenza di realizzare le prestazioni
affidategli nei tempi richiesti dalle esigenze aziendali.
La
disposta Ctu, aveva evidenziato l’elevato indice di probabilità, in base al
quale l’infarto patito dal dipendente potesse essere correlato alle trascorse
vicende lavorative.
Dinnanzi
alla Suprema Corte, la società aveva dedotto che i serrati ritmi lavorativi sostenuti
abitualmente dal dipendente fossero dovuti esclusivamente alla sua attitudine ad espletare il proprio impegno professionale
attraverso un particolare coinvolgimento intellettuale ed emotivo nella
realizzazione degli obiettivi.
La
Cassazione ha però ritenuto infondata una simile doglianza, ricordando come, in
via generale, il datore di lavoro non può
sostenere la mancata conoscenza delle condizioni di lavoro nelle quali le
mansioni affidate ai dipendenti vengano svolte concretamente.
In
conclusione, in quanto espressione ed attuazione concreta dell'assetto
organizzativo adottato dall'imprenditore con le proprie direttive e
disposizioni interne, deve essere presunta la conoscenza, in capo ai vertici
aziendali, delle modalità attraverso le quali ciascun dipendente svolge il
proprio lavoro, salvo, ovviamente, non venga fornita una prova contraria.
Valerio
Pollastrini
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