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mercoledì 7 maggio 2014

Trasporto pubblico locale - Luogo di inizio e termine servizio non coincidenti – Retribuzione del tempo di viaggio

Nella sentenza n.9383 del  29 aprile 2014 la  Corte di Cassazione ha affermato che, nell’ambito del trasporto pubblico locale, qualora i luoghi di inizio e termine del servizio svolto dagli autisti non coincidano, il diritto dei lavoratori ad un compenso aggiuntivo sussiste solamente nel caso in cui tale condizione risulti imposta dal datore di lavoro.

 
Nel caso in commento, alcuni conducenti di linea, alle dipendenze di un’azienda di trasporto pubblico locale, premettendo che il luogo di inizio della loro prestazione lavorativa non coincidesse con quello in cui la stessa aveva termine e che, alla fine di ogni turno, il tempo di viaggio impiegato per raggiungere il luogo di partenza non fosse stato mai retribuito dal datore di lavoro, si erano rivolti al Tribunale di Napoli chiedendo che tale tempo di viaggio venisse considerato come lavoro effettivo, con il riconoscimento del diritto a percepire la metà della retribuzione ai sensi dell’art. 17, lett. c), del  R.D.L. n. 2328 del 19 ottobre 1923.

Dopo che il Tribunale adito aveva respinto i ricorsi,  la Corte di Appello di Napoli, in riforma della decisione di primo grado, aveva accolto le domande dei lavoratori, condannando l’Azienda a corrispondere in loro favore le relative differenze retributive.

In particolare, la Corte del merito, preso atto che la mancata coincidenza del luogo di inizio con quello di cessazione del lavoro giornaliero non fosse determinata da disposizioni aziendali, ma costituisse una  libera scelta dei dipendenti, aveva osservato che tale circostanza non valesse ad escludere l’applicabilità della norma sopra richiamata.

Il presupposto della disposizione di legge è infatti la separazione spaziale tra il luogo di inizio e quello di cessazione del lavoro, con la conseguente necessità dello spostamento del lavoratore dall’uno all’altro luogo, senza che occorra alcuna dimostrazione della connessione causale di questa separazione con le necessità aziendali.

L’interpretazione secondo la quale la norma andrebbe applicata solo nell’ipotesi in cui sia imposto obbligatoriamente al dipendente di raggiungere due diverse località per iniziare il proprio servizio ovvero per farvi ritorno a servizio compiuto, doveva, pertanto, considerarsi riduttiva.

Ciò che la norma presuppone per qualificare come comandato lo spostamento, infatti, è rappresentato unicamente dalla separazione dei luoghi di inizio e termine della prestazione lavorativa giornaliera.

Nella specie, acclarato che le modalità di svolgimento del lavoro prevedessero località differenti di inizio e termine della prestazione, per l’applicabilità della norma dedotta non era dunque necessaria alcuna prova in ordine alla durata degli spostamenti effettuati dai dipendenti.

Conseguentemente, il giudicante aveva ritenuto dovuto il compenso reclamato dai lavoratori, in quanto, per l’appunto,   relativo  agli spostamenti compiuti oltre l’orario di lavoro giornaliero.

Avverso questa sentenza l’azienda aveva proposto ricorso per Cassazione, denunziando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 17, lett. c), R.D.L. n. 2328 del 1923 e dell’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale.

La ricorrente aveva rilevato come la norma in questione miri a ricompensare il tempo impiegato dal lavoratore per gli spostamenti, da una località ad un’altra, per prendere servizio, e il tempo impiegato per fare ritorno a servizio compiuto. Spostamenti eseguiti nell’osservanza di disposizioni aziendali circa luoghi ed orari di lavoro impartite dal datore di lavoro, e perciò del tutto equivalenti a quelli “comandati”.

L’Azienda aveva quindi lamentato di non aver mai imposto ai lavoratori un obbligo in tal senso. I dipendenti in questione, infatti,  una volta iniziata la prestazione  presso il c.d. deposito, non erano  tenuti a far ritorno al luogo iniziale, né, quando iniziavano la prestazione nel c.d. posto di cambio, dovevano far ritorno in tale ultimo luogo.

I lavoratori erano liberi di organizzare i loro spostamenti in base a scelte discrezionali, dettate esclusivamente da proprie comodità personali.

La mancata coincidenza del luogo di inizio della prestazione lavorativa con quello di cessazione della stessa, non derivando da un’imposizione aziendale, escluderebbe che gli spostamenti del lavoratore fossero stati “comandati”. Ciò, in base alla tesi ricorrente,  non consentirebbe l’applicazione della disposizione in esame.

Investita della questione,  la Suprema Corte ha ricordato che l’art. 17, lett. c), del  R.D.L. n.2328 del 19 ottobre 1923,  dispone che “si computa come lavoro effettivo la metà del tempo impiegato per recarsi, senza prestare servizio, con un mezzo gratuito di servizio in viaggi comandati da una località ad un’altra per prendere servizio o fare ritorno a servizio compiuto”.

La Cassazione ha quindi osservato che, in base alle comuni più diffuse esigenze, la norma richiamata considera che il dipendente, al termine del lavoro, ripercorra la stessa strada con la quale si era inizialmente recato al lavoro ed abbia in tal modo interesse a concludere la prestazione nel luogo di inizio.

Quando ciò non fosse possibile a causa della programmazione aziendale, il tempo necessario allo spostamento dall’uno all’altro luogo deve assumere la natura di tempo di lavoro.

I presupposti per l’applicabilità della norma in esame, pertanto, non sono l’utilizzo del mezzo gratuito di servizio, né il fatto che il lavoratore si rechi al lavoro con un proprio mezzo, con mezzi pubblici o a piedi, bensì,  la non coincidenza del luogo di inizio con il luogo di cessazione del lavoro giornaliero e la circostanza  che questa non coincidenza sia determinata non da una scelta del lavoratore, ma  dalla  necessità logistica aziendale affinché il lavoro inizi in un determinato luogo e cessi in un altro.

Tali presupposti,  inducono a ritenere che la norma sia diretta a compensare il tempo che il dipendente impiega per recarsi dall’uno all’altro luogo. Spostamento che, tuttavia, assume rilievo solo all’inizio o alla cessazione del lavoro da prestare in azienda, posto che lo spostamento che avviene nel corso della giornata lavorativa risulta compensato attraverso l’ordinaria retribuzione.

In altri termini il fondamento del diritto in esame è la separazione spaziale fra luogo di inizio e luogo di cessazione del lavoro e che tale separazione non sia il prodotto di una scelta del lavoratore, ma sia oggettivamente predeterminata dalla programmazione del lavoro aziendale, che inizia in un luogo e si conclude in un altro.

Tale assunto, per i giudici di legittimità,  trova conforto dalla chiara dizione utilizzata dal legislatore di “viaggi comandati” e nella ratio del citato art. 17 R.D.L. n. 2328 del 1923, che attestano la necessità che le esigenze aziendali - a fronte delle quali si giustifica la richiesta del compenso rivendicato - vengano valutati da coloro che per le mansioni svolte hanno il compito, con l’assunzione di una propria personale responsabilità, di predeterminare la programmazione dei viaggi con modalità che ne consentano poi - in ragione della funzione di pubblico interesse dell’azienda - il doveroso controllo.

Al riguardo, la stessa Corte  di Cassazione ha costantemente affermato (1)  il principio di diritto, secondo cui al fine di poter considerare come lavoro effettivo la metà del tempo impiegato dal lavoratore dipendente di una società di pubblici servizi di trasporto in concessione per recarsi, “senza prestare servizio, con un mezzo gratuito di servizio in viaggi comandati da una località all’altra per prendere servizio o fare ritorno a servizio compiuto”, è necessario che non via sia coincidenza del luogo di inizio con quello di cessazione del lavoro giornaliero e che tale circostanza sia determinata non da una scelta del lavoratore, bensì, in via esclusiva, da una necessità logistica aziendale, rimanendo irrilevante l’uso del mezzo gratuito di servizio da parte del lavoratore o che quest’ultimo si rechi al lavoro con un proprio mezzo ovvero con mezzi pubblici od anche a piedi.

Concorrendo tali condizioni, il lavoratore può ottenere il riconoscimento del diritto previsto dalla suddetta norma, il cui fondamento è insito nell’esigenza di compensare il tempo necessario al menzionato spostamento indotto dall’organizzazione del lavoro riconducibile all’azienda.

Nella fattispecie in esame la Corte di merito, pur avendo preso  atto che gli stessi lavoratori avessero  ammesso che la mancata coincidenza del luogo di inizio con quello di cessazione del lavoro giornaliero non fosse determinata da disposizioni aziendali, ma costituisse una loro libera scelta, ha tuttavia ritenuto che tale scelta non valesse ad escludere l’applicabilità della norma in questione.

Così facendo, però, la Corte territoriale non si era  posta in linea con i principi di diritto sopra affermati,  secondo i quali il computo del tempo di viaggio ai fini indicati presuppone, non solo che non vi sia coincidenza del luogo di inizio con quello di cessazione del lavoro giornaliero, ma che tale circostanza sia determinata altresì non da una libera scelta del lavoratore, ma, esclusivamente, da specifiche disposizioni aziendali.

In altri termini, una volta accertato che gli spostamenti dei lavoratori, all’inizio o alla cessazione del lavoro da prestare in azienda, non erano imposti da esigenze organizzative aziendali e che i dipendenti non avevano interesse a concludere la prestazione nel luogo in cui questa era stata iniziata, viene meno il presupposto del “viaggio comandato”, e cioè del trasferimento inevitabile per l’organizzazione dei turni derivante da disposizione aziendale.

Per tale ragione, la Suprema Corte ha concluso con l’accoglimento del ricorso aziendale e, rilevando come non fossero necessari ulteriori accertamenti di fatto, ha deciso la causa  nel merito, con il rigetto dell’originaria domanda proposta dai lavoratori.

Valerio Pollastrini


(1)   - Cass., Sentenza  n.3575 del 20 febbraio 2006; Cass., Sentenza n.4496 del 21 febbraio 2008; Cass., Sentenza  n.7197 del 25 marzo 2010; Cass., Sentenza    n. 8355 dell’8 aprile 2010; Cass., Sentenza n.10020 del 6 maggio 2011; Cass., Sentenza n.26581 del 12 dicembre 2011;

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