Nel caso di specie, la Corte d’Appello
di Perugia, in riforma della pronuncia
di primo grado, aveva dichiarato l’illegittimità dei contratti a tempo
determinato stipulati da una lavoratrice con l’Azienda Sanitaria Regione Umbria
USL n. 4, condannando quest’ultima, a titolo risarcitorio, al pagamento in
favore della predetta dipendente di dieci mensilità di retribuzione, oltre
accessori di legge.
Per la Corte di merito l’Azienda anzidetta,
stipulando in successione quattro contratti a termine, a decorrere dal 1°
settembre 1999 e sino al 3 novembre 2000, aveva violato la legge 230/62, art.
2, comma 2, applicabile ratione temporis.
A tale violazione, tuttavia, non
poteva conseguire la conversione in
rapporto a tempo indeterminato, in quanto espressamente vietata nel pubblico
impiego dall’art. 36 d. lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, come sostituito dall'art.
22 d. lgs. 31 marzo 1998 n. 80 (ora art. 36 D.lgs. n. 165/01), la cui disciplina
non era stata abrogata dal D.lgs. 368/01, art. 11.
La dipendente aveva viceversa diritto al
risarcimento del danno, che poteva ragionevolmente identificarsi nel tempo
verosimilmente necessario per trovare un nuovo lavoro, stimato dieci mensilità.
Per la cassazione di questa sentenza
aveva proposto ricorso l’Azienda USL, denunciando che la Corte territoriale avesse contraddittoriamente
affermato, da un lato, che all’epoca dei fatti non fosse scaduto il termine
fissato allo Stato italiano per dare attuazione alla direttiva comunitaria n.
70 del 28 giugno 1999, che prescrive la conversione in rapporto a tempo
indeterminato nell’ipotesi di contratti a termine stipulati in violazione di
legge; dall’altro che la normativa interna avrebbe già dato attuazione alla
normativa comunitaria in questione.
La Cassazione ha però disconosciuto il
rilievo datoriale, in quanto ha ritenuto che
la Corte di merito, nel rilevare che
all’epoca dei fatti non fosse applicabile la direttiva comunitaria richiamata
dall’allora appellante lavoratrice per non essere ancora scaduto il termine
concesso allo Stato italiano per adeguarsi alla stessa, aveva aggiunto che, in
ogni caso, la direttiva fosse stata superata dalla sentenza 7 settembre 2006
emessa dalla Corte di Giustizia Europea, la quale aveva affermato che non può
ritenersi in contrasto con la direttiva stessa una normativa nazionale che
escluda la conversione in contratto a tempo indeterminato nel settore del
pubblico impiego, purché tale normativa contenga un’altra misura effettiva
destinata ad evitare e, del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una
successione di contratti a tempo determinato da parte di un datore di lavoro
rientrante in detto settore.
L’azienda aveva inoltre denunziato violazione
e falsa applicazione del D.lgs. 31 marzo 1998 n. 80, art. 22, che ha sostituito
l’art. 36 D.lgs. n. 29 del 1993.
Rilevava in proposito che il predetto
art. 22, comma 8, nel disporre che in ogni caso, la violazione di disposizioni
imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle
pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di
lavoro a tempo indeterminato, ferma restando ogni responsabilità e sanzione, e
che il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante
dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizione imperative, riconosce
al lavoratore solo il risarcimento del danno derivante dalla prestazione di
lavoro. La stessa aggiunge però che tra i danni non è assolutamente compreso
quanto spettante non già per l’aver lavorato, ma piuttosto, e come si pretende ex
adverso, per il non aver lavorato per
il tempo successivo alla scadenza del rapporto di lavoro a termine.
Peraltro il contratto a termine nullo,
sempre nella tesi datoriale, produrrebbe unicamente gli effetti di cui all’art.
2126 cod. civ., il quale, nel disporre che la nullità o l'annullamento del
contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha
avuto esecuzione, salvo che la nullità non derivi dall’illiceità dell’oggetto o
della causa, prevede che se il lavoro è prestato con violazione di norme poste
a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla sola
retribuzione.
Anche tale motivo di doglianza è stato
ritenuto privo di fondamento dalla Suprema Corte che ha ricordato come la
funzione dell’art. 2126 cod. civ. è quella di assicurare la retribuzione al
lavoratore anche in caso di conclusione di un contratto invalido. Gli effetti
peraltro, sono limitati alla prestazione già eseguita e non anche al periodo
successivo alla dichiarazione di nullità o alla pronuncia di annullamento.
Nelle ipotesi di assunzioni a termine nel pubblico impiego
privatizzato, invece, l’art. 36, comma 8, d. lgs. n. 80 del 1998, applicabile
ratione temporis alla fattispecie in esame, successivamente riprodotto negli
stessi termini dall’art. 36, comma 5, d. lgs. n. 165 del 2001, nel disporre che
la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego
di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la
costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, riconosce al
lavoratore interessato il diritto al risarcimento del danno derivante dalla
prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative.
In forza di tale disposizione la Corte
territoriale aveva correttamente attribuito alla lavoratrice il risarcimento
del danno nella misura di dieci mensilità di retribuzione, ritenendo che tale
misura fosse adeguata a compensare la ricorrente dell’ingiustizia patita e non
mancando peraltro di richiamare la sentenza della Corte di Giustizia Europa del
7 settembre 2006, secondo cui la direttiva n. 70 del 1999 non osta ad una
normativa nazionale che escluda la conversione in contratto a tempo
indeterminato nel settore del pubblico impiego, purché tale normativa contenga
un’altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, a sanzionare un
utilizzo abusivo ad una successione di contratti a tempo determinato da parte
di un datore di lavoro rientrante in tale settore.
In sostanza la Corte di merito aveva
correttamente applicato il principio secondo cui il lavoratore che sia stato
assunto illegittimamente, ha diritto ad essere risarcito per effetto della
violazione delle norme imperative in materia.
Si tratta, tra l’altro di un principio
affermato recentemente anche dalla Corte di legittimità (1) che, nell'escludere in caso di
violazione di dette norme la conversione in contratto a tempo indeterminato in
base alla disciplina di cui all’art. 36 d. lgs. n. 165 del 2001 (analoga a
quella di cui all’art. 36, comma 8, d. lgs. n. 80/98), ha affermato che tale
disposizione introduce un proprio e specifico regime sanzionatorio con una
accentuata responsabilizzazione del dirigente pubblico e il riconoscimento del
diritto al risarcimento dei danni subiti dal lavoratore e, pertanto è speciale
ed alternativa rispetto alla disciplina di cui all'art. 5 del d.lgs. n. 368 del
2001, ma pur sempre adeguata alla direttiva 1999/70/CE, in quanto idonea a
prevenire e sanzionare l'utilizzo abusivo dei contratti a termine da parte
della pubblica amministrazione.
Per i motivi sopra esposti, la Corte di
Cassazione ha dunque rigettato il ricorso proposto dall’Azienda Sanitaria
Regione Umbria USL n. 4, condannandola al pagamento delle spese del giudizio di
legittimità, liquidate in 100,00 € per esborsi e 5.000,00 € per compensi
professionali, oltre accessori di legge.
Valerio Pollastrini
(1)
- cfr. Cass. 13 gennaio 2012 n. 392;
Cass. 15 giugno 2010 n. 14350;
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