Un
lavoratore con la qualifica di operaio meccanico di V livello era stato
licenziato per giusta causa dopo aver tentato di condurre fuori dallo
stabilimento senza autorizzazione n. 2 cartucce nuove di silicone di proprietà
aziendale.
Il
Tribunale di Taranto aveva respinto l’impugnativa del licenziamento e la pronuncia era stata confermata dalla
Corte di Appello di Lecce che aveva ritenuto l’addebito fondato e proporzionato
alla massima sanzione espulsiva adottata.
Il
lavoratore aveva dunque ricorso in Cassazione, sostenendo che la lettera di
comunicazione del licenziamento sarebbe stata sottoscritta con segni grafici
illeggibili, dai quali non era possibile risalire al nome dei due procuratori
ed accertarne i poteri di firma. Ciò avrebbe determinato l’inefficacia del recesso
e di tutti gli atti conseguenti da esso dipendenti.
La
Cassazione ha ritenuto inammissibile tale rilievo, dal momento che la questione
non era stata sollevata durante il giudizio di merito, ed ha inoltre ricordato
che l’illeggibilità della firma apposta
alla comunicazione del licenziamento non integra un motivo di nullità dell’atto
rilevabile anche d’ufficio, dal momento che di nullità potrebbe parlarsi solo
nel caso in cui venisse dimostrata da colui che allega la non autenticità della sottoscrizione
o l’insussistenza in capo al sottoscrittore della qualità indicata nell’atto (1).
La
giurisprudenza di legittimità, con riferimento alla firma illeggibile apposta
in calce alla procura ad litem, ha già
chiarito in passato che un’eventuale nullità non potrebbe essere che relativa e
risulterebbe sanata in difetto di tempestiva deduzione (2).
Il
ricorrente aveva poi dedotto omessa motivazione in ordine al mancato
adempimento dell’onere della prova circa l’appropriazione delle due cartucce di
silicone, posta a fondamento della
comunicazione del licenziamento, in quanto, volontariamente, non era stato
richiesto l’intervento della Polizia Giudiziaria che avrebbe potuto procedere
al sequestro di quanto eventualmente rinvenuto e trattenuto.
La
Cassazione ha ritenuto infondato anche questo motivo di ricorso, dal momento
che nella motivazione della sentenza della Corte d’Appello risultavano ben
palesate le ragioni per le quali, pur in difetto di sequestro delle cartucce
oggetto del tentato furto, non potevano sussistere dubbi circa la loro
effettiva esistenza.
In
particolare, la Corte di merito aveva ritenuto decisiva la testimonianza di un
vigilantes che, dopo avere inseguito il lavoratore che precipitosamente aveva
fatto ritorno negli spogliatoi, lo aveva visto gettare qualcosa nel cestino.
Un
altro vigilantes aveva inoltre dichiarato di aver trovato negli spogliatoi le
due cartucce di silicone coperte da panni sporchi.
Sul
punto, il lavoratore aveva lamentato che nessuno lo avesse visto direttamente
gettare le cartucce nel cestino, né tali cartucce erano in uso nel suo reparto,
deducendo così che non sarebbe potuto venirne in possesso.
La
Cassazione ha escluso ogni valenza ai suddetti rilievi avanzati dal ricorrente,
richiamando il principio ormai acquisito secondo il quale “la valutazione delle
risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e
sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie
risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la
motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito,
il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con
esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le
ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo
elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi
implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non
menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione
adottata” (3).
La
Corte di Appello aveva ritenuto che il lavoratore avrebbe potuto impossessarsi
delle due cartucce di silicone pur non facendone uso il suo reparto,
valorizzando le concordanti deposizioni del responsabile del magazzino
generale, del capo area degli impianti e di un sindacalista, che avevano
dichiarato che il materiale fosse presente nel magazzino generale dello
stabilimento e che lo stesso veniva utilizzato in un reparto distante circa 400
metri da quello del ricorrente, il cui reparto, tra l’altro, attingeva allo
stesso magazzino non avendone uno proprio. Si tratta di una motivazione che la
Suprema Corte ha ritenuto non censurabile.
Come
ultimo motivo di ricorso il lavoratore aveva sostenuto l’errata la motivazione
della Corte laddove aveva ritenuto che i fatti oggetto di contestazione fossero
sufficienti a ledere irreparabilmente l’elemento fiduciario posto a fondamento
del rapporto di lavoro.
In
base ai parametri enucleati dalla giurisprudenza, la sanzione risulterebbe, a
detta del dipendente, sproporzionata.
In
particolare, la grossolanità del tentativo di furto, la scarsa entità del danno
subito dal datore di lavoro, la lunga durata del rapporto (26 anni), il fatto che il lavoratore non svolgeva mansioni
di carattere fiduciario e l’impossibilità di reiterazione della condotta, in virtù
dell’apparato di verifica predisposto successivamente ai fatti accaduti,
costituivano circostanze che escluderebbero una gravità della condotta tale da
legittimare l’irrogazione della massima sanzione espulsiva.
Anche
quest’ultimo motivo di ricorso è stato ritenuto inammissibile. La Cassazione ha
posto l’accento sul fatto che attraverso di esso è stata sollecitata dal
ricorrente una nuova valutazione sulla proporzionalità dell’addebito rispetto
alla sanzione irrogata e della sua idoneità ad integrare giusta causa di
licenziamento, che tuttavia si risolve in un apprezzamento di fatto riservato
al Giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente
motivato (4).
La
Suprema Corte ha poi rilevato che la grossolanità del tentativo di furto fosse
scaturita dal suo mancato successo per
la presenza dei vigilantes e non incide sulla gravità dell’elemento soggettivo,
che il Giudice di Appello aveva correttamente desunto dall’introduzione nel
marsupio delle cartucce di silicone, dal successivo occultamento della
refurtiva nel cestino portarifiuti, dall’invito rivolto ai vigilanti di
omettere il rapporto, dalla giustificazione (il recupero del telefono
cellulare) fornita a motivo del precipitoso rientro nello spogliatoio,
risultata falsa per non essere stato rinvenuto alcun telefono cellulare.
Quanto
poi alla tenuità del danno patrimoniale,
i precedenti della Corte di Cassazione ne escludono la rilevanza sul venir
meno della fiducia nella correttezza del futuro adempimento nel caso di furto
di materiali aziendali (5).
La
Suprema Corte ha poi aggiunto che il lavoratore aveva riportato ben otto
sanzioni disciplinari nel corso del rapporto di lavoro che, pur non assumendo rilevanza ai fini della
recidiva, erano state tuttavia correttamente valutati sotto il profilo della
complessiva gravità del comportamento del dipendente e della proporzionalità
della sanzione irrogatagli.
Sul
fatto poi che il dipendente non svolgesse mansioni di carattere fiduciario, gli
ermellini hanno rilevato la loro connessione all’uso ed alla disponibilità di
materiali aziendali, ricordando i numerosi casi di furto verificatisi in
azienda e che le dimensioni dello stabilimento non consentono controlli
sistematici, ma solo a campione.
Per
tutte le ragioni esposte, la Cassazione ha respinto il ricorso del lavoratore,
confermando la legittimità del licenziamento.
Valerio
Pollastrini
(1) -
In tal senso, in merito a firma illeggibile apposta in calce ad
ordinanza-ingiunzione ex L. 689 del 1981, Cass. Sez. 1, sentenza n. 522 del
20/01/1994;
(2) -
Sez. U, sentenza n. 25036 del 07/11/2013;
(3) -
Sez. L, sentenza n. 21412 del 05/10/2006, conf. Sez. L, sentenza n. 4391 del
26/02/2007, Sez. L, sentenza n. 16346 del 24/07/2007;
(4) -
Sez. L., sentenza n. 35 del 03/01/2011;
(5) -
Cass., Sentenza n.5434 del 2003;
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