Un
impiegato alle dipendenze della “Bilia A.G.” con mansioni di capo reparto era stato
licenziato in tronco per aver proferito ingiurie nei confronti dei suoi
superiori.
"Io
sono una persona serena, altrimenti li avrei aspettati ad (…) e gli avrei
puntato una pistola in bocca". Questa la frase pronunciata dal lavoratore che,
unitamente ad altre espressioni offensive, aveva dato luogo al provvedimento
espulsivo.
Il
Tribunale di Cagliari, ritenuto illegittimo il recesso, aveva disposto la
reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro ed aveva condannato l’azienda
al pagamento delle retribuzioni maturate nel periodo intercorrente tra il licenziamento e la reintegra, nonché al
risarcimento del danno biologico stimato dalla C.t.u. nella misura del 6%.
Successivamente,
la Corte di Appello di Cagliari aveva parzialmente riformato la sentenza di
primo grado e, pur confermando l’invalidità del licenziamento e le conseguenze
risarcitorie ad esso connesse, aveva ritenuto non dovuta dalla società
appellante la somma di 8.040,78 €, liquidata dal Tribunale a titolo di
risarcimento dell'ulteriore danno reclamato dal lavoratore.
In
particolare, la Corte di merito aveva confermato l’illegittimità del recesso
per la sproporzione della sanzione rispetto alla gravità della condotta
contestata, anche in virtù dei tentativi compiuti dall’azienda di limitare l’impegno
sindacale del lavoratore che l’istruttoria aveva accertato essere sgradito ai
suoi superiori.
Tentativi
che erano culminati nell’adibizione del lavoratore in via temporanea alle inferiori
mansioni di ricezione merci.
L’episodio
poi sfociato nel licenziamento si era verificato in conseguenza della comunicazione del trasferimento imposto
al lavoratore da Cagliari ad Oristano, proprio in coincidenza con la data di
svolgimento di una riunione sindacale che avrebbe dovuto ratificarne la nomina
a R.S.A. in seno all'azienda.
Peraltro
era emerso che all’interno dell'organico aziendale, vi fosse un altro dipendente con lo stesso inquadramento
del ricorrente.
A
detta del giudicante, le frasi proferite dal lavoratore erano sicuramente connotate da un atteggiamento volgare ed
offensivo, ma erano prive del contenuto intimidatorio e minaccioso attribuito
loro dal datore di lavoro, in quanto scaturite da una reazione impulsiva
causata dalla difficoltà del momento, aggravata dalla mancanza di preavviso del
trasferimento.
La
rilevata pacatezza dei toni e la natura
del tutto ipotetica dell'espressione proferita dal lavoratore, escludeva per la
Giudice di Appello la concretizzazione di un’efficace forma di intimidazione.
Le
ulteriori espressioni ingiuriose ed offensive, pur se contrarie agli obblighi imposti
dalla normativa legale e contrattuale, e quindi configuranti un illecito
disciplinare, non erano tuttavia sufficienti
ad integrare la nozione legale di giusta causa di recesso di cui all'art. 2119
c.c.. La Corte territoriale aveva parimenti escluso che le disposizioni
previste dalla contrattazione collettiva del settore commercio, potessero
legittimare il licenziamenti. Ritenute tali disposizioni non vincolanti, la valutazione dalla gravità
del fatto doveva essere quindi effettuata attraverso un’analisi caso per caso.
Inoltre
doveva ritenersi probabile che il comportamento del dipendente fosse stato
determinato da una reazione istintiva al provvedimento di trasferimento che,
quantomeno per le coincidenze temporali,
ben poteva essere interpretato come
finalizzato a contrastare la sua intenzione di assumere importanti incarichi
sindacali.
L'insussistenza
della portata intimidatoria delle espressioni utilizzate e la valutazione dello
stato psicologico nel quale le stesse erano state pronunciate, avevano indotto
la Corte di Appello a ridimensionare la gravità della condotta del lavoratore.
Alla
luce delle richiamate considerazioni, il giudicante aveva escluso che l'episodio
potesse aver leso irrimediabilmente il
vincolo fiduciario posto alla base del rapporto tra le parti, anche in virtù
nella mancanza di precedenti disciplinari a carico del dipendente nel corso dei suoi diciassette anni di
servizio.
Una
simile valutazione circa la gravità del fatto contestato, aveva inoltre spinto
la Corte di Appello a negare la rilevanza al caso di specie delle disposizioni
contenute nel Contratto Collettivo
applicato, in base alle quali il recesso
sarebbe giustificato nelle ipotesi di insubordinazione verso i superiori
accompagnata dal comportamento oltraggioso.
Per
la normativa contrattuale, infatti, il presupposto dell’insubordinazione
sarebbe la contravvenzione del
lavoratore ad un ordine legittimo impartito dal datore di lavoro, circostanza
non rilevata nella circostanza in commento.
L’unica
doglianza datoriale accolta dalla Corte
territoriale è stata quella tesa a contestare il risarcimento dell’ulteriore danno accordato al lavoratore per la lesione della sua integrità psicofisica,
provocata dall'illegittimità del licenziamento.
Solo
un licenziamento ingiurioso, persecutorio o vessatorio avrebbe infatti
determinato la risarcibilità del danno eventualmente derivatone e per tale
ragione il Giudice ne aveva escluso la sussistenza nel caso di specie.
La
società aveva proposto ricorso in Cassazione, contestando che, a
proposito della valutazione in ordine alla sussistenza della giusta causa del
licenziamento, la Corte di Appello avrebbe omesso di considerare la fattispecie
nel suo complesso, non tenendo conto dei
riferimenti normativi applicabili.
Secondo
la tesi datoriale, la condotta posta in essere dal lavoratore sarebbe contraria ai doveri civici e quindi
pacificamente rilevante ai sensi delle disposizioni del Contratto Collettiva,
nelle quali sono elencati i
comportamenti idonei ad integrare l’irrogazione della sanzione espulsiva.
A
tal proposito, nel ricordare che il
Contratto Collettivo applicato, annovera tra le ipotesi di giusta causa di
recesso l’insubordinazione verso i
superiori accompagnata da comportamento oltraggioso, l’impresa ha osservato
come le espressioni proferite dal lavoratore nei confronti dei superiori
avessero costituito una evidente insubordinazione accompagnata da comportamento
oltraggioso.
Per
tale ragione sarebbe dunque erronea la motivazione in base alla quale la Corte di
merito aveva escluso la sussistenza dei
presupposti caratterizzanti la fattispecie della giusta causa di licenziamento, sia in relazione alle richiamate disposizioni
contrattuali che con riguardo all’art.2119 del codice civile.
Sostenendo
apoditticamente la mancanza di gravità della violazione in esame, la pronuncia
di Appello avrebbe inoltre aggirato il precetto della contrattazione collettiva,
escludendo, in particolare, che gli atti posti in essere costituissero
insubordinazione nei confronti dei superiori,
nonostante la Cassazione abbia più volte sancito che la violenta
aggressione verbale, anche non seguita da vie di fatto, configuri una giusta
causa di recesso.
A
nulla varrebbe, si legge tra i motivi del ricorso, l'assenza di precedenti
disciplinari a carico del dipendente ai
fini di una corretta valutazione della sua
contestata condotta, anche in
conseguenza del disvalore ambientale riconnessovi per la posizione
professionale rivestita dal dipendente e,
dunque, disincentivante nei confronti degli altri dipendenti, specie se
sottordinati.
La
società lamenta inoltre insufficiente o contraddittoria motivazione circa un
punto decisivo della controversia. Nel ritenere prive di contenuto
intimidatorio e minaccioso le frasi proferite, giudicate tuttavia idonee a
sostanziare un inadempimento disciplinare, la Corte di merito, dopo aver
affermato in un primo momento che vi fosse stata una violazione degli obblighi imposti dalla
normativa contrattuale, aveva successivamente disconosciuto la valenza degli stessi inadempimenti in base
alla apodittica affermazione della mancanza di ogni efficacia minacciosa ed
intimidatrice.
In
sostanza, la Corte di Appello, dopo aver
affermato che l'inadempimento avesse concretizzato la violazione sia della normativa di legge che di quella
contrattuale, contraddicendo se stessa aveva poi sostenuto che l’inadempimento non fosse
idoneo per l’inottemperanza delle norme contrattuali di riferimento.
Ulteriore
contraddizione viene ravvisata dal datore di lavoro nella rilevata mancanza di
efficacia intimidatoria delle frasi del dipendente poiché pronunciate durante
una reazione istintiva, laddove proprio la reazione istintiva ne comproverebbe
la valenza intimidatoria.
La pronuncia
della Cassazione
La
Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Richiamando
quanto più volte affermato, la
Cassazione ha ribadito che, nel generale contesto dei contratti con prestazioni
corrispettive, ove venga proposta dalla parte l'eccezione "inadempienti
non est adimplendum" il Giudice è chiamato ad una valutazione comparativa
degli opposti adempimenti, tenendo conto della loro proporzionalità rispetto
alla funzione economico-sociale del contratto ed alla loro rispettiva incidenza
sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi
delle stesse.
Si
tratta di una valutazione riservata al Giudice di merito che, se assistita da
motivazione sufficiente e non contraddittoria (1), è incensurabile in sede di
legittimità.
Con
riguardo alla supposta violazione del
criterio della proporzionalità imputata al Giudice di Appello che non avrebbe
adeguatamente considerato elementi di sicura rilevanza ai detti fini,
valorizzando invece, - per escludere la gravità dell'illecito e l'intensità
dell'elemento psicologico - circostanze asseritamente di scarsa significatività
o contraddittorietà, la Cassazione ha
ricordato, citando i suoi precedenti (2), che il giudizio di proporzionalità o adeguatezza
della sanzione dell'illecito commesso è rimesso al Giudice di merito, la cui
valutazione è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata
motivazione (3) e da apprezzamento di fatto che non è
rinnovabile in tale sede, bensì censurabile per vizio di omessa, insufficiente
o contraddittoria motivazione (4).
Sempre
in base ai consolidati orientamenti della giurisprudenza di legittimità (5), la Cassazione ha
ulteriormente precisato che, per
accertare la sussistenza della giusta causa di licenziamento, il Giudice di
merito è chiamato ad integrare il
precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c., con quanto percepito dalla c.d.
"coscienza generale".
Tale
valutazione è sindacabile in Cassazione,
purché la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di
merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma
contenga, invece, una specifica denuncia dell’incoerenza del predetto giudizio
rispetto agli "standards" conformi ai valori dell'ordinamento ed
esistenti nella realtà sociale (6).
La
Suprema Corte ha rilevato che una simile denunzia non era stata addotta tra i motivi di ricorso.
La
Corte di Appello aveva escluso l’efficacia
intimidatoria delle frasi proferite dal lavoratore proprio in relazione alla percezione
che lo stesso aveva avuto in merito alla notizia del suo trasferimento, inteso come
irrogato al solo al fine di impedirne lo svolgimento dell’attività sindacale.
La
Cassazione ha concluso negando la fondatezza della lamentata contraddittorietà
della motivazione fornita dal Giudice del merito che aveva prima affermato che
la condotta contestata avesse concretizzato una violazione della normativa di
riferimento, per poi negare alla stessa l'inottemperanza
della legge.
La
Suprema Corte ha ribadito la condivisibilità della pronuncia di merito che, nel
valutare la gravità del comportamento censurato, aveva tenuto conto anche delle particolari connotazioni psicologiche, nonché del profilo
soggettivo del suo autore.
Valerio
Pollastrini
(1)
–
Cassazione, sentenza n.4060 del 19
febbraio.2008; Cassazione, sentenza n.11430 del 16 maggio 2006;
(2)
-
Cassazione, sentenza n.25743 del 2007;
(3)
–
Cassazione, sentenza n.21965 del 2007;
(4)
–
Cassazione, sentenza n.6823 del 2004;
(5)
–
Cassazione, sentenza n.9266 del 2005;
(6)
–
Cassazione, sentenza n.6498 del 26
aprile 2012, conf. a Cassazione, sentenza n.5095 del 2011 e Cassazione,
sentenza n.9299 del 2004;
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