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domenica 26 gennaio 2014

L’azienda deve risarcire il danno se il lavoratore, in seguito ad infortunio sul lavoro, non riesce ad appagare sessualmente la moglie


Con la sentenza n.386 del 19 novembre 2013–10 gennaio 2014, la Corte di Cassazione ha confermato la pronuncia di merito con la quale era stato riconosciuto il diritto al risarcimento del danno in favore del marito lavoratore che, in seguito ad  infortunio sul lavoro, aveva lamentato la sopraggiunta impossibilità di   appagare sessualmente la moglie.

Con precedente sentenza  n. 14822/07 la Suprema Corte aveva cassato – con rinvio alla Corte d’appello di Roma – la sentenza con la quale il Tribunale di Latina, nel secondo grado di giudizio, aveva, in riforma della sentenza di prime cure, condannato Estrusione Italia S.p.A. al pagamento, in favore della ricorrente, di  50.000,00 € a titolo di danno alla vita sessuale e di 25.000,00 € a titolo di danno morale, oltre interessi dalla data dell’infortunio patito il 10.2.92 dal coniuge  della danneggiata, da calcolarsi sulla metà dei predetti importi.

La pronuncia del  Tribunale era stata annullata in quanto il giudice di appello aveva fondato la propria decisione su documenti depositati in appello dalla difesa della ricorrente , senza pronunciarsi sull’eccezione di tardività della loro produzione sollevata da Estrusione Italia S.p.A..

La Corte d’appello di Roma, pronunciando in sede di rinvio, aveva rigettato l’eccezione di tardività della produzione dei documenti predetti e nel merito aveva confermato la liquidazione dei danni contenuta nella summenzionata sentenza del Tribunale di Latina, richiamandone le motivazioni.

Estrusione Italia S.p.A. aveva quindi ricorso nuovamente per la cassazione della sentenza della Corte territoriale, depositando, inoltre, la sopravvenuta sentenza dichiarativa di fallimento della società medesima.

A proposito dello stato di fallimento del datore di lavoro, la Cassazione, richiamando i propri precedenti sul merito, ha premesso innanzitutto l’irrilevanza  della sopravvenuta dichiarazione di fallimento della società ricorrente poiché nel giudizio di cassazione tale circostanza non determina l’interruzione del processo (1).

L’azienda si doleva del fatto che l’impugnata sentenza avesse ritenuto che i documenti fossero stati già ritualmente depositati in prime cure, unitamente al ricorso introduttivo di lite, mentre – ad avviso della società ricorrente – nel precedente giudizio di legittimità era stato pacificamente  accertato il contrario, tanto che l’annullamento era stato disposto proprio affinché il giudice del rinvio si pronunciasse sull’eccezione di tardività della produzione sollevata nel precedente giudizio.

Il ricorrente contestava, inoltre, l’accoglimento da parte del giudice di appello della domanda risarcitoria in base a documenti insufficienti a comprovarla, atteso che proprio alla luce della CTU prodotta  non esisteva un danno alla vita sessuale in senso stretto, essendosi ipotizzata una mera impossibilità di procreare (aspermia), in realtà destinata a regredire nel tempo.

A detta dell’azienda, la ricorrente non aveva dimostrato di volere altri figli, né aveva provato la permanenza della patologia riportata dal marito, dal quale – per altro – era separata da anni. Del pari veniva contestato il raggiungimento  della prova del danno morale, per di più liquidato in maniera arbitraria in assenza di idonei parametri.

La Cassazione ha escluso ogni rilevanza alle doglianze sopra elencate in quanto, dall’analisi degli atti, era emerso che la Suprema Corte, nella passata pronuncia, non avesse  affatto accertato la reale tardività della produzione dei documenti asserita dall’odierna ricorrente, ma si fosse limitata a cassare la sentenza del Tribunale di Latina per omessa pronuncia sull’eccezione di tardività sollevata da Estrusione Italia S.p.A..

Dunque, nulla vietava al giudice di rinvio di accertare autonomamente se tali documenti fossero stati effettivamente già prodotti in prime cure e, poi, semplicemente ridepositati nel corso del giudizio d’appello, come espressamente affermato dall’impugnata sentenza.

Ciò supera ogni altra censura sollevata dall’odierna ricorrente in ordine a pretese violazioni o a vizi di motivazione circa l’indispensabilità dei documenti ai fini del decidere.

Premesso poi che il danno morale, quello sessuale e quello alla vita di relazione rientrano pur sempre nell’ampia ed omnicomprensiva categoria del danno non patrimoniale, che non è possibile suddividere in ulteriori sottocategorie, se non con valenza meramente descrittiva, la Cassazione ha specificato che la loro esistenza può presumersi anche in base a mere massime di esperienza (2), in particolare se basate sui rapporti personali fra coniugi, come nel caso di specie, salva restando la possibilità di prova contraria.

La pretesa separazione fra la lavoratrice e il marito e/o quelle concernenti la scelta di non avere (altri) figli costituiscono circostanze che implicano accertamenti di fatto, estranei al giudizio di legittimità.

In ordine, poi, alla liquidazione dei danni, la Suprema Corte ricorda che essa non può che avvenire in via equitativa, non esistendo parametri legislativi a riguardo.


Sul punto la Cassazione ha escluso che   l’impugnata sentenza avesse proceduto ad una loro liquidazione arbitraria, rilevando invece che i giudici del rinvio avessero espressamente fornito una motivazione per relationem a quella già espressa nella precedente citata sentenza del Tribunale di Latina.

La Suprema Corte ha quindi concluso rigettando il ricorso dell’azienda, condannandola al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 100,00 € per esborsi ed in 3.500,00 € per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Valerio Pollastrini


(1)    -  cfr., ex aliis, Cass. 17.7.13 n. 17450; Cass. 31.5.12 n. 8685; Cass. 5.7.11 n. 14786; Cass. S.U. 14.11.03 n. 17295;

(2)   - cfr. Cass. S.U. 11.11.08 n. 26972;

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