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sabato 22 marzo 2014

Illegittimo il licenziamento se il Contratto Collettivo prevede una sanzione meno grave

Il datore di lavoro non può licenziare il dipendente per una condotta giudicata punibile dal Contratto Collettivo applicato con una semplice sanzione conservativa. E’ quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n.6222 del 18 marzo 2014.

Il caso in commento è quello di un lavoratore licenziato per giusta causa dopo una sospensione cautelare ricevuta in seguito ad una contestazione disciplinare con l’addebito di uso improprio di strumenti di lavoro e in particolare del P.C. affidatogli, delle reti informatiche aziendali e della casella di posta elettronica.

Il dipendente aveva impugnato il recesso dinnanzi al Giudice del lavoro, chiedendo

la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno.

Sia il Tribunale di primo grado che, successivamente,  la Corte di Appello di L’Aquila, avevano accolto il ricorso dopo aver rilevato che il fatto contestato corrispondesse alla fattispecie disciplinare  qualificata dal  Contratto Collettivo applicabile  come “improprio  utilizzo di strumenti di lavoro aziendali” e da questo ritenuta passibile di una semplice sanzione conservativa.

La Corte territoriale aveva quindi escluso che il datore di lavoro avrebbe potuto irrogare una sanzione disciplinare più grave di quella pattizia.

Inoltre, anche volendo ritenere quella contestata una condotta diversa e più grave rispetto alla fattispecie prevista dalla norma collettiva, le risultanze della specifica Consulenza Tecnica di Ufficio avevano escluso che il comportamento del dipendente fosse di una gravità tale da giustificare il recesso.

La società aveva proposto ricorso in Cassazione, criticando quanto affermato nella sentenza impugnata in ordine alla coincidenza integrale tra la fattispecie disciplinare prevista dal Contratto Collettivo, secondo cui incorre nei provvedimenti dell’ammonizione scritta, della multa o della sospensione il lavoratore che “utilizzi in modo improprio strumenti di lavoro aziendali,” ed il contestato comportamento posto a base del licenziamento per giusta causa.

Sul punto, la ricorrente aveva richiamato il contenuto della lettera  di comunicazione dell’addebito di “uso improprio  di strumenti di lavoro aziendali e, nella specie, del P.C., delle reti informatiche aziendali e della casella di posta elettronica”.

In tale comunicazione era stato reso noto l’accertamento dell’ esistenza nel P.C. affidato al dipendente di “programmi coperti da copyright non forniti dall’azienda e non necessari” per lo svolgimento di attività; di installazione nello stesso P.C., oltre ai programmi in dotazione, di “software diversi non forniti dall’azienda e non necessari; dell’avvenuta utilizzazione per innumerevoli volte durante l’orario lavorativo della casella di posta elettronica di dominio aziendale per scopi personali non giustificati, “eludendo le chiare informative e molteplici preavvisi effettuati dall’azienda”.

A detta dell’azienda, con tale lettera erano stati contestati non solo l’uso improprio dello strumento di lavoro aziendale, ma anche la violazione del dovere di obbedienza di cui all’art. 2104 cod.civ., in relazione al richiamo del mancato rispetto di “chiare informative” e “molteplici preavvisi”, nonché la riscontrata presenza nello stesso P.C. di materiale di carattere pornografico.

Inoltre, il datore di lavoro aveva posto l’accento sul fatto che l’abilitazione del P.C. ad impieghi nuovi e diversi, avesse comportato l’utilizzo da parte del lavoratore di programmi coperti da copyright in  violazione dell’art. 64 della legge n. 633/1941, esponendo così il datore di lavoro a possibili responsabilità.

Affermando che il comportamento contestato avesse riguardato solo la fattispecie prevista dalla richiamata norma del Contratto Collettivo,  la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto delle circostanze appena elencate.

L’azienda criticava inoltre l’ulteriore affermazione secondo cui, in relazione alle risultanze della Consulenza Tecnica d’Ufficio in ordine ai “files” non legati all’attività lavorativa di cui era stata riscontrata la presenza nel P.C., anche a voler ritenere non contestata una fattispecie diversa e più grave rispetto a quella contrattualmente prevista, doveva essere esclusa la particolare gravità del comportamento addebitato.

Ad avviso della ricorrente, la Consulenza Tecnica aveva posto in luce alcuni elementi utili ad attestare la gravità degli inadempimenti. Sotto questo profilo, la Corte di Appello avrebbe dovuto tener conto sia  dell’uso quotidiano e molto frequente della posta elettronica, sia l’installazione di una enorme quantità di file non inerenti all’attività lavorativa.

La Corte  avrebbe poi ignorato la gravità del mancato rispetto da parte del lavoratore delle  disposizioni impartite per l’uso del computer  che, tradottosi nell’installazione di programmi coperti da copyright, aveva esposto l’azienda a possibili sanzioni legali.

Nel dirimere la questione, la  Cassazione ha per prima cosa rilevato che il principio in base al quale il datore di lavoro non può irrogare un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal Contratto Collettivo applicabile in relazione ad una determinata infrazione (1) non era stato posto in discussione.

La Suprema Corte ha proseguito escludendo che le allegazioni prodotte dalla società ricorrente fossero sufficienti a dimostrare che l’addebito mosso al dipendente riguardasse infrazioni disciplinari autonome e diverse rispetto alla fattispecie contemplata dal Contratto Collettivo.

Tra l’altro, il riferimento alle supposte disposizioni fornite dal datore di lavoro sull’utilizzo corretto del computer aziendale non evidenzia alcuna violazione di distinti obblighi contrattuali, rilevando solo ai fini della valutazione della gravità dell’inadempimento.

Inoltre, la “rilevata presenza di materiale pornografico” non era sfociata in una specifica contestazione di addebito nella lettera di contestazione, la quale, circa la presenza di programmi coperti da copyright, non conteneva alcuna indicazione della violazione di limiti posti alla utilizzazione dei programmi stessi, con conseguenti profili di responsabilità per l’azienda.

Parimenti infondata, a parere della Cassazione, la contestazione inerente al giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato.  A tale proposito, gli ermellini hanno ricordato come la valutazione della gravità dell’inadempimento dal lavoratore e dell’adeguatezza della sanzione è riservata al Giudice di merito e, pertanto, se adeguatamente giustificata attraverso  una  motivazione sufficiente e non contraddittoria, non può essere riesaminata in sede di legittimità (2).

Per tutte le ragioni indicate,  la Suprema Corte ha respinto il ricorso ed ha condannato il datore di lavoro al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 4.000,00 € per compensi professionali ed in 100,00 € per esborsi,  oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini


(1)   - Cass. n.19053 del 29 settembre 2005; Cass.  n.13353 del 17 giugno 2011;

(2)   - Cass. n.7948 del 7 aprile 2011; Cass. n.8293 del  25 maggio 2012;

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