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lunedì 17 marzo 2014

Offendere il datore di lavoro non sempre legittima il licenziamento del dipendente

Le offese pronunciate nei confronti del datore di lavoro non sempre legittimano il licenziamento del dipendente. E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n.5730 del 18 dicembre 2013-12 marzo 2014.

Un impiegato alle dipendenze della “Bilia A.G.”  con mansioni di capo reparto era stato licenziato in tronco per aver proferito ingiurie nei confronti dei suoi superiori.

"Io sono una persona serena, altrimenti li avrei aspettati ad (…) e gli avrei puntato una pistola in bocca". Questa la frase pronunciata dal lavoratore che, unitamente ad altre espressioni offensive, aveva dato luogo al provvedimento espulsivo.

Il Tribunale di Cagliari, ritenuto illegittimo il recesso, aveva disposto la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro ed aveva condannato l’azienda al pagamento delle retribuzioni maturate nel periodo intercorrente tra il  licenziamento e la reintegra, nonché al risarcimento del danno biologico stimato dalla C.t.u. nella misura del 6%.

Successivamente, la Corte di Appello di Cagliari aveva parzialmente riformato la sentenza di primo grado e, pur confermando l’invalidità del licenziamento e le conseguenze risarcitorie ad esso connesse, aveva ritenuto non dovuta dalla società appellante la somma di 8.040,78 €, liquidata dal Tribunale a titolo di risarcimento dell'ulteriore danno reclamato dal lavoratore.

In particolare, la Corte di merito aveva confermato l’illegittimità del recesso per la sproporzione della sanzione rispetto alla gravità della condotta contestata, anche in virtù dei tentativi compiuti dall’azienda di limitare l’impegno sindacale del lavoratore che l’istruttoria aveva accertato essere sgradito ai suoi superiori.

Tentativi che erano culminati nell’adibizione del lavoratore in via temporanea alle inferiori mansioni di ricezione merci.

L’episodio poi sfociato nel licenziamento si era verificato  in conseguenza  della comunicazione del trasferimento imposto al lavoratore da Cagliari ad Oristano, proprio in coincidenza con la data di svolgimento di una riunione sindacale che avrebbe dovuto ratificarne la nomina a R.S.A. in seno all'azienda.

Peraltro era emerso che all’interno dell'organico aziendale, vi fosse un  altro dipendente con lo stesso inquadramento del ricorrente.

A detta del giudicante, le frasi proferite dal lavoratore erano sicuramente  connotate da un atteggiamento volgare ed offensivo, ma erano prive del contenuto intimidatorio e minaccioso attribuito loro dal datore di lavoro, in quanto scaturite da una reazione impulsiva causata dalla difficoltà del momento, aggravata dalla mancanza di preavviso del trasferimento.

La rilevata  pacatezza dei toni e la natura del tutto ipotetica dell'espressione proferita dal lavoratore, escludeva per la Giudice di Appello la concretizzazione di un’efficace forma di intimidazione.

Le ulteriori espressioni ingiuriose ed offensive, pur se contrarie agli obblighi imposti dalla normativa legale e contrattuale, e quindi configuranti un illecito disciplinare,  non erano tuttavia sufficienti ad integrare la nozione legale di giusta causa di recesso di cui all'art. 2119 c.c.. La Corte territoriale aveva parimenti escluso che le disposizioni previste dalla contrattazione collettiva del settore commercio, potessero legittimare il licenziamenti. Ritenute tali disposizioni  non vincolanti, la valutazione dalla gravità del fatto doveva essere quindi effettuata attraverso un’analisi caso per caso.

Inoltre doveva ritenersi probabile che il comportamento del dipendente fosse stato determinato da una reazione istintiva al provvedimento di trasferimento che, quantomeno  per le coincidenze temporali, ben poteva essere interpretato  come finalizzato a contrastare la sua intenzione di assumere importanti incarichi sindacali.

L'insussistenza della portata intimidatoria delle espressioni utilizzate e la valutazione dello stato psicologico nel quale le stesse erano state pronunciate, avevano indotto la  Corte di Appello  a ridimensionare la gravità della  condotta del lavoratore.

Alla luce delle richiamate considerazioni, il giudicante aveva escluso che l'episodio potesse aver leso irrimediabilmente  il vincolo fiduciario posto alla base del rapporto tra le parti, anche in virtù nella mancanza di precedenti disciplinari a carico del dipendente  nel corso dei suoi diciassette anni di servizio.

Una simile valutazione circa la gravità del fatto contestato, aveva inoltre spinto la Corte di Appello a negare la rilevanza al caso di specie delle disposizioni contenute nel  Contratto Collettivo applicato, in base alle quali  il recesso sarebbe giustificato nelle ipotesi di insubordinazione verso i superiori accompagnata dal comportamento oltraggioso.

Per la normativa contrattuale, infatti, il presupposto dell’insubordinazione sarebbe  la contravvenzione del lavoratore ad un ordine legittimo impartito dal datore di lavoro, circostanza non rilevata nella circostanza in commento.

L’unica  doglianza datoriale accolta dalla Corte territoriale è stata quella tesa a contestare il risarcimento dell’ulteriore  danno accordato al lavoratore  per la lesione della sua integrità psicofisica, provocata dall'illegittimità del licenziamento.

Solo un licenziamento ingiurioso, persecutorio o vessatorio avrebbe infatti determinato la risarcibilità del danno eventualmente derivatone e per tale ragione il Giudice ne aveva escluso la sussistenza nel caso di specie.

La società aveva proposto ricorso in Cassazione, contestando che,   a proposito della valutazione in ordine alla sussistenza della giusta causa del licenziamento, la Corte di Appello avrebbe omesso di considerare la fattispecie nel suo complesso, non tenendo conto  dei riferimenti normativi applicabili.

Secondo la tesi datoriale, la condotta posta in essere dal lavoratore  sarebbe contraria ai doveri civici e quindi pacificamente rilevante ai sensi delle disposizioni del Contratto Collettiva, nelle quali sono elencati  i comportamenti idonei ad integrare l’irrogazione della sanzione espulsiva.

A tal proposito, nel ricordare  che il Contratto Collettivo applicato, annovera tra le ipotesi di giusta causa di recesso  l’insubordinazione verso i superiori accompagnata da comportamento oltraggioso, l’impresa ha osservato come le espressioni proferite dal lavoratore nei confronti dei superiori avessero costituito una evidente insubordinazione accompagnata da comportamento oltraggioso.

Per tale ragione sarebbe dunque erronea la  motivazione in base alla quale la Corte di merito aveva escluso la sussistenza  dei presupposti caratterizzanti la fattispecie della giusta causa di licenziamento,  sia in relazione alle richiamate disposizioni contrattuali che con riguardo all’art.2119 del codice civile.

Sostenendo apoditticamente la mancanza di gravità della violazione in esame, la pronuncia di Appello avrebbe inoltre aggirato il precetto della contrattazione collettiva, escludendo, in particolare, che gli atti posti in essere costituissero insubordinazione nei confronti dei superiori,  nonostante la Cassazione abbia più volte sancito che la violenta aggressione verbale, anche non seguita da vie di fatto, configuri una giusta causa di recesso.

A nulla varrebbe, si legge tra i motivi del ricorso, l'assenza di precedenti disciplinari a carico del dipendente  ai fini di una corretta valutazione  della sua contestata  condotta, anche in conseguenza del disvalore ambientale riconnessovi per la posizione professionale rivestita dal dipendente  e, dunque, disincentivante nei confronti degli altri dipendenti, specie se sottordinati.

La società lamenta inoltre insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Nel ritenere prive di contenuto intimidatorio e minaccioso le frasi proferite, giudicate tuttavia idonee a sostanziare un inadempimento disciplinare, la Corte di merito, dopo aver affermato in un primo momento che vi fosse stata una  violazione degli obblighi imposti dalla normativa contrattuale, aveva successivamente disconosciuto  la valenza degli stessi inadempimenti in base alla apodittica affermazione della mancanza di ogni efficacia minacciosa ed intimidatrice.

In sostanza,  la Corte di Appello, dopo aver affermato che l'inadempimento avesse concretizzato la violazione sia  della normativa di legge che di quella contrattuale, contraddicendo se stessa aveva poi  sostenuto che l’inadempimento non fosse idoneo per l’inottemperanza delle norme contrattuali di riferimento.

Ulteriore contraddizione viene ravvisata dal datore di lavoro nella rilevata mancanza di efficacia intimidatoria delle frasi del dipendente poiché pronunciate durante una reazione istintiva, laddove proprio la reazione istintiva ne comproverebbe la valenza intimidatoria.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Richiamando quanto più volte  affermato, la Cassazione ha ribadito che, nel generale contesto dei contratti con prestazioni corrispettive, ove venga proposta dalla parte l'eccezione "inadempienti non est adimplendum" il Giudice è chiamato ad una valutazione comparativa degli opposti adempimenti, tenendo conto della loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto ed alla loro rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse.

Si tratta di una valutazione riservata al Giudice di merito che, se assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria (1), è incensurabile in sede di legittimità.

Con riguardo alla supposta  violazione del criterio della proporzionalità imputata al Giudice di Appello che non avrebbe adeguatamente considerato elementi di sicura rilevanza ai detti fini, valorizzando invece, - per escludere la gravità dell'illecito e l'intensità dell'elemento psicologico - circostanze asseritamente di scarsa significatività o contraddittorietà, la Cassazione  ha ricordato, citando i suoi precedenti (2), che  il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell'illecito commesso è rimesso al Giudice di merito, la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione (3) e  da apprezzamento di fatto che non è rinnovabile in tale sede, bensì censurabile per vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione (4).

Sempre in base ai consolidati orientamenti della giurisprudenza di legittimità (5), la Cassazione ha ulteriormente precisato che,  per accertare la sussistenza della giusta causa di licenziamento, il Giudice di merito è chiamato ad integrare  il precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c.,  con quanto percepito dalla c.d. "coscienza generale".

Tale valutazione è sindacabile in Cassazione,  purché la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia dell’incoerenza del predetto giudizio rispetto agli "standards" conformi ai valori dell'ordinamento ed esistenti nella realtà sociale (6).

La Suprema Corte ha rilevato che una simile denunzia non era stata addotta  tra i motivi di ricorso.

La Corte di Appello aveva escluso  l’efficacia intimidatoria delle frasi proferite dal lavoratore proprio in relazione alla percezione che lo stesso aveva avuto in merito alla notizia del suo trasferimento, inteso come irrogato al solo al fine di impedirne lo svolgimento  dell’attività sindacale.

La Cassazione ha concluso negando la fondatezza della lamentata contraddittorietà della motivazione fornita dal Giudice del merito che aveva prima affermato che la condotta contestata avesse concretizzato una violazione della normativa di riferimento, per poi  negare alla stessa l'inottemperanza della legge.

La Suprema Corte ha ribadito la condivisibilità della pronuncia di merito che, nel valutare la gravità del comportamento censurato,  aveva tenuto conto anche  delle particolari  connotazioni psicologiche, nonché del profilo soggettivo del suo autore.

Valerio Pollastrini
 

(1)   – Cassazione, sentenza  n.4060 del 19 febbraio.2008;  Cassazione, sentenza  n.11430 del 16 maggio 2006;

(2)   - Cassazione, sentenza n.25743 del 2007;

(3)   – Cassazione, sentenza n.21965 del 2007;

(4)   – Cassazione, sentenza n.6823 del 2004;

(5)   – Cassazione, sentenza n.9266 del 2005;

(6)   – Cassazione, sentenza  n.6498 del 26 aprile 2012, conf. a Cassazione, sentenza n.5095 del 2011 e Cassazione, sentenza n.9299 del 2004;

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