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venerdì 24 gennaio 2014

Organizzazioni di tendenza – Requisiti per l’esclusione della tutela reale in caso di licenziamento illegittimo

Nella sentenza n.797 del 16 gennaio 2014 la Cassazione ha confermato che, ai fini dell’applicabilità della speciale regola della deroga al regime generale della tutela reale di cui all’art.18 dello Statuto dei lavoratori (1) in favore delle associazioni di tendenza, non è sufficiente la riconducibilità del datore di lavoro ad una delle tipologie di organizzazioni  elencate dalla legge, ma è altresì necessaria la mancanza di scopo di lucro e di un’organizzazione imprenditoriale.

Nel caso di specie, al termine del primo grado di giudizio,  il Tribunale di Treviso aveva ritenuto illegittimo il licenziamento irrogato dalla Federazione Provinciale C. di Treviso ad un proprio dipendente ed aveva condannato il datore di lavoro alla riassunzione o, in mancanza, al risarcimento del danno nella misura di dieci mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

La Corte di Appello di Venezia, pronunciandosi sul gravame della lavoratrice, aveva escluso che il licenziamento fosse stato determinato da ragioni di natura discriminatoria o ritorsiva ed aveva, inoltre, negato al caso di specie l’applicabilità della tutela reale di cui all’art.18 dello Statuto dei lavoratori,  stante la natura di organizzazione di tendenza del datore di lavoro. Il Giudice di Appello aveva però ampliato la misura risarcitoria in seguito al licenziamento illegittimo, stimandola in quattordici mensilità.

La Corte di Cassazione , con sentenza n. 22873/2010, aveva però cassato la sentenza di merito ed aveva rinviato nuovamente la pronuncia alla Corte di Appello, rilevando che, per l’applicabilità della speciale regola della deroga al regime generale della tutela reale in favore delle associazioni di tendenza, non fosse sufficiente la riconducibilità del datore di lavoro ad una delle tipologie di organizzazioni di tendenza, ma fosse altresì necessario accertare la mancanza di scopo di lucro e di un’organizzazione imprenditoriale.

La Suprema Corte, inoltre, aveva chiarito che, a tale scopo, l’analisi non si sarebbe dovuta incentrare sull’identificazione dell’ imprenditore in senso stretto, assoggettato alla disciplina dell’impresa, ma avrebbe dovuto accertare se l’attività dell’associazione fosse organizzata a modo di impresa e, quindi, secondo un criterio di economicità.

Il datore di lavoro che invochi siffatta deroga, quindi, deve provare non solo di svolgere una delle attività c.d. di tendenza, ma anche che tale attività sia  esercitata senza fini di lucro e non secondo modalità organizzative ed economiche di tipo imprenditoriale.

Per la Corte di legittimità, dunque, la sentenza di Appello non era corretta in quanto, si era limitata ad  accertare la riconducibilità dell’attività svolta dalla Federazione ad una di quelle indicate dalla legge come organizzazioni di tendenza ed aveva posto a carico del lavoratore l’onere della prova degli altri requisiti concernenti l’assenza del fine di lucro e dell’esercizio dell’attività non a modo d’impresa per escluderne la deroga all’applicazione della tutela reale.

In seguito al rinvio disposto dalla Cassazione, la Corte di Appello di Trento aveva nuovamente  ritenuto inapplicabile al caso di specie l’art. 18 legge n. 300/70, confermando l’entità del  risarcimento dovuto all’illegittimità del recesso, disposto nel precedente giudizio di secondo grado.

In merito alle motivazioni della nuova decisione, la Corte territoriale aveva osservato quanto segue:

- la Suprema Corte non aveva messo in discussione la natura di organizzazione di tendenza della Federazione, quale accertata nei giudizi di merito, richiedendo tuttavia che fosse dimostrata, con onere incombente sulla parte datoriale, che la stessa avesse svolto la sua attività senza fini di lucro e senza un’organizzazione imprenditoriale;

- l’esame delle previsioni statutarie dell’organizzazione in oggetto aveva escluso la sussistenza dello scopo di lucro, posto che quest’ultimo avrebbe potuto incidere sulla natura  di tendenza solo qualora la produzione di ricchezza avesse assunto un rilievo tale da caratterizzare l’attività dell’organizzazione in senso speculativo, esorbitando dal mero obbiettivo del conseguimento di un assetto economico e gestionale che consentisse di assolvere in modo ottimale alla funzione istituzionale;

- l’accertamento della sussistenza o meno di un’attività imprenditoriale andava svolto considerando sia la natura dell’attività della dipendente, e cioè se la stessa fosse o meno “assolutamente neutra” rispetto agli scopi tipici della organizzazione di tendenza, sia il tipo di attività economica svolta dalla organizzazione di tendenza;

- nel caso di specie il raggiungimento dei fini istituzionali della Federazione passava attraverso un’attività concreta, non trattandosi di una organizzazione svolgente solo attività, ad esempio, di promozione culturale o scientifica; al pari dell’attività sindacale e di quella di assistenza fiscale, anche l’assistenza nelle pratiche UMA (svolgimento delle pratiche necessarie ad ottenere le agevolazioni nell’acquisto di gasolio) non costituiva attività ispirata a meri scopi speculativi o lucrativi, ma rientrava nel raggiungimento dei fini istituzionali, giusta quanto previsto dall’art. 2 dello Statuto, laddove all’azienda veniva attribuito il ruolo di “sostenere a livello provinciale lo sviluppo delle imprese e dell’attività agricola (...) contenimento dei costi di produzione all’accrescimento della competitività...”.

- sia le prove orali che la documentazione prodotte nel corso del primo grado di giudizio, avevano confermato che l’attività svolta dalla Federazione, con riferimento alle pratiche UMA, risultava svolta esclusivamente nei confronti degli associati o divenuti tali a seguito della richiesta di dette prestazioni, non essendo emerso in concreto che si fosse verificato il “raro caso”, previsto nell’ordine di servizio 10 ottobre 2000, di prestazione a favore di un non socio;

- risultava dunque provato che le prestazioni UMA non venivano svolte attraverso una struttura imprenditoriale, essendovi addetta, all’epoca dei fatti, la sola ricorrente nella sede di Conegliano ed essendo rivolte unicamente agli iscritti, senza ricerca del mantenimento del pareggio di bilancio, posto che le spese per lo svolgimento delle pratiche  non erano elevate (da lire 20.000 a un massimo di lire 70.000) e, come tali, volte solo alla copertura dei costi e non improntate, quindi, a criteri di economicità, nel senso pur ampio indicato dalla sentenza di rinvio;

- alla luce degli elementi in atti, la modestia delle somme richieste ai soci per il servizio UMA e l’assenza di una struttura imprenditoriale per quel particolare servizio, doveva presumersi un volume d’affari non consistente e ritenere esclusa persino la ricorrenza di una attività ispirata al criterio di economicità di gestione, funzionalmente diretta all’equilibrio tra costi e ricavi;

Contro questa sentenza, il lavoratore aveva nuovamente proposto ricorso in Cassazione.

La Suprema Corte, nel respingere le richieste del ricorrente, ha rilevato che, nel caso di specie, la nuova sentenza di Appello avesse esaminato le circostanze rilevanti ai fini della decisione, svolgendo un iter argomentativo esaustivo, coerente con le emergenze istruttorie acquisite e immune da contraddizioni e vizi logici.

Le valutazioni svolte e le coerenti conclusioni che ne ha tratto la Corte territoriale configurano, secondo la Cassazione,  un’opzione interpretativa del materiale probatorio del tutto ragionevole, che, quale espressione di una potestà propria del giudice del merito, non può essere sindacata nel suo esercizio (2).

Per tali motivi la Corte di legittimità ha confermato la pronuncia di Appello, condannando il lavoratore alla rifusione delle spese, liquidate in 4.100,00 €, di cui 4.000,00 € per compenso, oltre accessori come per legge.


Valerio Pollastrini

 

(1)   – Legge n.300 del 20 maggio 1970;

(2)    - cfr, ex plurimis, Cass., nn. 14212/2010; 14911/2010;

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