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martedì 28 gennaio 2014

Estratto contributivo on-line anche per gli sportivi e i lavoratori dello spettacolo


Con il Messaggio del 24 gennaio 2014 l’Inps ha comunicato l’istituzione di un servizio che consentirà agli iscritti alle Gestioni ex Enpals - Fondo Lavoratori dello Spettacolo e Fondo Sportivi Professionisti di consultare il proprio estratto conto contributivo.

I lavoratori interessati  potranno visualizzare il proprio estratto conto individuale accedendo al Menu Servizi online dal portale Inps, attraverso il percorso Servizi per il cittadino> Fascicolo Previdenziale del Cittadino>Posizione Assicurativa> “Estratto Conto”.

Attraverso lo stesso percorso ma selezionando invece nel menu la voce “Segnalazioni contributive” sarà possibile segnalare online dati errati o mancanti nell’estratto contributivo, allegando in formato digitale la documentazione necessaria a modificare o integrare la propria posizione assicurativa.
L’Istituto ricorda, inoltre, che i citati servizi possono essere anche richiesti tramite Contact center INPS, raggiungibile dal lunedì al venerdì dalle ore 8.00 alle ore 20.00 e il sabato dalle ore 8.00 alle ore 14.00, componendo il numero 803164, gratuito da rete fissa, oppure contattando da telefono cellulare il numero 06164164, a pagamento secondo il piano tariffario del proprio gestore telefonico o rivolgendosi ai Patronati.
Nell’attuale fase di integrazione, ogni variazione relativa a posizioni contributive, derivanti da contribuzione figurativa, volontaria o da riscatto, sarà gestita dal Polo specialistico “Previdenza Pals” nazionale, costituito nell’ambito della Direzione di area metropolitana di Roma.

Valerio Pollastrini

domenica 26 gennaio 2014

Legittimo il rifiuto alla prestazione se in azienda non vengono applicate le prescrizioni sulla sicurezza


In linea di principio, se il datore di lavoro risulta inadempiente in merito all’applicazione delle  misure di legge finalizzate alla tutela della salute e dell’integrità psicofisica del personale, il lavoratore ha il diritto di astenersi dalle prestazioni la cui esecuzione potrebbe arrecargli danno.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione che ha accolto la richiesta di pagamento delle retribuzioni avanzata da un gruppo di lavoratori delle Ferrovie dello Stato che si erano rifiutati di effettuare i lavori di rimozione dell'amianto dai vagoni ferroviari in mancanza dei necessari interventi di bonifica.

Dopo aver timbrato il cartellino, i dipendenti  erano rimasti a disposizione del datore di lavoro durante tutto l'orario di lavoro, astenendosi tuttavia dalle attività che potessero porli  a diretto contatto con l'amianto.

Il Pretore era intervenuto ordinando la chiusura di detti capannoni ed aveva inoltre disposto una serie di modifiche agli impianti.

I menzionati lavoratore non avevano però ricevuto la retribuzione per i giorni nei quali si erano astenuti dal lavoro e per questo avevano avviato un giudizio, sostenendo che il rifiuto della prestazione negli ambienti di lavoro ritenuti pericolosi fosse giustificato dall'inadempimento degli obblighi di sicurezza gravanti sul datore di lavoro.

Le Ferrovie dello Stato avevano contestato la pretesa dei lavoratori, sostenendo che, all'epoca dei fatti, l'uso dell'amianto non era ancora stato vietato per legge e non erano stati stabiliti valori limite di tollerabilità,  risultando quindi, a detta dell’azienda, pienamente adeguate le precauzioni che, in base alle conoscenze del tempo, erano state allora impiegate.
 
La Cassazione ha però accolto le richieste dei lavoratori, ritenendo in particolare che l'inadempimento delle Ferrovie dello Stato non consistesse nella mancata applicazione di nuove tecnologie ma nei gravi difetti esistenti negli ambienti di lavoro, accertati da apposita perizia, come l'imperfetto isolamento degli ambienti con conseguente dispersione di polveri e fibre, l'inidoneità dell'impianto di estrazione dell'aria, l'inidoneità dei caschi forniti ai lavoratori per impedire l'infiltrazione di polveri all'interno.

Valerio Pollastrini

L’azienda deve risarcire il danno se il lavoratore, in seguito ad infortunio sul lavoro, non riesce ad appagare sessualmente la moglie


Con la sentenza n.386 del 19 novembre 2013–10 gennaio 2014, la Corte di Cassazione ha confermato la pronuncia di merito con la quale era stato riconosciuto il diritto al risarcimento del danno in favore del marito lavoratore che, in seguito ad  infortunio sul lavoro, aveva lamentato la sopraggiunta impossibilità di   appagare sessualmente la moglie.

Con precedente sentenza  n. 14822/07 la Suprema Corte aveva cassato – con rinvio alla Corte d’appello di Roma – la sentenza con la quale il Tribunale di Latina, nel secondo grado di giudizio, aveva, in riforma della sentenza di prime cure, condannato Estrusione Italia S.p.A. al pagamento, in favore della ricorrente, di  50.000,00 € a titolo di danno alla vita sessuale e di 25.000,00 € a titolo di danno morale, oltre interessi dalla data dell’infortunio patito il 10.2.92 dal coniuge  della danneggiata, da calcolarsi sulla metà dei predetti importi.

La pronuncia del  Tribunale era stata annullata in quanto il giudice di appello aveva fondato la propria decisione su documenti depositati in appello dalla difesa della ricorrente , senza pronunciarsi sull’eccezione di tardività della loro produzione sollevata da Estrusione Italia S.p.A..

La Corte d’appello di Roma, pronunciando in sede di rinvio, aveva rigettato l’eccezione di tardività della produzione dei documenti predetti e nel merito aveva confermato la liquidazione dei danni contenuta nella summenzionata sentenza del Tribunale di Latina, richiamandone le motivazioni.

Estrusione Italia S.p.A. aveva quindi ricorso nuovamente per la cassazione della sentenza della Corte territoriale, depositando, inoltre, la sopravvenuta sentenza dichiarativa di fallimento della società medesima.

A proposito dello stato di fallimento del datore di lavoro, la Cassazione, richiamando i propri precedenti sul merito, ha premesso innanzitutto l’irrilevanza  della sopravvenuta dichiarazione di fallimento della società ricorrente poiché nel giudizio di cassazione tale circostanza non determina l’interruzione del processo (1).

L’azienda si doleva del fatto che l’impugnata sentenza avesse ritenuto che i documenti fossero stati già ritualmente depositati in prime cure, unitamente al ricorso introduttivo di lite, mentre – ad avviso della società ricorrente – nel precedente giudizio di legittimità era stato pacificamente  accertato il contrario, tanto che l’annullamento era stato disposto proprio affinché il giudice del rinvio si pronunciasse sull’eccezione di tardività della produzione sollevata nel precedente giudizio.

Il ricorrente contestava, inoltre, l’accoglimento da parte del giudice di appello della domanda risarcitoria in base a documenti insufficienti a comprovarla, atteso che proprio alla luce della CTU prodotta  non esisteva un danno alla vita sessuale in senso stretto, essendosi ipotizzata una mera impossibilità di procreare (aspermia), in realtà destinata a regredire nel tempo.

A detta dell’azienda, la ricorrente non aveva dimostrato di volere altri figli, né aveva provato la permanenza della patologia riportata dal marito, dal quale – per altro – era separata da anni. Del pari veniva contestato il raggiungimento  della prova del danno morale, per di più liquidato in maniera arbitraria in assenza di idonei parametri.

La Cassazione ha escluso ogni rilevanza alle doglianze sopra elencate in quanto, dall’analisi degli atti, era emerso che la Suprema Corte, nella passata pronuncia, non avesse  affatto accertato la reale tardività della produzione dei documenti asserita dall’odierna ricorrente, ma si fosse limitata a cassare la sentenza del Tribunale di Latina per omessa pronuncia sull’eccezione di tardività sollevata da Estrusione Italia S.p.A..

Dunque, nulla vietava al giudice di rinvio di accertare autonomamente se tali documenti fossero stati effettivamente già prodotti in prime cure e, poi, semplicemente ridepositati nel corso del giudizio d’appello, come espressamente affermato dall’impugnata sentenza.

Ciò supera ogni altra censura sollevata dall’odierna ricorrente in ordine a pretese violazioni o a vizi di motivazione circa l’indispensabilità dei documenti ai fini del decidere.

Premesso poi che il danno morale, quello sessuale e quello alla vita di relazione rientrano pur sempre nell’ampia ed omnicomprensiva categoria del danno non patrimoniale, che non è possibile suddividere in ulteriori sottocategorie, se non con valenza meramente descrittiva, la Cassazione ha specificato che la loro esistenza può presumersi anche in base a mere massime di esperienza (2), in particolare se basate sui rapporti personali fra coniugi, come nel caso di specie, salva restando la possibilità di prova contraria.

La pretesa separazione fra la lavoratrice e il marito e/o quelle concernenti la scelta di non avere (altri) figli costituiscono circostanze che implicano accertamenti di fatto, estranei al giudizio di legittimità.

In ordine, poi, alla liquidazione dei danni, la Suprema Corte ricorda che essa non può che avvenire in via equitativa, non esistendo parametri legislativi a riguardo.


Sul punto la Cassazione ha escluso che   l’impugnata sentenza avesse proceduto ad una loro liquidazione arbitraria, rilevando invece che i giudici del rinvio avessero espressamente fornito una motivazione per relationem a quella già espressa nella precedente citata sentenza del Tribunale di Latina.

La Suprema Corte ha quindi concluso rigettando il ricorso dell’azienda, condannandola al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 100,00 € per esborsi ed in 3.500,00 € per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Valerio Pollastrini


(1)    -  cfr., ex aliis, Cass. 17.7.13 n. 17450; Cass. 31.5.12 n. 8685; Cass. 5.7.11 n. 14786; Cass. S.U. 14.11.03 n. 17295;

(2)   - cfr. Cass. S.U. 11.11.08 n. 26972;

Conciliazione in sede sindacale – Rinuncia del lavoratore all’impugnativa del licenziamento


In risposta ad Interpello n.1 del 22 gennaio 2012, la Direzione generale del Ministero del lavoro ha fornito i chiarimenti sollecitati da Confindustria che, con specifica istanza, aveva chiesto se fosse valida la conciliazione conclusa in sede sindacale nella quale il lavoratore rinunci al diritto ad impugnare il licenziamento, anche nell’ipotesi in cui il recesso sia stato effettuato in assenza del rispetto della procedura prevista dall’art. 7 della L. 604/1966.

Il Ministero ha preliminarmente ricordato come l’introduzione della procedura conciliativa di cui alla citata normativa lascia inalterata la disciplina e gli effetti di cui all’art. 2113 c.c. che dispone, con riferimento all’ultimo comma, un’eccezione alla previsione di invalidità delle rinunce e delle transazioni laddove le stesse siano realizzate attraverso la conclusione di un atto negoziale che - secondo i chiarimenti della giurisprudenza - sia riferibile a diritti compresi nella sfera di disponibilità giuridica del lavoratore.

Sulla base di tale premessa e con richiamo ai precedenti della giurisprudenza di legittimità, il Ministero conclude affermando che  non sussistono motivazioni di ordine giuridico per ritenere che un vizio di natura procedimentale non sia ammissibile in ordine  alla disciplina civilistica di cui al citato art. 2113 c.c. con i conseguenti corollari in ordine all’efficacia degli atti transattivi conclusi in tale sede (1).

Valerio Pollastrini

 

(1)   - cfr ex plurimis Cass. Civ., sent. n. 22105/2009; Cass. Civ., sent. n. 13134/2000; Cass. Civ., sent. n. 5940/2004; Cass. Civ. sent. 304/1998; Cass. Civ., sent. n. 4780/2003;

Dipendenti pubblici – Visualizzazione delle denunce contributive


Con il Messaggio n,1276 del 22 gennaio 2014 l’Inps ha comunicato l’istituzione, tra i servizi on-line, di una funzione rivolta  ad aziende ed amministrazioni iscritte alla Gestione Dipendenti Pubblici per la visualizzazione delle denunce contributive pervenute all’Istituto da gennaio 2005.

Per accedere al nuovo servizio sono disponibili due differenti parametri di ricerca:

-     ricerca Enti Dichiaranti: consente di visualizzare le denunce relative all’azienda o amministrazione nella sua accezione di Ente dichiarante ovvero sede di servizio, secondo le indicazioni contenute nella circolare  7 agosto 2012, n.105;

-     ricerca Iscritto: consente di visualizzare le denunce relative  al singolo iscritto inviate dall’azienda o dall’amministrazione abilitata alla funzione di visualizzazione.

Gli utenti avranno la possibilità di visualizzare sia lo stato della denuncia che lo  stato di elaborazione.

Saranno visibili sia le denunce “correnti“, sia le denunce divenute “obsolete” o “annullate”, a seguito di invii successivi da parte dell’azienda o dell’amministrazione.

Per accedere al servizio - disponibile nei Servizi in linea dedicati alle “Amministrazioni ed Enti”, accessibile da INPS → Informazioni → Gestione Dipendenti Pubblici  - è necessario che l’azienda o l’amministrazione  richieda l’abilitazione dei propri operatori all’Area Gestione Dipendenti Pubblici della Sede competente per territorio compilando il modulo di abilitazione.

Le Sedi INPS provvederanno ad inoltrare le richieste di abilitazione alla Gestione Utenti Procedure utilizzando la modulistica per “Abilitazione alle applicazioni dell’Istituto per Personale Esterno” disponibile in Intranet nell’Area della Direzione Centrale Sistemi Informativi e Tecnologici, Gestione dipendenti pubblici, Abilitazione applicazioni.

 
Nel Messaggio in commento l’Istituto precisa, inoltre, che nella specifica area dei Servizi in linea, Amministrazioni ed Enti, sarà disponibile il manuale utente e il modulo di abilitazione.

Valerio Pollastrini

venerdì 24 gennaio 2014

Pubblico impiego - Condotta persecutoria dell’amministrazione e mobbing


La Corte di Cassazione, nella sentenza n.687 del 15 gennaio 2014, è intervenuta sulla configurazione del reato di mobbing posta in essere da  un’amministrazione comunale nei confronti di un lavoratore pubblico.

Una dipendente del Comune di Casaletto Spartano, nominata con decreto del Sindaco responsabile con funzioni dirigenziali del neoistituito settore tributi, si era rivolta al giudice del lavoro di Sala Consilina, rilevando che, in un secondo momento, il Comune aveva proceduto, per ragioni di bilancio, alla soppressione dell’area tributi e che, con successivo decreto, il Sindaco le aveva revocato l’incarico e l’aveva assegnata all’area amministrativa con funzioni di istruttore e di addetta alla biblioteca.

A seguito dell’attribuzione delle nuove funzioni, la lavoratrice era stata costretta a soggiornare in una stanza in disuso ed era rimasta, di fatto, in una condizione di totale inattività, non essendo la biblioteca comunale frequentata da alcun utente.

La forzata inattività, alla quale era stata costretta, le aveva provocato una sindrome ansioso-depressiva reattiva, per la quale la ricorrente aveva richiesto  di essere reintegrata nelle mansioni in precedenza svolte nell’ambito del settore tributi, o in altre mansioni equivalenti, e di essere risarcita dei danni subiti a causa del comportamento mobbizzante.

Il giudice adito, in parziale accoglimento della domanda, aveva ritenuto illegittima la delibera della Giunta con cui era stato soppresso il settore tributi senza previa consultazione con le organizzazioni sindacali ed aveva disposto la reintegra della ricorrente nelle mansioni in precedenza svolte, condannando il Comune  al risarcimento del danno biologico, ravvisando la sussistenza del comportamento vessatorio.

La Corte di appello di Salerno,  in parziale riforma della decisione di primo grado, aveva dichiarato sussistente il difetto di giurisdizione del giudice ordinano in ordine alla domanda di reintegrazione nell’incarico e nelle mansioni di responsabile del settore tributi, ravvisando nella domanda proposta una contestazione che investiva direttamente l’esercizio del potere amministrativo e l’atto di macro-organizzazione di modifica della dotazione organica dell’Ente, la cui asserita illegittimità era posta a base delle pretesa di accertamento della invalidità del successivo atto di assegnazione al servizio biblioteca, con funzioni di istruttore.

In merito alla domanda risarcitoria per danni da mobbing, la Corte di Appello, aveva rilevato la sussistenza di un chiaro intento persecutorio e discriminatorio degli organi di vertice dell’Ente territoriale che si era venuto a creare con l’assegnazione della dipendente al settore biblioteca, presso il quale, dopo un’iniziale attività di catalogazione, era rimasta dal tutto inattiva, a causa dell’assoluta mancanza di visitatori e/o fruitori della biblioteca comunale.

La condotta si era protratta nel tempo ed aveva arrecato alla ricorrente una lesione della personalità.

Inoltre, nell’istruttoria era emerso un intento persecutorio posto in essere dal Sindaco, il quale, in sede penale, era stato ritenuto colpevole  di abuso continuato d’ufficio, proprio con riferimento al comportamento tenuto nei confronti della ricorrente.

In merito alle conseguenze risarcitorie, la Corte territoriale, ritenuto comprovato il danno con riduzione della capacità lavorativa pari al 35%, aveva liquidato un risarcimento pari a  21.000,00 € e, ravvisata l’autonomia del danno morale, aveva inoltre riconosciuto, per tale titolo, un ulteriore risarcimento pari a 7.000,00 €.

Il seguito alla sentenza della Corte di merito, il Comune di Casaletto Spartano aveva proposto ricorso per  cassazione.

La pronuncia della Cassazione
Preliminarmente, il Comune censura la sentenza di merito per avere ritenuto vietata l’assegnazione della lavoratrice a mansioni diverse da quelle di assunzione, o equivalenti a quelle effettivamente svolte, seppure appartenenti alle qualifica di inquadramento, secondo la classificazione contenuta nel C.C.N.L. applicabile al rapporto.

La Cassazione ha escluso ogni valenza ad una simile doglianza ed ha ricordato che,
in tema di pubblico impiego privatizzato, l’art. 52, comma 1, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che sancisce il diritto all’adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto o ad altre equivalenti, ha recepito un concetto di equivalenza “formale”, ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva (indipendentemente dalla professionalità acquisita) e non sindacabile dal giudice, con la conseguenza che condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita.

Tuttavia, nel caso in cui la destinazione ad altre mansioni abbia sostanzialmente svuotato l’attività lavorativa, la vicenda esula dall’ambito delle problematiche sull’equivalenza delle mansioni, configurandosi la diversa ipotesi della sottrazione, pressoché integrale, delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego.

Secondo l’Ente ricorrente, la situazione di inattività venutasi a creare nella nuova assegnazione presso la biblioteca andava imputata alla stessa lavoratrice, che non si era sufficientemente attivata nella nuova funzione, nonostante le sollecitazioni  dall’Amministrazione comunale.

Anche questa censura è stata respinta dalla Suprema Corte che ha specificato come la Corte di Appello avesse fornito adeguate  motivazioni  del proprio convincimento e le avesse argomentate in modo logicamente congruo.

Altra doglianza espressa dal Comune è riferita al passo della sentenza che aveva valutato come elemento indiziario la condanna riportata dal Sindaco per il reato di abuso d’ufficio continuato, proprio in relazione al decreto con cui era stata disposta la revoca della lavoratrice dalle funzioni di responsabile dell’area tributi e il suo inserimento nell’area amministrativa, con l’assegnazione alle funzioni di bibliotecaria. Il ricorrente, in particolar modo, denuncia  che il giudice di Appello non avrebbe potuto limitarsi a richiamare sic et simpliciter la sentenza penale (peraltro non ancora definitiva), ma avrebbe dovuto valutare autonomamente gli elementi di prova e le circostanze poste a suo fondamento.

Anche su questo punto la Cassazione ha ritenuto la censura datoriale inammissibile e comunque infondata.

Il giudice civile investito della domanda di risarcimento del danno da reato deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità con pienezza di cognizione, non essendo vincolato alle soluzioni e alle qualificazioni del giudice penale.

Nondimeno, il giudice civile può però legittimamente utilizzare, come fonte del proprio convincimento, le prove raccolte in un giudizio penale definito con sentenza passata in giudicato e fondare la decisione su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, procedendo a tal fine ad un diretto esame del contenuto del materiale probatorio, ovvero ricavando tali elementi e circostanze dalla sentenza, o se necessario, dagli atti del relativo processo, in modo da accertare esattamente i fatti materiali sottoponendoli al proprio vaglio critico.

Tra l’altro, nel caso di specie, la valorizzazione della sentenza penale aveva costituito un elemento solo integrativo dell’iter formativo del convincimento giudiziale, di talché la censura che investe tale punto è priva del carattere di decisività.

Il Comune aveva poi sostenuto  che il mobbing sarebbe costituito e si sarebbe esaurito, a tutto voler concedere, in una singola condotta, ovvero nel presunto demansionamento subito dalla lavoratrice e dunque in un singolo atto (di natura istantanea) di gestione del rapporto, che non può tradursi in quel conflitto sistematico e persecutorio che configura la fattispecie di tale reato.

Anche questa tesi è stata  ritenuta  priva di fondamento dalla Corte di legittimità.

Oltre al carattere permanente del demansionamento, integrante per sé un comportamento illegittimo, connotato dal suo protrarsi nel tempo, l’atto di assegnazione alle mansioni di istruttore presso la biblioteca era seguito da una serie di condotte attive ed omissive, specificamente manifestatesi attraverso il più assoluto disinteresse degli organi di vertice dell’amministrazione comunale nei confronti delle reiterate rimostranze formulate dalla citata dipendente ed estrinsecatesi mediante il mantenimento della stessa in una condizione di prolungata inattività e in uno stato di progressivo isolamento nell’ambiente di lavoro.

Il ricorrente aveva, infine, contestato la sentenza di merito nella parte in cui aveva accolto la domanda di risarcimento del danno morale, disattendendo l’orientamento delle Sezioni Unite in materia di risarcimento del danno non patrimoniale di cui alla sent. n. 26972/08.

A detta del datore di lavoro la duplicazione del risarcimento del danno biologico e del danno morale, compiuta sulla base del solo presupposto dell’autonomia ontologica del secondo, viene esclusa dal richiamato orientamento interpretativo.

Il danno morale - sostiene parte ricorrente - costituisce una componente del danno non patrimoniale e non è liquidabile separatamente. In ogni caso, la sua sussistenza va distintamente provata da colui che agisce per ottenerne il risarcimento.

Quanto poi alla sua liquidazione in misura pari ad una frazione dell’importo riconosciuto per il risarcimento del danno biologico, occorre che il giudice tenga la necessaria personalizzazione del criterio e dia atto di non avere applicato i valori tabellari con mero automatismo.

In questo caso la Cassazione ha ritenuto  fondato il motivo del ricorso nei termini che seguono.

La liquidazione del danno non patrimoniale deve essere complessiva e cioè tale da coprire l’intero pregiudizio a prescindere dai “nomina iuris” dei vari tipi di danno, i quali non possono essere invocati singolarmente per un aumento della anzidetta liquidazione.

Tuttavia, sebbene il danno non patrimoniale costituisca una categoria unitaria, le tradizionali sottocategorie di danno biologico e danno morale continuano a svolgere una funzione, per quanto solo descrittiva, del contenuto pregiudizievole preso in esame dal giudice al fine di dare contenuto e parametrare la liquidazione del danno risarcibile.

Pertanto, sarebbe erronea la sentenza di merito che a tali sottocategorie abbia fatto riferimento, ove, attraverso il ricorso al danno biologico ed al danno morale, siano state risarcite due volte le medesime conseguenze pregiudizievoli (ad esempio ricomprendendo la sofferenza psichica sia nel danno “biologico” che in quello “morale”); se, invece, facendo riferimento alle tradizionali locuzioni, il giudice abbia avuto riguardo a pregiudizi concretamente diversi, la decisione non può considerarsi erronea in diritto (cfr. Cass. n. 25222 del 29/11/2011; v. pure, da ultimo, Cass. n. 4043 del 19 febbraio 2013).

Nella fattispecie in esame, la sentenza impugnata non aveva correttamente applicato i menzionati principi, in quanto, muovendo dalla premessa della diversità ontologica del danno morale rispetto a quello biologico (e così disattendendo l’indicazione interpretativa offerta dalle Sezioni Unite secondo cui entrambe le voci sono riconducibili alla unitaria categoria del danno non patrimoniale), non aveva fornito un’ adeguata motivazione delle ragioni per le quali, dopo avere liquidato una somma per il danno biologico imputabile al disturbo dell’adattamento con gravi ripercussioni patologiche dell’umore di tipo depressivo, aveva riconosciuto un ulteriore risarcimento liquidato equitativamente  per danno morale.

In conclusione, la Suprema Corte ha cassato la  sentenza impugnata con rinvio limitatamente al riesame del punto investito dal motivo del ricorso accolto.

La Cassazione ha, pertanto,  designato, quale giudice di rinvio, la Corte di Appello di Salerno che, in diversa composizione, dovrà disporre anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

Valerio Pollastrini

La valutazione “mediocre” del dipendente nelle note di qualifica del datore di lavoro non costituisce mobbing

Con la sentenza n. 898 del 17 gennaio 2014 la Corte di Cassazione ha ribadito che, in riferimento al regime precedente all'art. 4 D.lgs. n. 216/2003, per mobbing si deve intendere una condotta del datore di lavoro che, in violazione degli obblighi di protezione di cui all'art. 2087 c.c., consiste in reiterati e prolungati comportamenti ostili, di intenzionale discriminazione e di persecuzione psicologica, con mortificazione ed emarginazione del lavoratore.

Nel caso di specie, il Tribunale, al termine del primo grado di giudizio, aveva ritenuto che le  note di qualifica (mediocre) attribuite dal datore di lavoro ad una dipendente non costituissero mobbing e, pertanto, aveva escluso il diritto della lavoratrice al risarcimento del danno biologico e del danno esistenziale.

La Corte di Appello, nel confermare la sentenza di primo grado, aveva sottolineato l’assenza di un’adeguata specificazione delle circostanze di luogo, di tempo e dei singoli soggetti che avrebbero realizzato i singoli comportamenti denunziati.

In particolare, la lavoratrice non aveva chiarito quale fosse stata la specifica discriminazione in suo danno, rispetto ai colleghi di lavoro inseriti nelle medesime articolazioni organizzative e,  comunque,  doveva essere escluso ogni intento persecutorio, dal momento che la ricorrente era stata trasferita e spostata dall'uno all'altro dei settori o uffici, unitamente agli altri colleghi di lavoro, per ragioni organizzative che erano risultate documentate.

La Corte di Appello aveva, altresì, condiviso la valutazione di merito del Tribunale, in base alla quale i fatti ascritti ad un unico intento persecutorio, non presentavano, valutati singolarmente,   il carattere della ritorsività ed ostilità.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della dipendente  e, negando la sussistenza del  mobbing, in quanto non puntualmente e specificamente dedotta, ha escluso il diritto della ricorrente al risarcimento del danno.

Per la configurazione del reato di mobbing è necessario, infatti,  l’accertamento di una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro è necessario dunque che rilevino i seguenti elementi:

a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutori o, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore;

d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.

 
Valerio Pollastrini

Organizzazioni di tendenza – Requisiti per l’esclusione della tutela reale in caso di licenziamento illegittimo

Nella sentenza n.797 del 16 gennaio 2014 la Cassazione ha confermato che, ai fini dell’applicabilità della speciale regola della deroga al regime generale della tutela reale di cui all’art.18 dello Statuto dei lavoratori (1) in favore delle associazioni di tendenza, non è sufficiente la riconducibilità del datore di lavoro ad una delle tipologie di organizzazioni  elencate dalla legge, ma è altresì necessaria la mancanza di scopo di lucro e di un’organizzazione imprenditoriale.

Nel caso di specie, al termine del primo grado di giudizio,  il Tribunale di Treviso aveva ritenuto illegittimo il licenziamento irrogato dalla Federazione Provinciale C. di Treviso ad un proprio dipendente ed aveva condannato il datore di lavoro alla riassunzione o, in mancanza, al risarcimento del danno nella misura di dieci mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

La Corte di Appello di Venezia, pronunciandosi sul gravame della lavoratrice, aveva escluso che il licenziamento fosse stato determinato da ragioni di natura discriminatoria o ritorsiva ed aveva, inoltre, negato al caso di specie l’applicabilità della tutela reale di cui all’art.18 dello Statuto dei lavoratori,  stante la natura di organizzazione di tendenza del datore di lavoro. Il Giudice di Appello aveva però ampliato la misura risarcitoria in seguito al licenziamento illegittimo, stimandola in quattordici mensilità.

La Corte di Cassazione , con sentenza n. 22873/2010, aveva però cassato la sentenza di merito ed aveva rinviato nuovamente la pronuncia alla Corte di Appello, rilevando che, per l’applicabilità della speciale regola della deroga al regime generale della tutela reale in favore delle associazioni di tendenza, non fosse sufficiente la riconducibilità del datore di lavoro ad una delle tipologie di organizzazioni di tendenza, ma fosse altresì necessario accertare la mancanza di scopo di lucro e di un’organizzazione imprenditoriale.

La Suprema Corte, inoltre, aveva chiarito che, a tale scopo, l’analisi non si sarebbe dovuta incentrare sull’identificazione dell’ imprenditore in senso stretto, assoggettato alla disciplina dell’impresa, ma avrebbe dovuto accertare se l’attività dell’associazione fosse organizzata a modo di impresa e, quindi, secondo un criterio di economicità.

Il datore di lavoro che invochi siffatta deroga, quindi, deve provare non solo di svolgere una delle attività c.d. di tendenza, ma anche che tale attività sia  esercitata senza fini di lucro e non secondo modalità organizzative ed economiche di tipo imprenditoriale.

Per la Corte di legittimità, dunque, la sentenza di Appello non era corretta in quanto, si era limitata ad  accertare la riconducibilità dell’attività svolta dalla Federazione ad una di quelle indicate dalla legge come organizzazioni di tendenza ed aveva posto a carico del lavoratore l’onere della prova degli altri requisiti concernenti l’assenza del fine di lucro e dell’esercizio dell’attività non a modo d’impresa per escluderne la deroga all’applicazione della tutela reale.

In seguito al rinvio disposto dalla Cassazione, la Corte di Appello di Trento aveva nuovamente  ritenuto inapplicabile al caso di specie l’art. 18 legge n. 300/70, confermando l’entità del  risarcimento dovuto all’illegittimità del recesso, disposto nel precedente giudizio di secondo grado.

In merito alle motivazioni della nuova decisione, la Corte territoriale aveva osservato quanto segue:

- la Suprema Corte non aveva messo in discussione la natura di organizzazione di tendenza della Federazione, quale accertata nei giudizi di merito, richiedendo tuttavia che fosse dimostrata, con onere incombente sulla parte datoriale, che la stessa avesse svolto la sua attività senza fini di lucro e senza un’organizzazione imprenditoriale;

- l’esame delle previsioni statutarie dell’organizzazione in oggetto aveva escluso la sussistenza dello scopo di lucro, posto che quest’ultimo avrebbe potuto incidere sulla natura  di tendenza solo qualora la produzione di ricchezza avesse assunto un rilievo tale da caratterizzare l’attività dell’organizzazione in senso speculativo, esorbitando dal mero obbiettivo del conseguimento di un assetto economico e gestionale che consentisse di assolvere in modo ottimale alla funzione istituzionale;

- l’accertamento della sussistenza o meno di un’attività imprenditoriale andava svolto considerando sia la natura dell’attività della dipendente, e cioè se la stessa fosse o meno “assolutamente neutra” rispetto agli scopi tipici della organizzazione di tendenza, sia il tipo di attività economica svolta dalla organizzazione di tendenza;

- nel caso di specie il raggiungimento dei fini istituzionali della Federazione passava attraverso un’attività concreta, non trattandosi di una organizzazione svolgente solo attività, ad esempio, di promozione culturale o scientifica; al pari dell’attività sindacale e di quella di assistenza fiscale, anche l’assistenza nelle pratiche UMA (svolgimento delle pratiche necessarie ad ottenere le agevolazioni nell’acquisto di gasolio) non costituiva attività ispirata a meri scopi speculativi o lucrativi, ma rientrava nel raggiungimento dei fini istituzionali, giusta quanto previsto dall’art. 2 dello Statuto, laddove all’azienda veniva attribuito il ruolo di “sostenere a livello provinciale lo sviluppo delle imprese e dell’attività agricola (...) contenimento dei costi di produzione all’accrescimento della competitività...”.

- sia le prove orali che la documentazione prodotte nel corso del primo grado di giudizio, avevano confermato che l’attività svolta dalla Federazione, con riferimento alle pratiche UMA, risultava svolta esclusivamente nei confronti degli associati o divenuti tali a seguito della richiesta di dette prestazioni, non essendo emerso in concreto che si fosse verificato il “raro caso”, previsto nell’ordine di servizio 10 ottobre 2000, di prestazione a favore di un non socio;

- risultava dunque provato che le prestazioni UMA non venivano svolte attraverso una struttura imprenditoriale, essendovi addetta, all’epoca dei fatti, la sola ricorrente nella sede di Conegliano ed essendo rivolte unicamente agli iscritti, senza ricerca del mantenimento del pareggio di bilancio, posto che le spese per lo svolgimento delle pratiche  non erano elevate (da lire 20.000 a un massimo di lire 70.000) e, come tali, volte solo alla copertura dei costi e non improntate, quindi, a criteri di economicità, nel senso pur ampio indicato dalla sentenza di rinvio;

- alla luce degli elementi in atti, la modestia delle somme richieste ai soci per il servizio UMA e l’assenza di una struttura imprenditoriale per quel particolare servizio, doveva presumersi un volume d’affari non consistente e ritenere esclusa persino la ricorrenza di una attività ispirata al criterio di economicità di gestione, funzionalmente diretta all’equilibrio tra costi e ricavi;

Contro questa sentenza, il lavoratore aveva nuovamente proposto ricorso in Cassazione.

La Suprema Corte, nel respingere le richieste del ricorrente, ha rilevato che, nel caso di specie, la nuova sentenza di Appello avesse esaminato le circostanze rilevanti ai fini della decisione, svolgendo un iter argomentativo esaustivo, coerente con le emergenze istruttorie acquisite e immune da contraddizioni e vizi logici.

Le valutazioni svolte e le coerenti conclusioni che ne ha tratto la Corte territoriale configurano, secondo la Cassazione,  un’opzione interpretativa del materiale probatorio del tutto ragionevole, che, quale espressione di una potestà propria del giudice del merito, non può essere sindacata nel suo esercizio (2).

Per tali motivi la Corte di legittimità ha confermato la pronuncia di Appello, condannando il lavoratore alla rifusione delle spese, liquidate in 4.100,00 €, di cui 4.000,00 € per compenso, oltre accessori come per legge.


Valerio Pollastrini

 

(1)   – Legge n.300 del 20 maggio 1970;

(2)    - cfr, ex plurimis, Cass., nn. 14212/2010; 14911/2010;

Contributi Inail, i termini per la prima rata slittano al 16 maggio


In una nota del 22 gennaio 2014 il Ministero del lavoro ha comunicato  il rinvio al mese di maggio dei termini per il pagamento dei premi per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

La proroga si è resa necessaria in seguito alla Legge di stabilità 2014 (1) che ha disposto un taglio dei premi INAIL, pari ad 1 miliardo di euro,  a partire dal 2014, con differenziazioni legate agli andamenti infortunistici.

Conseguentemente, l'Istituto Assicurativo sta provvedendo non solo alle elaborazioni statistiche sugli andamenti infortunistici e sui premi/contributi accertati per determinare le percentuali di riduzione che si applicheranno alle singole imprese, ma anche all'aggiornamento dei software gestionali.

Per consentire alle imprese che effettuano il pagamento di premi e contributi in un'unica soluzione alla prima scadenza annuale (16 febbraio 2014) di beneficiare immediatamente del bonus, il Ministro dell'Economia e delle Finanze e il Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali hanno concordato di differire tale scadenza al 16 maggio 2014 per tutte le imprese interessate e per tutti i premi diversi dai premi speciali unitari artigiani che scadono prima di tale data.

L'onere del differimento è interamente a carico dello Stato.

Il provvedimento di proroga, da un lato, consentirà alle imprese di beneficiare pienamente della riduzione del costo del lavoro nel corso del 2014 (senza, cioè, dover procedere a conguagli successivi), dall'altro agevolerà le condizioni di liquidità delle imprese.

A fronte dei circa tre miliardi di euro previsti per il pagamento di febbraio, a maggio, grazie alla riduzione dei premi come calcolati dall'INAIL, vi saranno, infatti, versamenti per complessivi due miliardi di euro.

Il mancato pagamento dei premi nel mese di febbraio favorirà, inoltre, le condizioni finanziarie delle aziende nei prossimi tre mesi.

Valerio Pollastrini

  
(1)   - legge 27/12/2013 n. 147;
      
 

martedì 21 gennaio 2014

Al via il piano italiano per la Garanzia Giovani


Il piano europeo per la Garanzia per i giovani “Youth Guarantee” prevede che ogni Stato Membro assicuri ad ogni persona al di sotto dei 25 anni un’offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, apprendistato o tirocinio entro un periodo di quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o dall’uscita dal sistema d’istruzione formale.

Il piano di Attuazione italiano di recepimento è stato recentemente approvato  dalla Commissione europea, che ha dato così il via libera all’avvio delle procedure amministrative finalizzate all’erogazione degli appositi fondi europei.

Per il periodo 2014-2020, pertanto, l’Unione Europea integrerà la spesa nazionale per questi sistemi attraverso il Fondo sociale europeo con  6 miliardi di euro dell’iniziativa per l’occupazione giovanile.

In sostanza, l’’Italia, oltre alla quota di finanziamento nazionale,   stimata intorno al 40% , pari a 379 milioni di euro,  riceverà   567 milioni di euro per il sostegno al piano nazionale a cui si aggiungeranno altri 567milioni di euro a carico del FSE.

Il totale complessivo ammonterà a circa 1 miliardo e 513 milioni di euro, a cui devono essere aggiunti anche ulteriori finanziamenti nazionali e regionali.

Il piano italiano è stato disposto da una”struttura di missione”, istituita con il D.l. n.76/2013.

I destinatari del piano sono i giovani nella fascia di età dai 14 ai 24 anni ai quali, entro quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o dall’uscita dal sistema di istruzione formale, dovrà essere offerto un servizio. 

A 6 mesi dall’inizio del programma, la decisione di allargare il programma ai giovani di età compresa tra 25 e 29 anni.

Per usufruire dei servizi messi a disposizione,  i soggetti interessati, entro quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o dall’uscita del sistema di istruzione formale, dovranno  registrarsi al Programma.

Target prioritari sono infatti i Giovani che si registrano alla Garanzia Giovani come inoccupati o disoccupati e poi, i Giovani non occupati che abbandonano un percorso di istruzione o formazione e non si registrano come disoccupati o inoccupati, ma cercano lavoro o sono disponibili a lavorare.

E’ previsto un sistema universale di informazione e orientamento a cui il giovane potrà accedere registrandosi attraverso vari punti di contatto: al sito www.garanziaperigiovani.it (in fase di realizzazione), il portale Cliclavoro, i portali regionali, i Servizi per l’Impiego e altri servizi competenti, sportelli ad hoc che saranno aperti presso gli istituti di istruzione e formazione.

Dopo la registrazione e un primo colloquio nella fase di accoglienza, al giovane verrà indicato un percorso di orientamento individuale destinato a definire un progetto personalizzato di formazione o lavorativo/professionale a cura principalmente dei Servizi per l’Impiego.

Previsto anche un colloquio specializzato con il quale gli orientatori qualificati  prepareranno i giovani all’ingresso nel mercato del lavoro con percorsi di costruzione del curriculum e di autovalutazione delle esperienze e delle competenze.

Ai giovani in possesso dei requisiti richiesti verrà offerto un finanziamento diretto (bonus, voucher, ecc.) per accedere ad una gamma di possibili percorsi, tra cui:

- l’inserimento in un contratto di lavoro dipendente;

- l’avvio di un contratto di apprendistato o di un’esperienza di tirocinio;

- l’impegno nel servizio civile;

- la formazione specifica professionalizzante;

- l’accompagnamento nell’avvio di una iniziativa imprenditoriale o di lavoro autonomo.

Valerio Pollastrini

Nuovo codice di condotta per gli ispettori del lavoro


Introdotto con Decreto Ministeriale del 15 gennaio 2014 il nuovo codice di condotta degli ispettori del lavoro.
Una nota istituzionale ha informato, infatti, della firma apposta dal Ministro  Enrico Giovannini sul decreto di approvazione delle nuove regole di condotta, deontologiche e procedimentali riferite all'attività di vigilanza e al personale ispettivo, aggiornate con le modifiche legislative intervenute negli ultimi anni.
Il nuovo codice di comportamento è stato definito al termine di   una procedura partecipata che ha visto il coinvolgimento degli stakeholder attraverso la pubblicazione di una sua bozza sul sito istituzionale.
Una specifica informativa è stata inoltre resa alle Organizzazioni sindacali presenti all'interno dell'Amministrazione e alle Organizzazioni sindacali e datoriali di livello nazionale maggiormente rappresentative. Il codice ha recepito molte delle osservazioni pervenute da tutti i soggetti che hanno partecipato alla fase delle consultazioni.

Per prendere visione del nuovo codice di comportamento cliccare sull’apposito link.