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sabato 22 marzo 2014

Illegittimo il licenziamento se il Contratto Collettivo prevede una sanzione meno grave

Il datore di lavoro non può licenziare il dipendente per una condotta giudicata punibile dal Contratto Collettivo applicato con una semplice sanzione conservativa. E’ quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n.6222 del 18 marzo 2014.

Il caso in commento è quello di un lavoratore licenziato per giusta causa dopo una sospensione cautelare ricevuta in seguito ad una contestazione disciplinare con l’addebito di uso improprio di strumenti di lavoro e in particolare del P.C. affidatogli, delle reti informatiche aziendali e della casella di posta elettronica.

Il dipendente aveva impugnato il recesso dinnanzi al Giudice del lavoro, chiedendo

la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno.

Sia il Tribunale di primo grado che, successivamente,  la Corte di Appello di L’Aquila, avevano accolto il ricorso dopo aver rilevato che il fatto contestato corrispondesse alla fattispecie disciplinare  qualificata dal  Contratto Collettivo applicabile  come “improprio  utilizzo di strumenti di lavoro aziendali” e da questo ritenuta passibile di una semplice sanzione conservativa.

La Corte territoriale aveva quindi escluso che il datore di lavoro avrebbe potuto irrogare una sanzione disciplinare più grave di quella pattizia.

Inoltre, anche volendo ritenere quella contestata una condotta diversa e più grave rispetto alla fattispecie prevista dalla norma collettiva, le risultanze della specifica Consulenza Tecnica di Ufficio avevano escluso che il comportamento del dipendente fosse di una gravità tale da giustificare il recesso.

La società aveva proposto ricorso in Cassazione, criticando quanto affermato nella sentenza impugnata in ordine alla coincidenza integrale tra la fattispecie disciplinare prevista dal Contratto Collettivo, secondo cui incorre nei provvedimenti dell’ammonizione scritta, della multa o della sospensione il lavoratore che “utilizzi in modo improprio strumenti di lavoro aziendali,” ed il contestato comportamento posto a base del licenziamento per giusta causa.

Sul punto, la ricorrente aveva richiamato il contenuto della lettera  di comunicazione dell’addebito di “uso improprio  di strumenti di lavoro aziendali e, nella specie, del P.C., delle reti informatiche aziendali e della casella di posta elettronica”.

In tale comunicazione era stato reso noto l’accertamento dell’ esistenza nel P.C. affidato al dipendente di “programmi coperti da copyright non forniti dall’azienda e non necessari” per lo svolgimento di attività; di installazione nello stesso P.C., oltre ai programmi in dotazione, di “software diversi non forniti dall’azienda e non necessari; dell’avvenuta utilizzazione per innumerevoli volte durante l’orario lavorativo della casella di posta elettronica di dominio aziendale per scopi personali non giustificati, “eludendo le chiare informative e molteplici preavvisi effettuati dall’azienda”.

A detta dell’azienda, con tale lettera erano stati contestati non solo l’uso improprio dello strumento di lavoro aziendale, ma anche la violazione del dovere di obbedienza di cui all’art. 2104 cod.civ., in relazione al richiamo del mancato rispetto di “chiare informative” e “molteplici preavvisi”, nonché la riscontrata presenza nello stesso P.C. di materiale di carattere pornografico.

Inoltre, il datore di lavoro aveva posto l’accento sul fatto che l’abilitazione del P.C. ad impieghi nuovi e diversi, avesse comportato l’utilizzo da parte del lavoratore di programmi coperti da copyright in  violazione dell’art. 64 della legge n. 633/1941, esponendo così il datore di lavoro a possibili responsabilità.

Affermando che il comportamento contestato avesse riguardato solo la fattispecie prevista dalla richiamata norma del Contratto Collettivo,  la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto delle circostanze appena elencate.

L’azienda criticava inoltre l’ulteriore affermazione secondo cui, in relazione alle risultanze della Consulenza Tecnica d’Ufficio in ordine ai “files” non legati all’attività lavorativa di cui era stata riscontrata la presenza nel P.C., anche a voler ritenere non contestata una fattispecie diversa e più grave rispetto a quella contrattualmente prevista, doveva essere esclusa la particolare gravità del comportamento addebitato.

Ad avviso della ricorrente, la Consulenza Tecnica aveva posto in luce alcuni elementi utili ad attestare la gravità degli inadempimenti. Sotto questo profilo, la Corte di Appello avrebbe dovuto tener conto sia  dell’uso quotidiano e molto frequente della posta elettronica, sia l’installazione di una enorme quantità di file non inerenti all’attività lavorativa.

La Corte  avrebbe poi ignorato la gravità del mancato rispetto da parte del lavoratore delle  disposizioni impartite per l’uso del computer  che, tradottosi nell’installazione di programmi coperti da copyright, aveva esposto l’azienda a possibili sanzioni legali.

Nel dirimere la questione, la  Cassazione ha per prima cosa rilevato che il principio in base al quale il datore di lavoro non può irrogare un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal Contratto Collettivo applicabile in relazione ad una determinata infrazione (1) non era stato posto in discussione.

La Suprema Corte ha proseguito escludendo che le allegazioni prodotte dalla società ricorrente fossero sufficienti a dimostrare che l’addebito mosso al dipendente riguardasse infrazioni disciplinari autonome e diverse rispetto alla fattispecie contemplata dal Contratto Collettivo.

Tra l’altro, il riferimento alle supposte disposizioni fornite dal datore di lavoro sull’utilizzo corretto del computer aziendale non evidenzia alcuna violazione di distinti obblighi contrattuali, rilevando solo ai fini della valutazione della gravità dell’inadempimento.

Inoltre, la “rilevata presenza di materiale pornografico” non era sfociata in una specifica contestazione di addebito nella lettera di contestazione, la quale, circa la presenza di programmi coperti da copyright, non conteneva alcuna indicazione della violazione di limiti posti alla utilizzazione dei programmi stessi, con conseguenti profili di responsabilità per l’azienda.

Parimenti infondata, a parere della Cassazione, la contestazione inerente al giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato.  A tale proposito, gli ermellini hanno ricordato come la valutazione della gravità dell’inadempimento dal lavoratore e dell’adeguatezza della sanzione è riservata al Giudice di merito e, pertanto, se adeguatamente giustificata attraverso  una  motivazione sufficiente e non contraddittoria, non può essere riesaminata in sede di legittimità (2).

Per tutte le ragioni indicate,  la Suprema Corte ha respinto il ricorso ed ha condannato il datore di lavoro al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 4.000,00 € per compensi professionali ed in 100,00 € per esborsi,  oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini


(1)   - Cass. n.19053 del 29 settembre 2005; Cass.  n.13353 del 17 giugno 2011;

(2)   - Cass. n.7948 del 7 aprile 2011; Cass. n.8293 del  25 maggio 2012;

Accordo di transazione sindacale avente ad oggetto la cessazione del rapporto

Nella sentenza n.6265 del 18 marzo 2014 la Corte di Cassazione ha ribadito che le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto la cessazione del rapporto di lavoro, anche se convenute in conciliazione raggiunta in sede sindacale, non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 2113 cod.civ.

Nel caso di specie la Corte di Appello di Venezia aveva confermato la decisione con la quale il Tribunale di Treviso aveva rigettato la domanda proposta da una lavoratrice intesa ad ottenere, rispettivamente: la declaratoria della nullità dell’accordo di transazione sindacale stipulato con il proprio datore di lavoro, l’ illegittimità del licenziamento intimatole e la condanna della società alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno ex art. 18 Stat. Lav.

Richiamando la giurisprudenza di legittimità, la Corte territoriale aveva dichiarato che l’accordo di transazione sindacale stipulato tra le parti non poteva essere  impugnato attraverso l’art. 2113 c.c., avendo ad oggetto la controversia relativa all’impugnazione del licenziamento intimato alla lavoratrice.

Con il suddetto accordo  era stato posto fine alla lite, e, quindi, non riguardando diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili di legge e dei contratti collettivi, lo stesso doveva ritenersi legittimo.

Le questioni dedotte nell’Appello, relative all’acquisizione o meno della prova in giudizio dell’autenticità della sottoscrizione del rappresentante sindacale e della effettività della assistenza fornita alla lavoratrice, erano state, pertanto, ritenute irrilevanti.

La lavoratrice aveva proposto ricorso in Cassazione, evidenziando  che le pronunce della Suprema Corte richiamate nella impugnata sentenza non facessero riferimento a rinunzie o transazioni stipulate in sede sindacale e, dunque, riguardavano fattispecie diverse da quella in esame. Ed infatti, nel caso di conciliazioni poste in essere ai sensi dell’art. 411 c.p.c. la presenza del rappresentante sindacale sarebbe dovuta essere effettiva così come autentiche e contestuali sarebbero dovute  essere le sottoscrizioni del verbale.

Nel rigettare il ricorso, la Corte di Cassazione ha ricordato il costante orientamento delle giurisprudenza di legittimità (1), in base al quale le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto la cessazione del rapporto di lavoro, anche se convenute in conciliazione raggiunta in sede sindacale, non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 2113 cod.civ.

Per tale ragione, attesa la non impugnabilità della risoluzione consensuale del rapporto ex art. 2113 cod.civ., gli eventuali vizi formali del procedimento di formazione della conciliazione sindacale sono irrilevanti (2).

Ne consegue che tutti i vizi formali contenuti nella transazione in questione non possono assumere rilevanza alcuna.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Cass. n.22105 del 19/10/2009; Cass. n. 4780 del 28/03/2003;

(2)   - Cass. n. 5940 del 24/03/2004;

giovedì 20 marzo 2014

Jobs Act – Le prime disposizioni operative

Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Decreto Legge n.34 del 20 marzo 2014, contenente disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell'occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese.

Il Decreto entrerà in vigore il 21 marzo 2014.

Si tratta delle prime disposizioni del Jobs Act ad entrare a regime e riguardano le modifiche agli istituti contrattuali dei contratti a termine e dell’apprendistato.

Si segnala inoltre l’introduzione di una procedura che renderà più semplice per le aziende ottenere il modello Durc.

Per prendere visione dei contenuti delle modifiche in oggetto si riportano gli articoli, con relativi link di accesso, già pubblicati nel presente blog.

Jobs Act – Il modello Durc verrà sostituito da una verifica telematica

Primi chiarimenti sulla modifica della disciplina dei contratti a tempo determinato

 
Valerio Pollastrini

Entro il 12 aprile le domande per gli incentivi ex piccola mobilità

La Circolare Inps n.32 del 13 marzo 2014 annuncia l’operatività degli incentivi previsti per l’assunzione di lavoratori che nei dodici mesi precedenti  siano stati licenziati da imprese con meno di quindici dipendenti per giustificato motivo oggettivo connesso a riduzione, trasformazione o cessazione di attività o di lavoro.

Il beneficio
L’incentivo è costituito dall’erogazione, nel limite complessivo di 20 milioni di euro, di 190,00 €  mensili in favore dei datori di lavoro privati che nel 2013 abbiano assunto lavoratori licenziati nei 12 mesi precedenti per giustificato motivo oggettivo da imprese occupanti meno di 15 dipendenti.

La Circolare chiarisce che in caso di assunzione con orario di lavoro parziale l’importo di 190,00 €  debba essere riproporzionato pro-quota.

Per i rapporti di durata inferiore al mese di calendario, invece, l’importo di 190,00 € dovrà essere ridotto moltiplicando l’importo convenzionale di  6,33 € (un trentesimo di 190) per il numero di giorni complessivi del rapporto di lavoro.

Il beneficio verrà altresì riconosciuto  in caso di proroga e trasformazione a tempo indeterminato di un rapporto instaurato nel 2013.

Il contributo verrà inoltre erogato anche   in caso di proroga e trasformazione a tempo indeterminato – effettuata nel 2013 – di un rapporto instaurato prima del 2013 con lavoratori iscritti nelle allora vigenti liste della “piccola mobilità”.

Durata del beneficio
Questa la durata massima di fruizione dell’incentivo:

-         12 mesi per le assunzioni a tempo indeterminato;
-         6 mesi per le assunzioni a tempo determinato.

In caso di rapporto a tempo determinato di durata inferiore a sei mesi il bonus verrà erogato in misura e durata proporzionalmente ridotte.

In caso di proroga e trasformazione a tempo indeterminato di un rapporto precedentemente agevolato, il bonus spetterà per un periodo complessivo massimo  di sei e dodici mesi.

In caso di proroga e trasformazione a tempo indeterminato di un rapporto instaurato prima del 2013 con lavoratori iscritti nelle vecchie liste di “piccola mobilità”, il limite massimo del bonus sarà calcolato a decorrere rispettivamente dalla data della proroga e quella della trasformazione.

Presentazione della domanda
Per accedere ai benefici le aziende dovranno  inoltrare all’Inps una specifica istanza entro il 12 aprile 2014.

L’Inps specifica che per la presentazione della domanda di ammissione ai benefici dovrà essere utilizzata esclusivamente la modalità telematica, attraverso il modulo “LICE”, disponibile nel Cassetto previdenziale Aziende o nel Cassetto previdenziale Aziende agricole, presso il sito internet www.inps.it.

Valerio Pollastrini

In caso di mancata formazione, il datore di lavoro è penalmente responsabile dell’infortunio del dipendente

Nella sentenza n.9693 del 27 febbraio 2014 la Corte di Cassazione, dopo aver accertato che in azienda  non era stata svolta la formazione dei lavoratori imposta dalla normativa sulla sicurezza, ha ritenuto il datore di lavoro penalmente responsabile dell’incidente occorso ad un dipendente.

La Suprema Corte ha altresì ribadito che gli obblighi di informazione e formazione sui luoghi di lavoro non possono essere delegati agli stessi lavoratori attraverso la semplice lettura del Piano Operativo di Sicurezza.

Il caso è quello di un lavoratore edile che dopo aver assemblato erroneamente un trabattello, era salito sullo stesso dall’esterno, e dunque  in maniera inadeguata,   precipitando al suolo e procurandosi gravi lesioni personali.

Dopo che  la Corte di Appello aveva assolto il legale rappresentante della ditta dall’accusa di lesioni personali gravi procurate al dipendente, quest’ultimo aveva adito la Cassazione.

L’istruttoria aveva accertato che il datore di lavoro avesse fornito al dipendente i Dispositivi di Protezione Individuale ma che, ciò nonostante, gli stessi  non erano stati usati al momento  dell’infortunio.

Nel giudizio era stato inoltre appurato che il lavoratore non avesse ricevuto un’adeguata formazione e informazione sull’espletamento della propria attività.

Il ricorrente, in particolare, aveva contestato alla Corte di merito di essere giunta all’assoluzione dell’imputato dopo aver affermato che le lesioni subite fossero ascrivibili alla violazione di regole cautelari.  Il lavoratore era infatti caduto per essere salito sopra un trabattello, dal medesimo assemblato, senza rispettare le istruzioni di montaggio, ignorate dallo stesso, sebbene avesse partecipato ad una riunione formativa nella quale era stato invitato a prendere visione del POS.

Gravando sull’azienda  l’obbligo di formare ed informare i lavoratori, assicurandosi dell’effettiva comprensione delle istruzioni impartite, nonché del loro rispetto, il datore di lavoro sarebbe dovuto risultare responsabile dell’evento per le mancate istruzioni fornite  al dipendente sulle corrette modalità di montaggio del trabattello.

La Corte di Appello aveva invece escluso la penale responsabilità dell’imputato, valorizzando la suddivisione di fatto della direzione sui cantieri.

Secondo la Cassazione la pretesa assunzione di responsabilità sulla sicurezza da parte di altro soggetto non poteva sollevare il datore di lavoro dalla responsabilità dell’infortunio.

Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, successivamente rubricato nell’art.16 del D.Lgs n.81 del 2008,  l’esonero del datore di lavoro  dalle responsabilità in materia di sicurezza deve risultare  da atto scritto recante data certa, accettato espressamente e per iscritto dal delegato e da cui risulti la concessione di una pienezza dei poteri, con corrispondente autonomia di spesa.

Tuttavia, anche la presenza di una corretta delega delle responsabilità non sarebbe sufficiente a  sollevare il delegante dal dovere di vigilanza, nonostante lo stesso, nelle aziende di grandi dimensioni venga abitualmente esercitato attraverso l’adozione, ai sensi dell’art.30, comma 4, richiamato dallo stesso art.16 del citato Decreto Legislativo,  di un idoneo sistema di controllo del modello gestionale ed organizzativo.

La Cassazione ha concluso ricordando che una tale responsabilità ha lo scopo di assicurare ai lavoratori la tutela di valori primari, quali la vita e l’integrità psicofisica.

Valerio Pollastrini

mercoledì 19 marzo 2014

Sussistenza della subordinazione anche in assenza del potere disciplinare

Nella sentenza n.4856 del 28 febbraio 2014 la Corte di Cassazione ha riconosciuto la natura subordinata di un rapporto di lavoro nonostante il ricorrente fosse risultato non soggetto al potere disciplinare del datore di lavoro.

Il caso in commento è quello di uno  psicologo che aveva svolto le proprie prestazioni in favore dell’Azienda USL n. 1 di Massa Carrara con un contratto  di lavoro autonomo.

Costui, al termine del  rapporto, sostenendo la riconducibilità delle prestazioni  nell’alveo della subordinazione, si era rivolto al Tribunale di Massa chiedendo la condanna dell’azienda al pagamento di circa 28 mila € a titolo di differenze retributive.

Il Tribunale aveva accolto la domanda del ricorrente ritenendo decisivi, ai fini del riconoscimento della natura subordinata, la sussistenza nel rapporto di elementi quali  l’inserimento del medico nell’organizzazione aziendale, la presenza di un orario di lavoro predeterminato e l’assoggettamento del lavoratore alle disposizioni dei dirigenti.

Successivamente, anche la Corte di Appello di Genova aveva deciso la controversia in favore del lavoratore, confermando quanto disposto nel primo grado di giudizio.

La USL aveva dunque  proposto ricorso per cassazione, contestando alla Corte genovese di avere affermato l'esistenza della subordinazione senza avere accertato se il medico fosse stato soggetto al potere disciplinare del datore di lavoro, fondando, altresì, la propria decisione sull’accertato svolgimento da parte dello psicologo  di un’attività lavorativa attraverso modalità analoghe a quelle dei nuovi colleghi inquadrati come dipendenti.

La Corte di Cassazione  ha rigettato il ricorso, ricordando che, fini del riconoscimento della subordinazione, il fatto che il medico avesse eseguito un’attività lavorativa identica a quella espletata dagli altri psicologi di ruolo, costituiva un indice significativo di valutazione che,  pur di per sé non sufficiente, risulta decisivo se analizzato insieme agli altri elementi ritenuti dalla giurisprudenza sintomatici della subordinazione, quali:

-         La messa a disposizione di mere energie lavorative;
-         L’eterodirezione delle modalità, anche di tempo e di luogo, della prestazione;
-         L’inserimento del lavoratore nell'organizzazione produttiva e/o gerarchica dell'impresa;  
-         La sottoposizione al potere disciplinare dell'imprenditore o di suoi preposti;
-         L’utilizzo di strumenti e materiali di lavoro propri o forniti dal datore di lavoro;
-         L’obbligo di osservare un determinato orario di lavoro e/o un certo numero di presenze o di turni;
-         La continuità della collaborazione;
-         L’obbligo di giustificare le assenze;
-         Il compenso determinato in misura fissa;
-         Il luogo della prestazione.

La Cassazione ha osservato che il giudicante, per una corretta qualificazione del rapporto, è chiamato a  compiere una  valutazione d’insieme sulla concordanza dei suddetti indici sintomatici, in modo che la loro combinazione possa fornire una valida prova presuntiva.

Di contro la Suprema Corte esclude ogni valenza ad una valutazione perseguita sull’apprezzamento volta per volta di ogni indizio preso singolarmente.

Per la Cassazione, la Corte di merito,   nel maturare la propria decisione, si era correttamente attenuta ai richiamati principi, valutando gli indizi muniti di idoneità presuntiva, sia singolarmente che unitariamente nel loro complesso.

Valerio Pollastrini

Licenziamento del dipendente in seguito al tentato furto di materiale aziendale

Nella sentenza n.6219 del 18 marzo 2014 la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato ad un lavoratore che aveva tentato di rubare  del materiale aziendale, negando che elementi quali la grossolanità del tentativo di furto, la scarsa entità del danno subito dal datore di lavoro, la lunga durata del rapporto e l’inquadramento del dipendente in mansioni connaturate dallo scarso carattere fiduciario, potessero costituire circostanze attenuanti.

Un lavoratore con la qualifica di operaio meccanico di V livello era stato licenziato per giusta causa dopo aver tentato di condurre fuori dallo stabilimento senza autorizzazione n. 2 cartucce nuove di silicone di proprietà aziendale.

Il Tribunale di Taranto aveva respinto l’impugnativa del licenziamento  e la pronuncia era stata confermata dalla Corte di Appello di Lecce che aveva ritenuto l’addebito fondato e proporzionato alla massima sanzione espulsiva adottata.

Il lavoratore aveva dunque ricorso in Cassazione, sostenendo che la lettera di comunicazione del licenziamento sarebbe stata sottoscritta con segni grafici illeggibili, dai quali non era possibile risalire al nome dei due procuratori ed accertarne i poteri di firma. Ciò avrebbe determinato l’inefficacia del recesso e di tutti gli atti conseguenti da esso dipendenti.

La Cassazione ha ritenuto inammissibile tale rilievo, dal momento che la questione non era stata sollevata durante il giudizio di merito, ed ha inoltre ricordato che l’illeggibilità della firma apposta alla comunicazione del licenziamento non integra un motivo di nullità dell’atto rilevabile anche d’ufficio, dal momento che di nullità potrebbe parlarsi solo nel caso in cui venisse dimostrata da colui che  allega la non autenticità della sottoscrizione o l’insussistenza in capo al sottoscrittore della qualità indicata nell’atto (1).

La giurisprudenza di legittimità, con riferimento alla firma illeggibile apposta in calce alla procura ad litem, ha  già chiarito in passato che un’eventuale nullità non potrebbe essere che relativa e risulterebbe sanata in difetto di tempestiva deduzione (2).

Il ricorrente aveva poi dedotto omessa motivazione in ordine al mancato adempimento dell’onere della prova circa l’appropriazione delle due cartucce di silicone, posta  a fondamento della comunicazione del licenziamento, in quanto, volontariamente, non era stato richiesto l’intervento della Polizia Giudiziaria che avrebbe potuto procedere al sequestro di quanto eventualmente rinvenuto e trattenuto.

La Cassazione ha ritenuto infondato anche questo motivo di ricorso, dal momento che nella motivazione della sentenza della Corte d’Appello risultavano ben palesate le ragioni per le quali, pur in difetto di sequestro delle cartucce oggetto del tentato furto, non potevano sussistere dubbi circa la loro effettiva esistenza.

In particolare, la Corte di merito aveva ritenuto decisiva la testimonianza di un vigilantes che, dopo avere inseguito il lavoratore che precipitosamente aveva fatto ritorno negli spogliatoi, lo aveva visto gettare qualcosa nel cestino.

Un altro vigilantes aveva inoltre dichiarato di aver trovato negli spogliatoi le due cartucce di silicone coperte da panni sporchi.

Sul punto, il lavoratore aveva lamentato che nessuno lo avesse visto direttamente gettare le cartucce nel cestino, né tali cartucce erano in uso nel suo reparto, deducendo così che non sarebbe potuto venirne in possesso.

La Cassazione ha escluso ogni valenza ai suddetti rilievi avanzati dal ricorrente, richiamando il principio ormai acquisito secondo il quale “la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (3).

La Corte di Appello aveva ritenuto che il lavoratore avrebbe potuto impossessarsi delle due cartucce di silicone pur non facendone uso il suo reparto, valorizzando le concordanti deposizioni del responsabile del magazzino generale, del capo area degli impianti e di un sindacalista, che avevano dichiarato che il materiale fosse presente nel magazzino generale dello stabilimento e che lo stesso veniva utilizzato in un reparto distante circa 400 metri da quello del ricorrente, il cui reparto, tra l’altro, attingeva allo stesso magazzino non avendone uno proprio. Si tratta di una motivazione che la Suprema Corte ha ritenuto non censurabile.

Come ultimo motivo di ricorso il lavoratore aveva sostenuto l’errata la motivazione della Corte laddove aveva ritenuto che i fatti oggetto di contestazione fossero sufficienti a ledere irreparabilmente l’elemento fiduciario posto a fondamento del rapporto di lavoro.

In base ai parametri enucleati dalla giurisprudenza, la sanzione risulterebbe, a detta del dipendente, sproporzionata.

In particolare, la grossolanità del tentativo di furto, la scarsa entità del danno subito dal datore di lavoro, la lunga durata  del rapporto (26 anni), il  fatto che il lavoratore non svolgeva mansioni di carattere fiduciario e l’impossibilità di reiterazione della condotta, in virtù dell’apparato di verifica predisposto successivamente ai fatti accaduti, costituivano circostanze che escluderebbero una gravità della condotta tale da legittimare l’irrogazione della massima sanzione espulsiva.

Anche quest’ultimo motivo di ricorso è stato ritenuto inammissibile. La Cassazione ha posto l’accento sul fatto che attraverso di esso è stata sollecitata dal ricorrente una nuova valutazione sulla proporzionalità dell’addebito rispetto alla sanzione irrogata e della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento, che tuttavia si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al Giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (4).

La Suprema Corte ha poi rilevato che la grossolanità del tentativo di furto fosse scaturita dal suo mancato successo  per la presenza dei vigilantes e non incide sulla gravità dell’elemento soggettivo, che il Giudice di Appello aveva correttamente desunto dall’introduzione nel marsupio delle cartucce di silicone, dal successivo occultamento della refurtiva nel cestino portarifiuti, dall’invito rivolto ai vigilanti di omettere il rapporto, dalla giustificazione (il recupero del telefono cellulare) fornita a motivo del precipitoso rientro nello spogliatoio, risultata falsa per non essere stato rinvenuto alcun telefono cellulare.

Quanto poi alla tenuità del danno patrimoniale,  i precedenti della Corte di Cassazione ne escludono la rilevanza sul venir meno della fiducia nella correttezza del futuro adempimento nel caso di furto di materiali aziendali (5).

La Suprema Corte ha poi aggiunto che il lavoratore aveva riportato ben otto sanzioni disciplinari nel corso del rapporto di lavoro  che, pur non assumendo rilevanza ai fini della recidiva, erano state tuttavia correttamente valutati sotto il profilo della complessiva gravità del comportamento del dipendente e della proporzionalità della sanzione irrogatagli.

Sul fatto poi che il dipendente non svolgesse mansioni di carattere fiduciario, gli ermellini hanno rilevato la loro connessione all’uso ed alla disponibilità di materiali aziendali, ricordando i numerosi casi di furto verificatisi in azienda e che le dimensioni dello stabilimento non consentono controlli sistematici, ma solo a campione.

Per tutte le ragioni esposte, la Cassazione ha  respinto il ricorso del lavoratore, confermando la legittimità del licenziamento.

Valerio Pollastrini


(1)   - In tal senso, in merito a firma illeggibile apposta in calce ad ordinanza-ingiunzione ex L. 689 del 1981, Cass. Sez. 1, sentenza n. 522 del 20/01/1994;
(2)   - Sez. U, sentenza n. 25036 del 07/11/2013;
(3)   - Sez. L, sentenza n. 21412 del 05/10/2006, conf. Sez. L, sentenza n. 4391 del 26/02/2007, Sez. L, sentenza n. 16346 del 24/07/2007;
(4)   - Sez. L., sentenza n. 35 del 03/01/2011;
(5)   - Cass., Sentenza n.5434 del 2003;

Lavoratore in malattia sorpreso a svolgere di notte l’attività di buttafuori

Nella sentenza n.5883 del 13 marzo 2014 la Corte di Cassazione è tornata ad esprimersi sulla possibilità, da parte di un dipendente assente per malattia, di svolgere altra attività in concomitanza con la patologia lamentata.

Il caso in commento è quello di  un lavoratore licenziato per giusta causa  dopo essere stato sorpreso a svolgere, durante un periodo di assenza per malattia, l’attività di "buttafuori" in favore di un’altra impresa, della quale era risultato essere socio.

Sia il Tribunale di Ascoli Piceno che la Corte d'Appello di Ancona avevano ritenuto illegittimo il licenziamento.

La Corte territoriale, in particolare, dopo aver accertato la reale sussistenza della sindrome ansionso-depressiva lamentata dal lavoratore, aveva  stabilito che l’attività di sorvegliante prestata  in favore di  un’altra società, eseguita nei fine settimana ed in orari notturni, fosse del tutto compatibile con la malattia certificata.

La Corte di Cassazione (1) aveva accolto  il ricorso del datore di lavoro, rilevando come la Corte di Appello fosse venuta meno al costante principio della giurisprudenza di legittimità secondo il quale la prova testimoniale deve avere per oggetto fatti e non apprezzamenti e che il Giudice di merito non deve dare valenza alle deposizioni testimoniali che si traducono in un'interpretazione soggettiva, ovvero in un mero apprezzamento tecnico del fatto.

Nel caso di specie, la Corte di merito aveva invece fondato la propria decisione esclusivamente sulla testimonianza resa dal Direttore del Dipartimento di salute mentale della ASL XX di Ascoli Piceno che aveva redatto il certificato medico del lavoratore, mentre avrebbe dovuto avvalersi di una specifica Consulenza Tecnica d'Ufficio.

La Suprema Corte aveva pertanto cassato la sentenza impugnata ed aveva rinviato la decisione alla  Corte di Appello di Bologna.

Il giudice del rinvio aveva parimenti ritenuto illegittimo il licenziamento, questa volta in virtù dei risultati di una C.T.U. medica che aveva accertato come, pur non sussistendo attualmente in capo al lavoratore una sindrome ansioso-depressiva, all'epoca dei fatti doveva ritenersi plausibile che lo stesso  presentasse una reazione di disadattamento con temporaneo turbamento psicologico con sentimenti di rabbia, frustrazione e rivendicazione, con lo sviluppo di alcuni sintomi inquadrabili come disturbo dell'adattamento...con aspetti emotivi misti, ansiosi e depressivi.

Il Giudice di Appello aveva ritenuto, altresì,  che le condizioni cliniche  del lavoratore fossero compatibili con lo svolgimento dell'attività di sorveglianza in locali notturni  e che tale attività non fosse di ostacolo alla sua guarigione.

A questo punto l’azienda aveva nuovamente proposto ricorso in Cassazione, contestando alla Corte territoriale la formulazione di giudizi di natura medico legale incerti e contrastanti con le disposizioni del Decreto del Ministero dell’interno del 6 ottobre 2009, in base alle quali l’esercizio dell’attività di “buttafuori” è consentito solamente in presenza di una buona salute fisica e mentale.

Nuovamente investita della questione, la Suprema Corte ha osservato come la Corte di merito avesse fondato la propria decisione sulle risultanze della consulenza tecnica medico-legale che aveva accertato come all'epoca dei fatti il lavoratore fosse affetto da una patologia rientrante nel concetto di malattia di cui all'art. 2110 c.c. con sintomi inquadrabili come disturbo dell'adattamento ed aspetti emotivi misti, ansiosi e depressivi e legittimante l'assenza dal lavoro.

La Cassazione ha quindi rilevato che il  Giudice di merito avrebbe dovuto disporre un’altra C.T.U. per accertare se la patologia da cui il lavoratore era risultato affetto fosse compatibile con l'attività di sorveglianza in locali notturni e se questa potesse comprometterne o ritardarne la guarigione.

La Suprema Corte ha ricordato che la decisione se ricorrere o meno alla Consulenza Tecnica rientra nei poteri discrezionali del Giudice di merito e come tale è incensurabile in sede di legittimità.

Si tratta di un principio che, tuttavia deve essere contemperato con l'altro, secondo il quale il Giudice deve sempre motivare adeguatamente la decisione adottata in merito ad una questione tecnica rilevante per la definizione della causa.

Conseguentemente,  qualora il Giudice disponga di elementi istruttori e di cognizioni proprie, integrati da presunzioni e da nozioni di comune esperienza sufficienti a dar conto della decisione adottata, l’eventuale mancato esercizio di quel potere non può essere censurato.

Se però la soluzione scelta non sia adeguatamente motivata, la stessa risulta sindacabile in sede di legittimità.

Nel caso in commento, la Cassazione ha censurato  la motivazione della Corte di merito poiché fondata su una disamina del tutto lacunosa della prestazione di sorveglianza nei locali notturni svolta dal lavoratore, limitandosi a valorizzare il valore positivo delle pubbliche relazioni ad essa connesse, senza analizzare però altri aspetti che sarebbero stati rilevanti al fine della decisione.

Pur dovendosi dare atto che il DM 6 ottobre 2009, invocato dalla parte ricorrente e successivo ai fatti di causa, si riferisce all'attività di "buttafuori" svolta con carattere di professionalità e abitualità, mentre quella del lavoratore era risultata del tutto occasionale, la Corte di Appello avrebbe dovuto anche analizzare altri aspetti, quali la prestazione in orari notturni, che avrebbero potuto determinare  un’alterazione del ritmo fisiologico sonno-veglia, la possibile conflittualità interpersonale, la necessità di far valere la propria autorità, la necessità di mantenere alta la soglia di attenzione per un tempo prolungato nonché l'autocontrollo. Elementi potenzialmente idonei ad incidere su una patologia di natura psichica qual è quella di cui il dipendente era portatore.

Anche questa volta la Suprema Corte ha dunque  cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte di Appello di Bologna che, in diversa composizione, dovrà decidere anche in merito alla ripartizione delle spese del giudizio di legittimità.

Valerio Pollastrini


(1)   – Cassazione, Sentenza n.11745 del 2005;

lunedì 17 marzo 2014

Offendere il datore di lavoro non sempre legittima il licenziamento del dipendente

Le offese pronunciate nei confronti del datore di lavoro non sempre legittimano il licenziamento del dipendente. E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n.5730 del 18 dicembre 2013-12 marzo 2014.

Un impiegato alle dipendenze della “Bilia A.G.”  con mansioni di capo reparto era stato licenziato in tronco per aver proferito ingiurie nei confronti dei suoi superiori.

"Io sono una persona serena, altrimenti li avrei aspettati ad (…) e gli avrei puntato una pistola in bocca". Questa la frase pronunciata dal lavoratore che, unitamente ad altre espressioni offensive, aveva dato luogo al provvedimento espulsivo.

Il Tribunale di Cagliari, ritenuto illegittimo il recesso, aveva disposto la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro ed aveva condannato l’azienda al pagamento delle retribuzioni maturate nel periodo intercorrente tra il  licenziamento e la reintegra, nonché al risarcimento del danno biologico stimato dalla C.t.u. nella misura del 6%.

Successivamente, la Corte di Appello di Cagliari aveva parzialmente riformato la sentenza di primo grado e, pur confermando l’invalidità del licenziamento e le conseguenze risarcitorie ad esso connesse, aveva ritenuto non dovuta dalla società appellante la somma di 8.040,78 €, liquidata dal Tribunale a titolo di risarcimento dell'ulteriore danno reclamato dal lavoratore.

In particolare, la Corte di merito aveva confermato l’illegittimità del recesso per la sproporzione della sanzione rispetto alla gravità della condotta contestata, anche in virtù dei tentativi compiuti dall’azienda di limitare l’impegno sindacale del lavoratore che l’istruttoria aveva accertato essere sgradito ai suoi superiori.

Tentativi che erano culminati nell’adibizione del lavoratore in via temporanea alle inferiori mansioni di ricezione merci.

L’episodio poi sfociato nel licenziamento si era verificato  in conseguenza  della comunicazione del trasferimento imposto al lavoratore da Cagliari ad Oristano, proprio in coincidenza con la data di svolgimento di una riunione sindacale che avrebbe dovuto ratificarne la nomina a R.S.A. in seno all'azienda.

Peraltro era emerso che all’interno dell'organico aziendale, vi fosse un  altro dipendente con lo stesso inquadramento del ricorrente.

A detta del giudicante, le frasi proferite dal lavoratore erano sicuramente  connotate da un atteggiamento volgare ed offensivo, ma erano prive del contenuto intimidatorio e minaccioso attribuito loro dal datore di lavoro, in quanto scaturite da una reazione impulsiva causata dalla difficoltà del momento, aggravata dalla mancanza di preavviso del trasferimento.

La rilevata  pacatezza dei toni e la natura del tutto ipotetica dell'espressione proferita dal lavoratore, escludeva per la Giudice di Appello la concretizzazione di un’efficace forma di intimidazione.

Le ulteriori espressioni ingiuriose ed offensive, pur se contrarie agli obblighi imposti dalla normativa legale e contrattuale, e quindi configuranti un illecito disciplinare,  non erano tuttavia sufficienti ad integrare la nozione legale di giusta causa di recesso di cui all'art. 2119 c.c.. La Corte territoriale aveva parimenti escluso che le disposizioni previste dalla contrattazione collettiva del settore commercio, potessero legittimare il licenziamenti. Ritenute tali disposizioni  non vincolanti, la valutazione dalla gravità del fatto doveva essere quindi effettuata attraverso un’analisi caso per caso.

Inoltre doveva ritenersi probabile che il comportamento del dipendente fosse stato determinato da una reazione istintiva al provvedimento di trasferimento che, quantomeno  per le coincidenze temporali, ben poteva essere interpretato  come finalizzato a contrastare la sua intenzione di assumere importanti incarichi sindacali.

L'insussistenza della portata intimidatoria delle espressioni utilizzate e la valutazione dello stato psicologico nel quale le stesse erano state pronunciate, avevano indotto la  Corte di Appello  a ridimensionare la gravità della  condotta del lavoratore.

Alla luce delle richiamate considerazioni, il giudicante aveva escluso che l'episodio potesse aver leso irrimediabilmente  il vincolo fiduciario posto alla base del rapporto tra le parti, anche in virtù nella mancanza di precedenti disciplinari a carico del dipendente  nel corso dei suoi diciassette anni di servizio.

Una simile valutazione circa la gravità del fatto contestato, aveva inoltre spinto la Corte di Appello a negare la rilevanza al caso di specie delle disposizioni contenute nel  Contratto Collettivo applicato, in base alle quali  il recesso sarebbe giustificato nelle ipotesi di insubordinazione verso i superiori accompagnata dal comportamento oltraggioso.

Per la normativa contrattuale, infatti, il presupposto dell’insubordinazione sarebbe  la contravvenzione del lavoratore ad un ordine legittimo impartito dal datore di lavoro, circostanza non rilevata nella circostanza in commento.

L’unica  doglianza datoriale accolta dalla Corte territoriale è stata quella tesa a contestare il risarcimento dell’ulteriore  danno accordato al lavoratore  per la lesione della sua integrità psicofisica, provocata dall'illegittimità del licenziamento.

Solo un licenziamento ingiurioso, persecutorio o vessatorio avrebbe infatti determinato la risarcibilità del danno eventualmente derivatone e per tale ragione il Giudice ne aveva escluso la sussistenza nel caso di specie.

La società aveva proposto ricorso in Cassazione, contestando che,   a proposito della valutazione in ordine alla sussistenza della giusta causa del licenziamento, la Corte di Appello avrebbe omesso di considerare la fattispecie nel suo complesso, non tenendo conto  dei riferimenti normativi applicabili.

Secondo la tesi datoriale, la condotta posta in essere dal lavoratore  sarebbe contraria ai doveri civici e quindi pacificamente rilevante ai sensi delle disposizioni del Contratto Collettiva, nelle quali sono elencati  i comportamenti idonei ad integrare l’irrogazione della sanzione espulsiva.

A tal proposito, nel ricordare  che il Contratto Collettivo applicato, annovera tra le ipotesi di giusta causa di recesso  l’insubordinazione verso i superiori accompagnata da comportamento oltraggioso, l’impresa ha osservato come le espressioni proferite dal lavoratore nei confronti dei superiori avessero costituito una evidente insubordinazione accompagnata da comportamento oltraggioso.

Per tale ragione sarebbe dunque erronea la  motivazione in base alla quale la Corte di merito aveva escluso la sussistenza  dei presupposti caratterizzanti la fattispecie della giusta causa di licenziamento,  sia in relazione alle richiamate disposizioni contrattuali che con riguardo all’art.2119 del codice civile.

Sostenendo apoditticamente la mancanza di gravità della violazione in esame, la pronuncia di Appello avrebbe inoltre aggirato il precetto della contrattazione collettiva, escludendo, in particolare, che gli atti posti in essere costituissero insubordinazione nei confronti dei superiori,  nonostante la Cassazione abbia più volte sancito che la violenta aggressione verbale, anche non seguita da vie di fatto, configuri una giusta causa di recesso.

A nulla varrebbe, si legge tra i motivi del ricorso, l'assenza di precedenti disciplinari a carico del dipendente  ai fini di una corretta valutazione  della sua contestata  condotta, anche in conseguenza del disvalore ambientale riconnessovi per la posizione professionale rivestita dal dipendente  e, dunque, disincentivante nei confronti degli altri dipendenti, specie se sottordinati.

La società lamenta inoltre insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Nel ritenere prive di contenuto intimidatorio e minaccioso le frasi proferite, giudicate tuttavia idonee a sostanziare un inadempimento disciplinare, la Corte di merito, dopo aver affermato in un primo momento che vi fosse stata una  violazione degli obblighi imposti dalla normativa contrattuale, aveva successivamente disconosciuto  la valenza degli stessi inadempimenti in base alla apodittica affermazione della mancanza di ogni efficacia minacciosa ed intimidatrice.

In sostanza,  la Corte di Appello, dopo aver affermato che l'inadempimento avesse concretizzato la violazione sia  della normativa di legge che di quella contrattuale, contraddicendo se stessa aveva poi  sostenuto che l’inadempimento non fosse idoneo per l’inottemperanza delle norme contrattuali di riferimento.

Ulteriore contraddizione viene ravvisata dal datore di lavoro nella rilevata mancanza di efficacia intimidatoria delle frasi del dipendente poiché pronunciate durante una reazione istintiva, laddove proprio la reazione istintiva ne comproverebbe la valenza intimidatoria.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Richiamando quanto più volte  affermato, la Cassazione ha ribadito che, nel generale contesto dei contratti con prestazioni corrispettive, ove venga proposta dalla parte l'eccezione "inadempienti non est adimplendum" il Giudice è chiamato ad una valutazione comparativa degli opposti adempimenti, tenendo conto della loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto ed alla loro rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse.

Si tratta di una valutazione riservata al Giudice di merito che, se assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria (1), è incensurabile in sede di legittimità.

Con riguardo alla supposta  violazione del criterio della proporzionalità imputata al Giudice di Appello che non avrebbe adeguatamente considerato elementi di sicura rilevanza ai detti fini, valorizzando invece, - per escludere la gravità dell'illecito e l'intensità dell'elemento psicologico - circostanze asseritamente di scarsa significatività o contraddittorietà, la Cassazione  ha ricordato, citando i suoi precedenti (2), che  il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell'illecito commesso è rimesso al Giudice di merito, la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione (3) e  da apprezzamento di fatto che non è rinnovabile in tale sede, bensì censurabile per vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione (4).

Sempre in base ai consolidati orientamenti della giurisprudenza di legittimità (5), la Cassazione ha ulteriormente precisato che,  per accertare la sussistenza della giusta causa di licenziamento, il Giudice di merito è chiamato ad integrare  il precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c.,  con quanto percepito dalla c.d. "coscienza generale".

Tale valutazione è sindacabile in Cassazione,  purché la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia dell’incoerenza del predetto giudizio rispetto agli "standards" conformi ai valori dell'ordinamento ed esistenti nella realtà sociale (6).

La Suprema Corte ha rilevato che una simile denunzia non era stata addotta  tra i motivi di ricorso.

La Corte di Appello aveva escluso  l’efficacia intimidatoria delle frasi proferite dal lavoratore proprio in relazione alla percezione che lo stesso aveva avuto in merito alla notizia del suo trasferimento, inteso come irrogato al solo al fine di impedirne lo svolgimento  dell’attività sindacale.

La Cassazione ha concluso negando la fondatezza della lamentata contraddittorietà della motivazione fornita dal Giudice del merito che aveva prima affermato che la condotta contestata avesse concretizzato una violazione della normativa di riferimento, per poi  negare alla stessa l'inottemperanza della legge.

La Suprema Corte ha ribadito la condivisibilità della pronuncia di merito che, nel valutare la gravità del comportamento censurato,  aveva tenuto conto anche  delle particolari  connotazioni psicologiche, nonché del profilo soggettivo del suo autore.

Valerio Pollastrini
 

(1)   – Cassazione, sentenza  n.4060 del 19 febbraio.2008;  Cassazione, sentenza  n.11430 del 16 maggio 2006;

(2)   - Cassazione, sentenza n.25743 del 2007;

(3)   – Cassazione, sentenza n.21965 del 2007;

(4)   – Cassazione, sentenza n.6823 del 2004;

(5)   – Cassazione, sentenza n.9266 del 2005;

(6)   – Cassazione, sentenza  n.6498 del 26 aprile 2012, conf. a Cassazione, sentenza n.5095 del 2011 e Cassazione, sentenza n.9299 del 2004;