Nel
caso in commento, alcuni conducenti di linea, alle dipendenze di un’azienda di
trasporto pubblico locale, premettendo che il luogo di inizio della loro prestazione
lavorativa non coincidesse con quello in cui la stessa aveva termine e che,
alla fine di ogni turno, il tempo di viaggio impiegato per raggiungere il luogo
di partenza non fosse stato mai retribuito dal datore di lavoro, si erano
rivolti al Tribunale di Napoli chiedendo che tale tempo di viaggio venisse
considerato come lavoro effettivo, con il riconoscimento del diritto a
percepire la metà della retribuzione ai sensi dell’art. 17, lett. c), del R.D.L. n. 2328 del 19 ottobre 1923.
Dopo
che il Tribunale adito aveva respinto i ricorsi, la Corte di Appello di Napoli, in riforma
della decisione di primo grado, aveva accolto le domande dei lavoratori,
condannando l’Azienda a corrispondere in loro favore le relative differenze retributive.
In
particolare, la Corte del merito, preso atto che la mancata coincidenza del
luogo di inizio con quello di cessazione del lavoro giornaliero non fosse
determinata da disposizioni aziendali, ma costituisse una libera scelta dei dipendenti, aveva osservato
che tale circostanza non valesse ad escludere l’applicabilità della norma sopra
richiamata.
Il
presupposto della disposizione di legge è infatti la separazione spaziale tra
il luogo di inizio e quello di cessazione del lavoro, con la conseguente
necessità dello spostamento del lavoratore dall’uno all’altro luogo, senza che
occorra alcuna dimostrazione della connessione causale di questa separazione
con le necessità aziendali.
L’interpretazione
secondo la quale la norma andrebbe applicata solo nell’ipotesi in cui sia
imposto obbligatoriamente al dipendente di raggiungere due diverse località per
iniziare il proprio servizio ovvero per farvi ritorno a servizio compiuto,
doveva, pertanto, considerarsi riduttiva.
Ciò
che la norma presuppone per qualificare come comandato lo spostamento, infatti,
è rappresentato unicamente dalla separazione dei luoghi di inizio e termine
della prestazione lavorativa giornaliera.
Nella
specie, acclarato che le modalità di svolgimento del lavoro prevedessero
località differenti di inizio e termine della prestazione, per l’applicabilità
della norma dedotta non era dunque necessaria alcuna prova in ordine alla
durata degli spostamenti effettuati dai dipendenti.
Conseguentemente,
il giudicante aveva ritenuto dovuto il compenso reclamato dai lavoratori, in
quanto, per l’appunto, relativo agli spostamenti compiuti oltre l’orario di
lavoro giornaliero.
Avverso
questa sentenza l’azienda aveva proposto ricorso per Cassazione, denunziando violazione
e/o falsa applicazione dell’art. 17, lett. c), R.D.L. n. 2328 del 1923 e
dell’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale.
La
ricorrente aveva rilevato come la norma in questione miri a ricompensare il
tempo impiegato dal lavoratore per gli spostamenti, da una località ad
un’altra, per prendere servizio, e il tempo impiegato per fare ritorno a
servizio compiuto. Spostamenti eseguiti nell’osservanza di disposizioni
aziendali circa luoghi ed orari di lavoro impartite dal datore di lavoro, e
perciò del tutto equivalenti a quelli “comandati”.
L’Azienda
aveva quindi lamentato di non aver mai imposto ai lavoratori un obbligo in tal
senso. I dipendenti in questione, infatti, una volta iniziata la prestazione presso il c.d. deposito, non erano tenuti a far ritorno al luogo iniziale, né,
quando iniziavano la prestazione nel c.d. posto di cambio, dovevano far ritorno
in tale ultimo luogo.
I
lavoratori erano liberi di organizzare i loro spostamenti in base a scelte
discrezionali, dettate esclusivamente da proprie comodità personali.
La
mancata coincidenza del luogo di inizio della prestazione lavorativa con quello
di cessazione della stessa, non derivando da un’imposizione aziendale, escluderebbe
che gli spostamenti del lavoratore fossero stati “comandati”. Ciò, in base alla
tesi ricorrente, non consentirebbe l’applicazione
della disposizione in esame.
Investita
della questione, la Suprema Corte ha
ricordato che l’art. 17, lett. c), del R.D.L. n.2328 del 19 ottobre 1923, dispone che “si computa come lavoro effettivo la metà del tempo impiegato per
recarsi, senza prestare servizio, con un mezzo gratuito di servizio in viaggi
comandati da una località ad un’altra per prendere servizio o fare ritorno a
servizio compiuto”.
La
Cassazione ha quindi osservato che, in base alle comuni più diffuse esigenze, la
norma richiamata considera che il dipendente, al termine del lavoro, ripercorra
la stessa strada con la quale si era inizialmente recato al lavoro ed abbia in
tal modo interesse a concludere la prestazione nel luogo di inizio.
Quando
ciò non fosse possibile a causa della programmazione aziendale, il tempo
necessario allo spostamento dall’uno all’altro luogo deve assumere la natura di
tempo di lavoro.
I
presupposti per l’applicabilità della norma in esame, pertanto, non sono
l’utilizzo del mezzo gratuito di servizio, né il fatto che il lavoratore si
rechi al lavoro con un proprio mezzo, con mezzi pubblici o a piedi, bensì, la non coincidenza del luogo di inizio con il
luogo di cessazione del lavoro giornaliero e la circostanza che questa non coincidenza sia determinata non
da una scelta del lavoratore, ma dalla necessità logistica aziendale affinché il
lavoro inizi in un determinato luogo e cessi in un altro.
Tali
presupposti, inducono a ritenere che la
norma sia diretta a compensare il tempo che il dipendente impiega per recarsi
dall’uno all’altro luogo. Spostamento che, tuttavia, assume rilievo solo
all’inizio o alla cessazione del lavoro da prestare in azienda, posto che lo
spostamento che avviene nel corso della giornata lavorativa risulta compensato
attraverso l’ordinaria retribuzione.
In
altri termini il fondamento del diritto in esame è la separazione spaziale fra
luogo di inizio e luogo di cessazione del lavoro e che tale separazione non sia
il prodotto di una scelta del lavoratore, ma sia oggettivamente predeterminata
dalla programmazione del lavoro aziendale, che inizia in un luogo e si conclude
in un altro.
Tale
assunto, per i giudici di legittimità, trova conforto dalla chiara dizione utilizzata
dal legislatore di “viaggi comandati” e nella ratio del citato art. 17 R.D.L. n. 2328 del 1923, che attestano la
necessità che le esigenze aziendali - a fronte delle quali si giustifica la
richiesta del compenso rivendicato - vengano valutati da coloro che per le
mansioni svolte hanno il compito, con l’assunzione di una propria personale
responsabilità, di predeterminare la programmazione dei viaggi con modalità che
ne consentano poi - in ragione della funzione di pubblico interesse
dell’azienda - il doveroso controllo.
Al
riguardo, la stessa Corte di Cassazione ha
costantemente affermato (1) il principio di diritto, secondo cui al fine
di poter considerare come lavoro effettivo la metà del tempo impiegato dal
lavoratore dipendente di una società di pubblici servizi di trasporto in
concessione per recarsi, “senza prestare
servizio, con un mezzo gratuito di servizio in viaggi comandati da una località
all’altra per prendere servizio o fare ritorno a servizio compiuto”, è
necessario che non via sia coincidenza del luogo di inizio con quello di
cessazione del lavoro giornaliero e che tale circostanza sia determinata non da
una scelta del lavoratore, bensì, in via esclusiva, da una necessità logistica
aziendale, rimanendo irrilevante l’uso del mezzo gratuito di servizio da parte
del lavoratore o che quest’ultimo si rechi al lavoro con un proprio mezzo
ovvero con mezzi pubblici od anche a piedi.
Concorrendo
tali condizioni, il lavoratore può ottenere il riconoscimento del diritto
previsto dalla suddetta norma, il cui fondamento è insito nell’esigenza di
compensare il tempo necessario al menzionato spostamento indotto
dall’organizzazione del lavoro riconducibile all’azienda.
Nella
fattispecie in esame la Corte di merito, pur avendo preso atto che gli stessi lavoratori avessero ammesso che la mancata coincidenza del luogo
di inizio con quello di cessazione del lavoro giornaliero non fosse determinata
da disposizioni aziendali, ma costituisse una loro libera scelta, ha tuttavia
ritenuto che tale scelta non valesse ad escludere l’applicabilità della norma
in questione.
Così
facendo, però, la Corte territoriale non si era
posta in linea con i principi di diritto sopra affermati, secondo i quali il computo del tempo di
viaggio ai fini indicati presuppone, non solo che non vi sia coincidenza del
luogo di inizio con quello di cessazione del lavoro giornaliero, ma che tale
circostanza sia determinata altresì non da una libera scelta del lavoratore,
ma, esclusivamente, da specifiche disposizioni aziendali.
In
altri termini, una volta accertato che gli spostamenti dei lavoratori,
all’inizio o alla cessazione del lavoro da prestare in azienda, non erano
imposti da esigenze organizzative aziendali e che i dipendenti non avevano interesse
a concludere la prestazione nel luogo in cui questa era stata iniziata, viene
meno il presupposto del “viaggio comandato”, e cioè del trasferimento
inevitabile per l’organizzazione dei turni derivante da disposizione aziendale.
Per
tale ragione, la Suprema Corte ha concluso con l’accoglimento del ricorso
aziendale e, rilevando come non fossero necessari ulteriori accertamenti di
fatto, ha deciso la causa nel merito,
con il rigetto dell’originaria domanda proposta dai lavoratori.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
Cass., Sentenza n.3575 del 20 febbraio
2006; Cass., Sentenza n.4496 del 21 febbraio 2008; Cass., Sentenza n.7197 del 25 marzo 2010; Cass.,
Sentenza n. 8355 dell’8 aprile 2010; Cass., Sentenza n.10020
del 6 maggio 2011; Cass., Sentenza n.26581 del 12 dicembre 2011;
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