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sabato 10 maggio 2014

L’imprenditore è responsabile per l’infarto del dipendente causato dagli eccessivi carichi lavorativi

Nella sentenza n.9945 dell’8 maggio 2014 la Corte di Cassazione ha ritenuto un imprenditore responsabile della morte di un dipendente, causata da un infarto riconducibile allo stress accumulato per l’eccessivo lavoro.  

Nella pronuncia, in sostanza, è stato affermato che il datore di lavoro  non può ignorare le modalità con le quali  ciascun collaboratore svolge le proprie prestazioni.

Il caso di specie è quello di un funzionario della Ericsson Tlc che, costantemente oberato  di una gran mole di lavoro, pur di raggiungere gli obiettivi aziendali, aveva preso l’abitudine di portare a casa la pratiche da espletare, esponendo il proprio fisico ad uno stress continuo, senza tuttavia lamentarsene.

Le undici ore di lavoro al giorno svolte in maniera costante, avevano però causato un infarto, in seguito al quale il dipendente era deceduto.

La società aveva adito la Cassazione dopo che la Corte di Appello di Roma, ribaltando la decisione del Tribunale, aveva riconosciuto, in favore della vedova e della figlia minorenne del lavoratore, un risarcimento del danno patrimoniale e materiale, liquidato, rispettivamente, in 434.000,00 € e 425.000,00 €, oltre agli oneri accessori.

Nel respingere il ricorso, la Suprema Corte ha ricordato come l’organizzazione del modello gestionale, così come la distribuzione del lavoro, sono competenze direttamente riconducibili alla  responsabilità aziendale.

Tale assunto sostiene adeguatamente la motivazione con la quale la Corte del merito aveva escluso che il datore di lavoro potesse sottrarsi agli addebiti  derivanti dalla inadeguatezza dei ritmi lavorativi.

Dall’istruttoria era emerso che, per lo smaltimento degli incarichi di competenza, il deceduto, ancorché non direttamente sollecitato dal datore di lavoro, fosse costretto a conformare i propri ritmi lavorativi all'esigenza di realizzare le prestazioni affidategli nei tempi richiesti dalle esigenze aziendali.

La disposta Ctu, aveva evidenziato l’elevato indice di probabilità, in base al quale l’infarto patito dal dipendente potesse essere correlato alle trascorse vicende lavorative.

Dinnanzi alla Suprema Corte, la società aveva dedotto che i serrati ritmi lavorativi sostenuti abitualmente dal dipendente fossero dovuti esclusivamente alla sua attitudine  ad espletare il proprio impegno professionale attraverso un particolare coinvolgimento intellettuale ed emotivo nella realizzazione degli obiettivi.

La Cassazione ha però ritenuto infondata una simile doglianza, ricordando come, in via generale,  il datore di lavoro non può sostenere la mancata conoscenza delle condizioni di lavoro nelle quali le mansioni affidate ai dipendenti vengano svolte concretamente.

In conclusione, in quanto espressione ed attuazione concreta dell'assetto organizzativo adottato dall'imprenditore con le proprie direttive e disposizioni interne, deve essere presunta la conoscenza, in capo ai vertici aziendali, delle modalità attraverso le quali ciascun dipendente svolge il proprio lavoro, salvo, ovviamente, non venga fornita una prova contraria.

Valerio Pollastrini

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