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martedì 28 gennaio 2014

Pubblico impiego: il lavoratore ha diritto a percepire una retribuzione corrispondente alle mansioni superiori eventualmente svolte di fatto

Con la sentenza n.796 del 16 gennaio 2014, la Corte di Cassazione ha stabilito che il diritto di un lavoratore alla superiore retribuzione per aver svolto mansioni superiori rispetto a quelle di inquadramento sussiste anche nel pubblico impiego, senza che sia necessario un provvedimento del superiore gerarchico che disponga l’assegnazione a tali mansioni.

Una dipendente della Asl n. X Basso Molise con qualifica di “infermiere generico” si era rivolta al Tribunale di Larino, sostenendo di avere lavorato presso l’U.O. dell’Ambulatorio di Cardiologia e di aver svolto, dal marzo 2002 al gennaio 2006, epoca del suo pensionamento, attività riconducibili al profilo di “infermiere professionale”.

Per tale ragione aveva richiesto la condanna della ASL a corrispondere in suo favore le differenze tra il trattamento economico percepito e quello spettante per lo svolgimento delle mansioni superiori.

Il Tribunale aveva però respinto la domanda del lavoratore, accogliendo invece le rimostranze  della ASL secondo cui la lavoratrice non aveva dimostrato l’esistenza di un provvedimento di assegnazione alle mansioni corrispondenti al superiore profilo professionale e ciò costituiva una ragione assorbente per escludere il diritto alle differenze economiche rivendicate.

Al termine del successivo giudizio di secondo grado, la Corte di Appello di Campobasso, dopo aver accertato l’effettivo svolgimento in modo ordinario e continuativo da parte della ricorrente di attività propria della qualifica di infermiere professionale, ne aveva accolto invece  le richieste, ritenendo irrilevante, a tale proposito, la mancanza di un formale atto di assegnazione.

La Asl n. X Basso Molise in liquidazione aveva quindi proposto ricorso per Cassazione, contestando ai   giudici di Appello di avere erroneamente interpretato ed applicato alla fattispecie i principi enunciati nella sentenza n. 25837 del 2007 delle Sezioni Unite.

Si tratta di una pronuncia che aveva riguardato l’esercizio di mansioni superiori conferite con atto illegittimo, ma non l’ipotesi, come nel caso di specie, di svolgimento di fatto di mansioni radicalmente prive di un provvedimento di conferimento.

A detta del datore di lavoro, per corrispondere alla lavoratrice la differenza di trattamento economico  vi sarebbe una imprescindibile relazione tra il diritto al trattamento economico per l’esercizio di mansioni superiori e l’attribuzione di queste mediante un provvedimento di assegnazione.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte ha, innanzitutto, ritenuto prive di fondamento la questione proposta in merito alla supposta  illegittima equiparazione tra mansioni svolte in forza di un provvedimento di conferimento e mansioni svolte in via di fatto.

Il D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 56, ora D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, recependo una costante norma del pubblico impiego, esclude che dallo svolgimento delle mansioni superiori possa conseguire l’automatica attribuzione della qualifica superiore ma, quanto  al divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori, la Corte Costituzionale ha stabilito  l’applicabilità anche nel pubblico impiego dell’art. 36 Cost., nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonché alla conseguente intenzione del legislatore di rimuovere con la disposizione correttiva una norma in contrasto con i principi costituzionali (1).

A proposito dell’interpretazione fornita dalle Sezioni Unite della Corte con la sentenza n. 25837 del 2007, essa deve invece essere intesa nel senso che l’impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori ha diritto, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale (2), ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost.

Si tratta di una  norma che, a detta della Suprema Corte, deve trovare integrale applicazione anche nel pubblico impiego privatizzato, sempre che le mansioni superiori assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che, in relazione all’attività spiegata, siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni (3).

Né la portata applicativa del principio è da intendere come limitata e circoscritta al solo caso in cui le mansioni superiori vengano svolte in esecuzione di un provvedimento di assegnazione, ancorché nullo; le Sezioni Unite (4), sulla base dei principi espressi dalla Corte Costituzionale, hanno rilevato come l’obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura della quantità del lavoro effettivamente prestato prescinda dalla eventuale irregolarità dell’atto o dall’assegnazione o meno dell’impiegato a mansioni superiori e come il mantenere, da parte della pubblica amministrazione, l’impiegato a mansioni superiori, oltre i limiti prefissati per legge, determini una mera illegalità, che però non priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto – ai sensi dell’art. 2126 c.c. e, tramite detta disposizione, dell’art. 36 Cost. – perché non può ravvisarsi nella violazione della mera legalità quella illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto “con norme fondamentali e generali e con i principi basilari pubblicistici dell’ordinamento”, e che, alla stregua della citata norma codicistica, porta alla negazione di ogni tutela del lavoratore (5).

La Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato l’applicabilità, anche al pubblico impiego, dell’art. 36 Cost. nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, non ostando a tale riconoscimento, a norma dell’art. 2126 c.c., l’eventuale illegittimità del provvedimento di assegnazione del dipendente a mansioni superiori rispetto a quelle della qualifica di appartenenza (6).

Per la Cassazione dunque, il diritto a percepire una retribuzione commisurata alle mansioni effettivamente svolte in ragione dei principi di rilievo costituzionale e di diritto comune non è dunque condizionato all’esistenza di un provvedimento del superiore gerarchico che disponga l’assegnazione.

Le uniche ipotesi in cui può essere disconosciuto il diritto alla retribuzione superiore dovrebbero essere circoscritte ai casi in cui l’espletamento di mansioni superiori sia avvenuto all’insaputa o contro la volontà dell’ente, oppure allorquando sia il frutto della fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente  (7).
Sempre la Corte costituzionale ha poi osservato (8) che il potere attribuito al dirigente preposto all’organizzazione del lavoro di trasferire temporaneamente un dipendente a mansioni superiori per esigenze straordinarie di servizio è un mezzo indispensabile per assicurare il buon andamento dell’amministrazione; la spettanza al lavoratore del trattamento retributivo corrispondente alle funzioni di fatto espletate è un precetto dell’art. 36 Cost., la cui applicabilità all’impiego pubblico non può essere messa in discussione (9).

L’astratta possibilità di abuso di tale potere e delle sue conseguenze economiche, nella forma di protrazioni illegittime dell’assegnazione a funzioni superiori, non è evidentemente un argomento che possa giustificare una restrizione dell’applicabilità del principio costituzionale di equivalenza della retribuzione al lavoro effettivamente prestato. Se fosse infatti dimostrato che nel caso concreto l’assegnazione del dipendente a mansioni superiori fosse avvenuta con abuso d’ufficio e con la “connivenza” del dipendente, lo stesso art. 2126 cod. civ. imporrebbe al giudice di respingere la pretesa di quest’ultimo.

La Cassazione segnala, inoltre, che, in un’altra pronuncia, vertente in un caso di assegnazione di fatto di un sanitario alle mansioni superiori in mancanza di un provvedimento formale di incarico, la Corte costituzionale (10)  ha escluso che la mancanza della condizione formale potesse ostacolare l’accoglimento della domanda, osservando che l’adibizione temporanea a mansioni superiori per esigenze di servizio non da diritto a variazioni di trattamento economico (cioè rientra nei doveri di ufficio del sanitario) “solo entro il limite temporale massimo ivi indicato (….), onde il suo prolungamento oltre tale limite produce al datore di lavoro un arricchimento ingiustificato, che alla stregua dell’art. 36 della Costituzione, direttamente applicabile, determina l’obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura corrispondente alla qualità del lavoro effettivamente prestato”, e che non può escludersi l’accoglimento della domanda per difetto di un provvedimento formale di assegnazione interinale alle mansioni inerenti al posto vacante, in quanto “la mancanza di questa condizione formale è supplita dal principio della prestazione di fatto di cui all’art. 2126 cod. civ., applicabile anche ai rapporti di pubblico impiego”. La prestazione ulteriore di lavoro in tali mansioni produce al datore un arricchimento senza causa, che alla stregua dell’art. 36, primo comma, Cost., direttamente applicabile, comporta l’obbligazione di adeguare il trattamento economico del dipendente alla natura del lavoro effettivamente prestato (11).

Per concludere, la Corte di Cassazione ha rilevato che, nel caso di specie, non ricorre alcuno dei presupposti che – alla stregua dei principi sopra esposti  – avrebbe potuto giustificare l’esclusione del diritto dell’attuale intimata alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato – e del correlativo obbligo dell’Amministrazione di integrare il trattamento economico della dipendente nella misura della quantità del lavoro effettivamente prestato.

Per i motivi sopra indicativa Corte di Cassazione ha respinto il ricorso della Asl n. X Basso Molise ed ha condannato l’azienda al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 4.000,00 € per compensi professionali ed in 100,00 € per esborsi, oltre  I.V.A. e C.P.A..

Valerio Pollastrini

 

(1)   - cfr, ex plurimis, Cass., nn. 91/2004, 18286/2006; 9130/2007; da ultimo, Cass. n. 12193 del 2011;
(2)    - tra le altre, sentenze n. 908 del 1988; n. 57 del 1989; n. 236 del 1992; n. 296 del 1990;
(3)    - v. pure Cass. n. 23741 del 17 settembre 2008 e molte altre successive; tra le più recenti, Cass. n. 4382 del 23 febbraio 2010;
(4)    - cfr. Cass. n. 27887 del 2009, che richiama Cass., Sez. Un., 11 dicembre 2007 n. 25837 cit;
(5)    - Corte Cost. 19 giugno 1990 n. 296 attinente ad una fattispecie riguardante il trattamento economico del personale del servizio sanitario nazionale in ipotesi di affidamento di mansioni superiori in violazione del disposto del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 29, comma 2;
(6)    - cfr. Corte Cost. sent n. 57/1989, n. 296/1990, n. 236/1992, n. 101/1995, n. 115/2003, n. 229/2003;
(7)    - cfr. Cass. n. 27887 del 2009;
(8)    - Corte Costituzionale, sentenza n. 101 del 1995;
(9)    - cfr. Corte Costituzionale,  sentenza n. 236 del 1992;
(10)                      – Corte Costituzionale, sent. n. 57 del 1989;
(11)                      – Corte cost. ord. n. 908 del 1988;

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