Con la sentenza n.386 del 19 novembre
2013–10 gennaio 2014, la Corte di Cassazione ha confermato la pronuncia di
merito con la quale era stato riconosciuto il diritto al risarcimento del danno
in favore del marito lavoratore che, in seguito ad infortunio sul lavoro, aveva lamentato la sopraggiunta
impossibilità di appagare sessualmente la moglie.
Con precedente
sentenza n. 14822/07 la Suprema Corte
aveva cassato – con rinvio alla Corte d’appello di Roma – la sentenza con la
quale il Tribunale di Latina, nel secondo grado di giudizio, aveva, in riforma
della sentenza di prime cure, condannato Estrusione Italia S.p.A. al pagamento,
in favore della ricorrente, di 50.000,00
€ a titolo di danno alla vita sessuale e di 25.000,00 € a titolo di danno
morale, oltre interessi dalla data dell’infortunio patito il 10.2.92 dal
coniuge della danneggiata, da calcolarsi
sulla metà dei predetti importi.
La pronuncia
del Tribunale era stata annullata in
quanto il giudice di appello aveva fondato la propria decisione su documenti
depositati in appello dalla difesa della ricorrente , senza pronunciarsi
sull’eccezione di tardività della loro produzione sollevata da Estrusione Italia
S.p.A..
La Corte
d’appello di Roma, pronunciando in sede di rinvio, aveva rigettato l’eccezione
di tardività della produzione dei documenti predetti e nel merito aveva confermato
la liquidazione dei danni contenuta nella summenzionata sentenza del Tribunale
di Latina, richiamandone le motivazioni.
Estrusione
Italia S.p.A. aveva quindi ricorso nuovamente per la cassazione della sentenza
della Corte territoriale, depositando, inoltre, la sopravvenuta sentenza
dichiarativa di fallimento della società medesima.
A proposito
dello stato di fallimento del datore di lavoro, la Cassazione, richiamando i
propri precedenti sul merito, ha premesso innanzitutto l’irrilevanza della sopravvenuta dichiarazione di fallimento
della società ricorrente poiché nel giudizio di cassazione tale circostanza non determina l’interruzione
del processo (1).
L’azienda si
doleva del fatto che l’impugnata sentenza avesse ritenuto che i documenti
fossero stati già ritualmente depositati in prime cure, unitamente al ricorso
introduttivo di lite, mentre – ad avviso della società ricorrente – nel
precedente giudizio di legittimità era stato pacificamente accertato il contrario, tanto che
l’annullamento era stato disposto proprio affinché il giudice del rinvio si pronunciasse
sull’eccezione di tardività della produzione sollevata nel precedente giudizio.
Il
ricorrente contestava, inoltre, l’accoglimento da parte del giudice di appello
della domanda risarcitoria in base a documenti insufficienti a comprovarla,
atteso che proprio alla luce della CTU prodotta non esisteva un danno alla vita sessuale in
senso stretto, essendosi ipotizzata una mera impossibilità di procreare
(aspermia), in realtà destinata a regredire nel tempo.
A detta dell’azienda,
la ricorrente non aveva dimostrato di volere altri figli, né aveva provato la
permanenza della patologia riportata dal marito, dal quale – per altro – era separata
da anni. Del pari veniva contestato il raggiungimento della prova del danno morale, per di più
liquidato in maniera arbitraria in assenza di idonei parametri.
La
Cassazione ha escluso ogni rilevanza alle doglianze sopra elencate in quanto,
dall’analisi degli atti, era emerso che la Suprema Corte, nella passata
pronuncia, non avesse affatto accertato
la reale tardività della produzione dei documenti asserita dall’odierna
ricorrente, ma si fosse limitata a cassare la sentenza del Tribunale di Latina
per omessa pronuncia sull’eccezione di tardività sollevata da Estrusione Italia
S.p.A..
Dunque,
nulla vietava al giudice di rinvio di accertare autonomamente se tali documenti
fossero stati effettivamente già prodotti in prime cure e, poi, semplicemente
ridepositati nel corso del giudizio d’appello, come espressamente affermato
dall’impugnata sentenza.
Ciò supera
ogni altra censura sollevata dall’odierna ricorrente in ordine a pretese violazioni
o a vizi di motivazione circa l’indispensabilità dei documenti ai fini del
decidere.
Premesso poi
che il danno morale, quello sessuale e quello alla vita di relazione rientrano
pur sempre nell’ampia ed omnicomprensiva categoria del danno non patrimoniale, che
non è possibile suddividere in ulteriori sottocategorie, se non con valenza
meramente descrittiva, la Cassazione ha specificato che la loro esistenza può
presumersi anche in base a mere massime di esperienza (2), in particolare se basate sui rapporti personali fra
coniugi, come nel caso di specie, salva restando la possibilità di prova
contraria.
La pretesa
separazione fra la lavoratrice e il marito e/o quelle concernenti la scelta di
non avere (altri) figli costituiscono circostanze che implicano accertamenti di
fatto, estranei al giudizio di legittimità.
In ordine, poi, alla liquidazione dei danni, la Suprema Corte ricorda che essa non può che avvenire in via equitativa, non esistendo parametri legislativi a riguardo.
Sul punto la
Cassazione ha escluso che l’impugnata sentenza avesse proceduto ad una
loro liquidazione arbitraria, rilevando invece che i giudici del rinvio
avessero espressamente fornito una motivazione per relationem a quella già
espressa nella precedente citata sentenza del Tribunale di Latina.
La Suprema
Corte ha quindi concluso rigettando il ricorso dell’azienda, condannandola al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 100,00 € per
esborsi ed in 3.500,00 € per compensi professionali, oltre accessori come per
legge.
Valerio
Pollastrini
(1)
- cfr., ex aliis, Cass. 17.7.13 n. 17450; Cass.
31.5.12 n. 8685; Cass. 5.7.11 n. 14786; Cass. S.U. 14.11.03 n. 17295;
(2)
- cfr. Cass. S.U. 11.11.08 n.
26972;
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