Il
caso in commento è quello di un lavoratore licenziato per giusta causa dopo una
sospensione cautelare ricevuta in seguito ad una contestazione disciplinare con
l’addebito di uso improprio di strumenti di lavoro e in particolare del P.C.
affidatogli, delle reti informatiche aziendali e della casella di posta
elettronica.
Il
dipendente aveva impugnato il recesso dinnanzi al Giudice del lavoro, chiedendo
la
reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno.
Sia
il Tribunale di primo grado che, successivamente, la Corte di Appello di L’Aquila, avevano
accolto il ricorso dopo aver rilevato che il fatto contestato corrispondesse
alla fattispecie disciplinare qualificata dal Contratto Collettivo applicabile come “improprio utilizzo di strumenti di lavoro aziendali” e da
questo ritenuta passibile di una semplice sanzione conservativa.
La
Corte territoriale aveva quindi escluso che il datore di lavoro avrebbe potuto irrogare
una sanzione disciplinare più grave di quella pattizia.
Inoltre,
anche volendo ritenere quella contestata una condotta diversa e più grave
rispetto alla fattispecie prevista dalla norma collettiva, le risultanze della specifica
Consulenza Tecnica di Ufficio avevano escluso che il comportamento del dipendente
fosse di una gravità tale da giustificare il recesso.
La
società aveva proposto ricorso in Cassazione, criticando quanto affermato nella
sentenza impugnata in ordine alla coincidenza integrale tra la fattispecie
disciplinare prevista dal Contratto Collettivo, secondo cui incorre nei
provvedimenti dell’ammonizione scritta, della multa o della sospensione il
lavoratore che “utilizzi in modo improprio strumenti di lavoro aziendali,” ed
il contestato comportamento posto a base del licenziamento per giusta causa.
Sul
punto, la ricorrente aveva richiamato il contenuto della lettera di comunicazione dell’addebito di “uso
improprio di strumenti di lavoro
aziendali e, nella specie, del P.C., delle reti informatiche aziendali e della
casella di posta elettronica”.
In
tale comunicazione era stato reso noto l’accertamento dell’ esistenza nel P.C.
affidato al dipendente di “programmi coperti da copyright non forniti
dall’azienda e non necessari” per lo svolgimento di attività; di installazione
nello stesso P.C., oltre ai programmi in dotazione, di “software diversi non
forniti dall’azienda e non necessari; dell’avvenuta utilizzazione per
innumerevoli volte durante l’orario lavorativo della casella di posta
elettronica di dominio aziendale per scopi personali non giustificati,
“eludendo le chiare informative e molteplici preavvisi effettuati
dall’azienda”.
A
detta dell’azienda, con tale lettera erano stati contestati non solo l’uso
improprio dello strumento di lavoro aziendale, ma anche la violazione del
dovere di obbedienza di cui all’art. 2104 cod.civ., in relazione al richiamo
del mancato rispetto di “chiare informative” e “molteplici preavvisi”, nonché
la riscontrata presenza nello stesso P.C. di materiale di carattere
pornografico.
Inoltre,
il datore di lavoro aveva posto l’accento sul fatto che l’abilitazione del P.C.
ad impieghi nuovi e diversi, avesse comportato l’utilizzo da parte del
lavoratore di programmi coperti da copyright in
violazione dell’art. 64 della legge n. 633/1941, esponendo così il
datore di lavoro a possibili responsabilità.
Affermando
che il comportamento contestato avesse riguardato solo la fattispecie prevista
dalla richiamata norma del Contratto Collettivo, la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto
delle circostanze appena elencate.
L’azienda
criticava inoltre l’ulteriore affermazione secondo cui, in relazione alle
risultanze della Consulenza Tecnica d’Ufficio in ordine ai “files” non legati
all’attività lavorativa di cui era stata riscontrata la presenza nel P.C., anche
a voler ritenere non contestata una fattispecie diversa e più grave rispetto a
quella contrattualmente prevista, doveva essere esclusa la particolare gravità
del comportamento addebitato.
Ad
avviso della ricorrente, la Consulenza Tecnica aveva posto in luce alcuni elementi
utili ad attestare la gravità degli inadempimenti. Sotto questo profilo, la
Corte di Appello avrebbe dovuto tener conto sia dell’uso quotidiano e molto frequente della
posta elettronica, sia l’installazione di una enorme quantità di file non
inerenti all’attività lavorativa.
La
Corte avrebbe poi ignorato la gravità del
mancato rispetto da parte del lavoratore delle disposizioni impartite per l’uso del computer che, tradottosi nell’installazione di
programmi coperti da copyright, aveva esposto l’azienda a possibili sanzioni
legali.
Nel
dirimere la questione, la Cassazione ha
per prima cosa rilevato che il principio in base al quale il datore di lavoro
non può irrogare un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca
una sanzione più grave di quella prevista dal Contratto Collettivo applicabile
in relazione ad una determinata infrazione (1) non era stato posto in discussione.
La
Suprema Corte ha proseguito escludendo che le allegazioni prodotte dalla
società ricorrente fossero sufficienti a dimostrare che l’addebito mosso al
dipendente riguardasse infrazioni disciplinari autonome e diverse rispetto alla
fattispecie contemplata dal Contratto Collettivo.
Tra
l’altro, il riferimento alle supposte disposizioni fornite dal datore di lavoro
sull’utilizzo corretto del computer aziendale non evidenzia alcuna violazione
di distinti obblighi contrattuali, rilevando solo ai fini della valutazione
della gravità dell’inadempimento.
Inoltre,
la “rilevata presenza di materiale pornografico” non era sfociata in una specifica
contestazione di addebito nella lettera di contestazione, la quale, circa la presenza di programmi coperti da copyright,
non conteneva alcuna indicazione della violazione di limiti posti alla
utilizzazione dei programmi stessi, con conseguenti profili di responsabilità
per l’azienda.
Parimenti
infondata, a parere della Cassazione, la contestazione inerente al giudizio di
proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato. A tale proposito, gli ermellini hanno
ricordato come la valutazione della gravità dell’inadempimento dal lavoratore e
dell’adeguatezza della sanzione è riservata al Giudice di merito e, pertanto,
se adeguatamente giustificata attraverso una motivazione sufficiente e non contraddittoria,
non può essere riesaminata in sede di legittimità (2).
Per
tutte le ragioni indicate, la Suprema
Corte ha respinto il ricorso ed ha condannato il datore di lavoro al pagamento
delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 4.000,00 € per compensi
professionali ed in 100,00 € per esborsi, oltre accessori di legge.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
Cass. n.19053 del 29 settembre 2005; Cass. n.13353 del 17 giugno 2011;
(2)
-
Cass. n.7948 del 7 aprile 2011; Cass. n.8293 del 25 maggio 2012;
Nessun commento:
Posta un commento