Nel caso di
specie, al termine del primo grado di giudizio, il Tribunale di Treviso aveva ritenuto
illegittimo il licenziamento irrogato dalla Federazione Provinciale C. di
Treviso ad un proprio dipendente ed aveva condannato il datore di lavoro alla
riassunzione o, in mancanza, al risarcimento del danno nella misura di dieci
mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
La Corte di
Appello di Venezia, pronunciandosi sul gravame della lavoratrice, aveva escluso
che il licenziamento fosse stato determinato da ragioni di natura discriminatoria
o ritorsiva ed aveva, inoltre, negato al caso di specie l’applicabilità della
tutela reale di cui all’art.18 dello Statuto dei lavoratori, stante la natura di organizzazione di tendenza
del datore di lavoro. Il Giudice di Appello aveva però ampliato la misura
risarcitoria in seguito al licenziamento illegittimo, stimandola in quattordici
mensilità.
La Corte di
Cassazione , con sentenza n. 22873/2010, aveva però cassato la sentenza di
merito ed aveva rinviato nuovamente la pronuncia alla Corte di Appello,
rilevando che, per l’applicabilità della speciale regola della deroga al regime
generale della tutela reale in favore delle associazioni di tendenza, non fosse
sufficiente la riconducibilità del datore di lavoro ad una delle tipologie di
organizzazioni di tendenza, ma fosse altresì necessario accertare la mancanza
di scopo di lucro e di un’organizzazione imprenditoriale.
La Suprema
Corte, inoltre, aveva chiarito che, a tale scopo, l’analisi non si sarebbe
dovuta incentrare sull’identificazione dell’ imprenditore in senso stretto,
assoggettato alla disciplina dell’impresa, ma avrebbe dovuto accertare se l’attività
dell’associazione fosse organizzata a modo di impresa e, quindi, secondo un
criterio di economicità.
Il datore di
lavoro che invochi siffatta deroga, quindi, deve provare non solo di svolgere
una delle attività c.d. di tendenza, ma anche che tale attività sia esercitata senza fini di lucro e non secondo
modalità organizzative ed economiche di tipo imprenditoriale.
Per la Corte
di legittimità, dunque, la sentenza di Appello non era corretta in quanto, si
era limitata ad accertare la
riconducibilità dell’attività svolta dalla Federazione ad una di quelle
indicate dalla legge come organizzazioni di tendenza ed aveva posto a carico
del lavoratore l’onere della prova degli altri requisiti concernenti l’assenza
del fine di lucro e dell’esercizio dell’attività non a modo d’impresa per
escluderne la deroga all’applicazione della tutela reale.
In seguito
al rinvio disposto dalla Cassazione, la Corte di Appello di Trento aveva
nuovamente ritenuto inapplicabile al
caso di specie l’art. 18 legge n. 300/70, confermando l’entità del risarcimento dovuto all’illegittimità del
recesso, disposto nel precedente giudizio di secondo grado.
In merito
alle motivazioni della nuova decisione, la Corte territoriale aveva osservato
quanto segue:
- la Suprema
Corte non aveva messo in discussione la natura di organizzazione di tendenza
della Federazione, quale accertata nei giudizi di merito, richiedendo tuttavia
che fosse dimostrata, con onere incombente sulla parte datoriale, che la stessa
avesse svolto la sua attività senza fini di lucro e senza un’organizzazione
imprenditoriale;
- l’esame
delle previsioni statutarie dell’organizzazione in oggetto aveva escluso la
sussistenza dello scopo di lucro, posto che quest’ultimo avrebbe potuto
incidere sulla natura di tendenza solo
qualora la produzione di ricchezza avesse assunto un rilievo tale da caratterizzare
l’attività dell’organizzazione in senso speculativo, esorbitando dal mero
obbiettivo del conseguimento di un assetto economico e gestionale che
consentisse di assolvere in modo ottimale alla funzione istituzionale;
-
l’accertamento della sussistenza o meno di un’attività imprenditoriale andava
svolto considerando sia la natura dell’attività della dipendente, e cioè se la
stessa fosse o meno “assolutamente neutra” rispetto agli scopi tipici della
organizzazione di tendenza, sia il tipo di attività economica svolta dalla
organizzazione di tendenza;
- nel caso
di specie il raggiungimento dei fini istituzionali della Federazione passava
attraverso un’attività concreta, non trattandosi di una organizzazione
svolgente solo attività, ad esempio, di promozione culturale o scientifica; al
pari dell’attività sindacale e di quella di assistenza fiscale, anche
l’assistenza nelle pratiche UMA (svolgimento delle pratiche necessarie ad
ottenere le agevolazioni nell’acquisto di gasolio) non costituiva attività
ispirata a meri scopi speculativi o lucrativi, ma rientrava nel raggiungimento
dei fini istituzionali, giusta quanto previsto dall’art. 2 dello Statuto, laddove
all’azienda veniva attribuito il ruolo di “sostenere a livello provinciale lo
sviluppo delle imprese e dell’attività agricola (...) contenimento dei costi di
produzione all’accrescimento della competitività...”.
- sia le
prove orali che la documentazione prodotte nel corso del primo grado di giudizio,
avevano confermato che l’attività svolta dalla Federazione, con riferimento
alle pratiche UMA, risultava svolta esclusivamente nei confronti degli
associati o divenuti tali a seguito della richiesta di dette prestazioni, non
essendo emerso in concreto che si fosse verificato il “raro caso”, previsto
nell’ordine di servizio 10 ottobre 2000, di prestazione a favore di un non
socio;
- risultava
dunque provato che le prestazioni UMA non venivano svolte attraverso una
struttura imprenditoriale, essendovi addetta, all’epoca dei fatti, la sola ricorrente
nella sede di Conegliano ed essendo rivolte unicamente agli iscritti, senza
ricerca del mantenimento del pareggio di bilancio, posto che le spese per lo
svolgimento delle pratiche non erano
elevate (da lire 20.000 a un massimo di lire 70.000) e, come tali, volte solo
alla copertura dei costi e non improntate, quindi, a criteri di economicità,
nel senso pur ampio indicato dalla sentenza di rinvio;
- alla luce
degli elementi in atti, la modestia delle somme richieste ai soci per il
servizio UMA e l’assenza di una struttura imprenditoriale per quel particolare
servizio, doveva presumersi un volume d’affari non consistente e ritenere
esclusa persino la ricorrenza di una attività ispirata al criterio di economicità
di gestione, funzionalmente diretta all’equilibrio tra costi e ricavi;
Contro questa
sentenza, il lavoratore aveva nuovamente proposto ricorso in Cassazione.
La Suprema
Corte, nel respingere le richieste del ricorrente, ha rilevato che, nel caso di
specie, la nuova sentenza di Appello avesse esaminato le circostanze rilevanti
ai fini della decisione, svolgendo un iter argomentativo esaustivo, coerente
con le emergenze istruttorie acquisite e immune da contraddizioni e vizi
logici.
Le
valutazioni svolte e le coerenti conclusioni che ne ha tratto la Corte
territoriale configurano, secondo la Cassazione, un’opzione interpretativa del materiale
probatorio del tutto ragionevole, che, quale espressione di una potestà propria
del giudice del merito, non può essere sindacata nel suo esercizio (2).
Per tali
motivi la Corte di legittimità ha confermato la pronuncia di Appello,
condannando il lavoratore alla rifusione delle spese, liquidate in 4.100,00 €,
di cui 4.000,00 € per compenso, oltre accessori come per legge.
Valerio
Pollastrini
(1) – Legge n.300 del 20 maggio 1970;
(2) - cfr, ex plurimis, Cass., nn. 14212/2010;
14911/2010;
Nessun commento:
Posta un commento