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venerdì 24 gennaio 2014

Pubblico impiego - Condotta persecutoria dell’amministrazione e mobbing


La Corte di Cassazione, nella sentenza n.687 del 15 gennaio 2014, è intervenuta sulla configurazione del reato di mobbing posta in essere da  un’amministrazione comunale nei confronti di un lavoratore pubblico.

Una dipendente del Comune di Casaletto Spartano, nominata con decreto del Sindaco responsabile con funzioni dirigenziali del neoistituito settore tributi, si era rivolta al giudice del lavoro di Sala Consilina, rilevando che, in un secondo momento, il Comune aveva proceduto, per ragioni di bilancio, alla soppressione dell’area tributi e che, con successivo decreto, il Sindaco le aveva revocato l’incarico e l’aveva assegnata all’area amministrativa con funzioni di istruttore e di addetta alla biblioteca.

A seguito dell’attribuzione delle nuove funzioni, la lavoratrice era stata costretta a soggiornare in una stanza in disuso ed era rimasta, di fatto, in una condizione di totale inattività, non essendo la biblioteca comunale frequentata da alcun utente.

La forzata inattività, alla quale era stata costretta, le aveva provocato una sindrome ansioso-depressiva reattiva, per la quale la ricorrente aveva richiesto  di essere reintegrata nelle mansioni in precedenza svolte nell’ambito del settore tributi, o in altre mansioni equivalenti, e di essere risarcita dei danni subiti a causa del comportamento mobbizzante.

Il giudice adito, in parziale accoglimento della domanda, aveva ritenuto illegittima la delibera della Giunta con cui era stato soppresso il settore tributi senza previa consultazione con le organizzazioni sindacali ed aveva disposto la reintegra della ricorrente nelle mansioni in precedenza svolte, condannando il Comune  al risarcimento del danno biologico, ravvisando la sussistenza del comportamento vessatorio.

La Corte di appello di Salerno,  in parziale riforma della decisione di primo grado, aveva dichiarato sussistente il difetto di giurisdizione del giudice ordinano in ordine alla domanda di reintegrazione nell’incarico e nelle mansioni di responsabile del settore tributi, ravvisando nella domanda proposta una contestazione che investiva direttamente l’esercizio del potere amministrativo e l’atto di macro-organizzazione di modifica della dotazione organica dell’Ente, la cui asserita illegittimità era posta a base delle pretesa di accertamento della invalidità del successivo atto di assegnazione al servizio biblioteca, con funzioni di istruttore.

In merito alla domanda risarcitoria per danni da mobbing, la Corte di Appello, aveva rilevato la sussistenza di un chiaro intento persecutorio e discriminatorio degli organi di vertice dell’Ente territoriale che si era venuto a creare con l’assegnazione della dipendente al settore biblioteca, presso il quale, dopo un’iniziale attività di catalogazione, era rimasta dal tutto inattiva, a causa dell’assoluta mancanza di visitatori e/o fruitori della biblioteca comunale.

La condotta si era protratta nel tempo ed aveva arrecato alla ricorrente una lesione della personalità.

Inoltre, nell’istruttoria era emerso un intento persecutorio posto in essere dal Sindaco, il quale, in sede penale, era stato ritenuto colpevole  di abuso continuato d’ufficio, proprio con riferimento al comportamento tenuto nei confronti della ricorrente.

In merito alle conseguenze risarcitorie, la Corte territoriale, ritenuto comprovato il danno con riduzione della capacità lavorativa pari al 35%, aveva liquidato un risarcimento pari a  21.000,00 € e, ravvisata l’autonomia del danno morale, aveva inoltre riconosciuto, per tale titolo, un ulteriore risarcimento pari a 7.000,00 €.

Il seguito alla sentenza della Corte di merito, il Comune di Casaletto Spartano aveva proposto ricorso per  cassazione.

La pronuncia della Cassazione
Preliminarmente, il Comune censura la sentenza di merito per avere ritenuto vietata l’assegnazione della lavoratrice a mansioni diverse da quelle di assunzione, o equivalenti a quelle effettivamente svolte, seppure appartenenti alle qualifica di inquadramento, secondo la classificazione contenuta nel C.C.N.L. applicabile al rapporto.

La Cassazione ha escluso ogni valenza ad una simile doglianza ed ha ricordato che,
in tema di pubblico impiego privatizzato, l’art. 52, comma 1, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che sancisce il diritto all’adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto o ad altre equivalenti, ha recepito un concetto di equivalenza “formale”, ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva (indipendentemente dalla professionalità acquisita) e non sindacabile dal giudice, con la conseguenza che condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita.

Tuttavia, nel caso in cui la destinazione ad altre mansioni abbia sostanzialmente svuotato l’attività lavorativa, la vicenda esula dall’ambito delle problematiche sull’equivalenza delle mansioni, configurandosi la diversa ipotesi della sottrazione, pressoché integrale, delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego.

Secondo l’Ente ricorrente, la situazione di inattività venutasi a creare nella nuova assegnazione presso la biblioteca andava imputata alla stessa lavoratrice, che non si era sufficientemente attivata nella nuova funzione, nonostante le sollecitazioni  dall’Amministrazione comunale.

Anche questa censura è stata respinta dalla Suprema Corte che ha specificato come la Corte di Appello avesse fornito adeguate  motivazioni  del proprio convincimento e le avesse argomentate in modo logicamente congruo.

Altra doglianza espressa dal Comune è riferita al passo della sentenza che aveva valutato come elemento indiziario la condanna riportata dal Sindaco per il reato di abuso d’ufficio continuato, proprio in relazione al decreto con cui era stata disposta la revoca della lavoratrice dalle funzioni di responsabile dell’area tributi e il suo inserimento nell’area amministrativa, con l’assegnazione alle funzioni di bibliotecaria. Il ricorrente, in particolar modo, denuncia  che il giudice di Appello non avrebbe potuto limitarsi a richiamare sic et simpliciter la sentenza penale (peraltro non ancora definitiva), ma avrebbe dovuto valutare autonomamente gli elementi di prova e le circostanze poste a suo fondamento.

Anche su questo punto la Cassazione ha ritenuto la censura datoriale inammissibile e comunque infondata.

Il giudice civile investito della domanda di risarcimento del danno da reato deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità con pienezza di cognizione, non essendo vincolato alle soluzioni e alle qualificazioni del giudice penale.

Nondimeno, il giudice civile può però legittimamente utilizzare, come fonte del proprio convincimento, le prove raccolte in un giudizio penale definito con sentenza passata in giudicato e fondare la decisione su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, procedendo a tal fine ad un diretto esame del contenuto del materiale probatorio, ovvero ricavando tali elementi e circostanze dalla sentenza, o se necessario, dagli atti del relativo processo, in modo da accertare esattamente i fatti materiali sottoponendoli al proprio vaglio critico.

Tra l’altro, nel caso di specie, la valorizzazione della sentenza penale aveva costituito un elemento solo integrativo dell’iter formativo del convincimento giudiziale, di talché la censura che investe tale punto è priva del carattere di decisività.

Il Comune aveva poi sostenuto  che il mobbing sarebbe costituito e si sarebbe esaurito, a tutto voler concedere, in una singola condotta, ovvero nel presunto demansionamento subito dalla lavoratrice e dunque in un singolo atto (di natura istantanea) di gestione del rapporto, che non può tradursi in quel conflitto sistematico e persecutorio che configura la fattispecie di tale reato.

Anche questa tesi è stata  ritenuta  priva di fondamento dalla Corte di legittimità.

Oltre al carattere permanente del demansionamento, integrante per sé un comportamento illegittimo, connotato dal suo protrarsi nel tempo, l’atto di assegnazione alle mansioni di istruttore presso la biblioteca era seguito da una serie di condotte attive ed omissive, specificamente manifestatesi attraverso il più assoluto disinteresse degli organi di vertice dell’amministrazione comunale nei confronti delle reiterate rimostranze formulate dalla citata dipendente ed estrinsecatesi mediante il mantenimento della stessa in una condizione di prolungata inattività e in uno stato di progressivo isolamento nell’ambiente di lavoro.

Il ricorrente aveva, infine, contestato la sentenza di merito nella parte in cui aveva accolto la domanda di risarcimento del danno morale, disattendendo l’orientamento delle Sezioni Unite in materia di risarcimento del danno non patrimoniale di cui alla sent. n. 26972/08.

A detta del datore di lavoro la duplicazione del risarcimento del danno biologico e del danno morale, compiuta sulla base del solo presupposto dell’autonomia ontologica del secondo, viene esclusa dal richiamato orientamento interpretativo.

Il danno morale - sostiene parte ricorrente - costituisce una componente del danno non patrimoniale e non è liquidabile separatamente. In ogni caso, la sua sussistenza va distintamente provata da colui che agisce per ottenerne il risarcimento.

Quanto poi alla sua liquidazione in misura pari ad una frazione dell’importo riconosciuto per il risarcimento del danno biologico, occorre che il giudice tenga la necessaria personalizzazione del criterio e dia atto di non avere applicato i valori tabellari con mero automatismo.

In questo caso la Cassazione ha ritenuto  fondato il motivo del ricorso nei termini che seguono.

La liquidazione del danno non patrimoniale deve essere complessiva e cioè tale da coprire l’intero pregiudizio a prescindere dai “nomina iuris” dei vari tipi di danno, i quali non possono essere invocati singolarmente per un aumento della anzidetta liquidazione.

Tuttavia, sebbene il danno non patrimoniale costituisca una categoria unitaria, le tradizionali sottocategorie di danno biologico e danno morale continuano a svolgere una funzione, per quanto solo descrittiva, del contenuto pregiudizievole preso in esame dal giudice al fine di dare contenuto e parametrare la liquidazione del danno risarcibile.

Pertanto, sarebbe erronea la sentenza di merito che a tali sottocategorie abbia fatto riferimento, ove, attraverso il ricorso al danno biologico ed al danno morale, siano state risarcite due volte le medesime conseguenze pregiudizievoli (ad esempio ricomprendendo la sofferenza psichica sia nel danno “biologico” che in quello “morale”); se, invece, facendo riferimento alle tradizionali locuzioni, il giudice abbia avuto riguardo a pregiudizi concretamente diversi, la decisione non può considerarsi erronea in diritto (cfr. Cass. n. 25222 del 29/11/2011; v. pure, da ultimo, Cass. n. 4043 del 19 febbraio 2013).

Nella fattispecie in esame, la sentenza impugnata non aveva correttamente applicato i menzionati principi, in quanto, muovendo dalla premessa della diversità ontologica del danno morale rispetto a quello biologico (e così disattendendo l’indicazione interpretativa offerta dalle Sezioni Unite secondo cui entrambe le voci sono riconducibili alla unitaria categoria del danno non patrimoniale), non aveva fornito un’ adeguata motivazione delle ragioni per le quali, dopo avere liquidato una somma per il danno biologico imputabile al disturbo dell’adattamento con gravi ripercussioni patologiche dell’umore di tipo depressivo, aveva riconosciuto un ulteriore risarcimento liquidato equitativamente  per danno morale.

In conclusione, la Suprema Corte ha cassato la  sentenza impugnata con rinvio limitatamente al riesame del punto investito dal motivo del ricorso accolto.

La Cassazione ha, pertanto,  designato, quale giudice di rinvio, la Corte di Appello di Salerno che, in diversa composizione, dovrà disporre anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

Valerio Pollastrini

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