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giovedì 24 gennaio 2013

Violazioni in materia di apprendistato

Trasmettiamo integralmente la circolare n.5/2013 con la quale il MInistero del lavoro e delle politiche sociali ha voluto fornire alcune indicazioni operative relative alle violazioni in materia di apprensistato.


Oggetto: L.n.92/2012 - violazioni in materia di apprendistato - indicazioni operative per il personale ispettivo

La L. n. 92/2012 è intervenuta a modificare anche la disciplina dell’apprendistato, contenuta nel recente D.Lgs. n. 167/2011. Si tratta, da un lato, di interventi che interessano trasversalmente tutte le tipologie di apprendistato disciplinate dal Decreto (per la qualifica e per il diploma professionale, professionalizzante o contratto di mestiere, di alta formazione e ricerca) e, dall’altro, di interventi legati alla specifica disciplina del contratto di apprendistato professionalizzante.
In relazione sia alle “vecchie” che alle “nuove” disposizioni appare necessario fornire indicazioni di carattere operativo al personale ispettivo, al fine di una corretta applicazione delle sanzioni contenute nell’art. 7, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 167/2011, declinando altresì una casistica esemplificativa delle violazioni più ricorrenti.
Va infatti sin da subito evidenziato che il D.Lgs. n. 167/2011 prevede, in relazione a ciascuna tipologia di apprendistato ed in osservanza dell’art. 117 Cost., un riparto di competenze fra Stato e Regioni sensibilmente diverso quanto a profili formativi, il che determina una specifica responsabilità in ordine alla attivazione della stessa formazione.
Da ciò deriva che anche l’attività di vigilanza debba necessariamente diversificarsi in relazione alla tipologia di apprendistato posta in essere, tenendo in debito conto che l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale nonché quello di alta formazione e ricerca richiedono un intervento da parte delle Regioni talvolta indispensabile ai fini di un corretto adempimento degli obblighi formativi.
1. Obblighi formativi e accertamento delle violazioni
Relativamente agli aspetti sanzionatori il Legislatore stabilisce anzitutto, all’art. 7, comma 1, del D.Lgs. n. 167/2011, che “in caso di inadempimento nella erogazione della formazione di cui sia esclusivamente responsabile il datore di lavoro e che sia tale da impedire la realizzazione delle finalità di cui agli articoli 3, 4 e 5, il datore di lavoro è tenuto a versare la differenza tra la contribuzione versata e quella dovuta con riferimento al livello di inquadramento contrattuale superiore che sarebbe stato raggiunto dal lavoratore al termine del periodo di apprendistato, maggiorata del 100 per cento, con esclusione di qualsiasi altra sanzione per omessa contribuzione”.
La disposizione evidenzia, così come già avveniva con l’art. 53 del D.Lgs. n. 276/2003, il duplice requisito della esclusiva responsabilità del datore di lavoro e della gravità della violazione, tale da impedire il raggiungimento dell’obiettivo formativo.
Rispetto a ciascuna tipologia di apprendistato occorre dunque mettere in evidenza quali siano i “margini” della responsabilità datoriale in ordini agli obblighi formativi, in quanto solo rispetto a tali “margini” è possibile un intervento ispettivo volto a ripristinare un corretto svolgimento del rapporto di apprendistato ovvero l’applicazione del regime sanzionatorio indicato.
1.2 Apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale
Come già chiarito con circ. n. 29/2011, in caso di apprendistato per la qualifica o per il diploma professionale la responsabilità del datore di lavoro si configura nell’ipotesi in cui lo stesso non consenta al lavoratore di seguire i percorsi formativi esterni all’azienda previsti dalla regolamentazione regionale e/o non effettui quella parte di formazione interna eventualmente prevista dalla stessa regolamentazione regionale.
Ciò presuppone tuttavia che i percorsi formativi esterni all’azienda, oltre ad essere stati disciplinati, siano stati anche di fatto “attivati”.
In assenza della loro attivazione il datore di lavoro non potrà infatti essere ritenuto “esclusivamente” responsabile dell’obbligo formativo in questione, con la conseguente inapplicabilità della disposizione sanzionatoria di cui al citato art. 7, comma 1, del D.Lgs. n. 167/2011.
In tali casi resterebbero in capo al datore di lavoro gli eventuali adempimenti di carattere amministrativo previsti dalla Regione ai fini del coinvolgimento dell’apprendista nei percorsi formativi.
Qualora, viceversa, i percorsi formativi siano stati attivati e il datore di lavoro non abbia posto in essere i citati adempimenti di carattere amministrativo, il personale ispettivo sarà tenuto ad applicare la procedura sanzionatoria di cui all’art. 7, comma 1, del D.Lgs. n. 167/2011 provvedendo, laddove possibile, alla emanazione di una disposizione.
Occorre ancora precisare che l’eventuale attivazione dei percorsi formativi regionali solo dopo l’avvio del rapporto di apprendistato (ad esempio dopo un anno dall’inizio del rapporto) non comporterà automaticamente un obbligo di “recupero”, in capo al datore di lavoro, di tutta la formazione non effettuata nel periodo antecedente, ferma restando la possibilità, da parte delle Regioni, di disciplinare specificatamente gli obblighi formativi concernenti i rapporti di apprendistato già avviati.

1.3 Apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere
In relazione al contratto di apprendistato professionalizzante le responsabilità legate al corretto adempimento degli obblighi formativi vanno inquadrate diversamente a seconda che si tratti di formazione trasversale o di formazione di tipo professionalizzante o di mestiere.
Per quanto concerne la formazione trasversale, poiché quest’ultima è disciplinata e gestita dalle Regioni, è possibile rinviare a quanto già chiarito in relazione al contratto di apprendistato per la qualifica o il diploma professionale. Al riguardo è solo possibile precisare che:
- laddove la Regione decida di rendere facoltativa tale formazione, in assenza della configurabilità di un vero e proprio obbligo, in caso di mancata formazione non è possibile l’adozione di un provvedimento di carattere sanzionatorio e quindi della disposizione;
- laddove il contratto collettivo di riferimento scelga di rimettere al datore di lavoro l’obbligo di erogare anche la formazione trasversale, nelle more dell’intervento della Regione, non potrà non ravvisarsi un corrispondente “ampliamento” delle responsabilità datoriali e pertanto dei connessi poteri sanzionatori in capo al personale ispettivo.
Quanto alla formazione di tipo professionalizzante o di mestiere è sufficiente ribadire quanto già chiarito con circ. n. 29/2011, secondo cui la responsabilità del datore di lavoro si potrà configurare nell’ipotesi in cui lo stesso non effettui la formazione interna in termini di “quantità”, contenuti e modalità previsti dal contratto collettivo e declinati nel piano formativo individuale.
1.4 Apprendistato di alta formazione e ricerca
Quanto all’apprendistato di alta formazione e ricerca, l’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 167/2011 stabilisce anzitutto che “la regolamentazione e la durata del periodo di apprendistato (…) è rimessa alle Regioni, per i soli profili che attengono alla formazione, in accordo con le associazioni territoriali dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, le università, gli istituti tecnici e professionali e altre istituzioni formative o di ricerca comprese quelle in possesso di riconoscimento istituzionale di rilevanza nazionale o regionale e aventi come oggetto la promozione delle attività imprenditoriali, del lavoro, della formazione, della innovazione e del trasferimento tecnologico”.
In tale ipotesi è possibile dunque rinviare alle medesime considerazioni svolte in relazione al contratto di apprendistato per la qualifica o per il diploma professionale. È cioè possibile adottare provvedimenti di carattere sanzionatorio - previa disposizione, ove possibile - solo laddove, una volta disciplinati ed attivati i percorsi formativi, il datore di lavoro non ponga in essere tutti quegli
adempimenti di carattere amministrativo volti a consentire il corretto svolgimento del percorso formativo.
Il comma 3 del citato art. 5 stabilisce tuttavia che “in assenza di regolamentazioni regionali l’attivazione dell’apprendistato di alta formazione o ricerca è rimessa ad apposite convenzioni stipulate dai singoli datori di lavoro o dalle loro associazioni con le Università, gli istituti tecnici e professionali e le istituzioni formative o di ricerca di cui al comma che precede” (trattasi di “istituzioni formative o di ricerca comprese quelle in possesso di riconoscimento istituzionale di rilevanza nazionale o regionale e aventi come oggetto la promozione delle attività imprenditoriali, del lavoro, della formazione, della innovazione e del trasferimento tecnologico”).
In tali ipotesi il personale ispettivo avrà come unico parametro di riferimento, ai fini della individuazione responsabilità datoriali, le citate convenzioni, rispetto alle quali occorrerà distinguere:
- da un lato la formazione esterna, rispetto alla quale il datore di lavoro rimane responsabile nei limiti di cui si è già detto in relazione alle precedenti tipologie di apprendistato;
- dall’altro la “quantità”, i contenuti e le modalità della formazione interna, rispetto alla quale il personale ispettivo deve operare analogamente a quanto avviene in relazione agli accertamenti sullo svolgimento della formazione in apprendistato professionalizzante o di mestiere.
2. Obblighi formativi e sanzioni
L’inadempimento formativo “di cui sia esclusivamente responsabile il datore di lavoro,
qualora recuperabile, deve essere oggetto di disposizione, così come prevede l’art. 7, comma 1, del D.Lgs. n. 167/2011. Solo laddove non sia possibile recuperare il “debito formativo”, così come chiarito con circ. n. 29/2011, sarà dunque applicabile la sanzione prevista dallo stesso art. 7.
Sul punto va ricordato che le eventuali violazioni legate alla mancata formazione dell’apprendista sono di esclusiva competenza del personale ispettivo di questo Ministero; ciò sia in ragione della previsione che richiede l’utilizzo della disposizione al fine di ripristinare un corretto svolgimento del rapporto - potere notoriamente assegnato ai soli ispettori del lavoro ai sensi dell’art. 10 del D.P.R. n. 520/1955 e dell’art. 14 del D.Lgs. n. 124/2004 - sia in quanto solo con riferimento alle violazioni amministrative di cui all’art. 7, comma 2, del D.Lgs. n. 167/2011 è prevista esplicitamente una competenza anche del personale ispettivo degli Istituti.
Occorre poi chiarire che la formazione di cui si tratta è la c.d. formazione formale. Sul punto può richiamarsi la corrispondente nozione di “apprendimento formale” di cui all’art. 4, comma 52, della L. n. 92/2012 nonché di cui al Decreto interministeriale del 26 settembre 2012 di recepimento dell’accordo del 19 aprile 2012 sancito in sede di Conferenza permanente fra Stato, Regioni e P.A. di Trento e Bolzano “per la definizione di un sistema nazionale di certificazione delle competenze comunque acquisite in apprendistato a norma dell’art. 6 del D.Lgs. n. 167/2011”. In tale occasione
è stato infatti stabilito che per apprendimento formale si intende: l’“apprendimento erogato in un contesto organizzativo e strutturato appositamente progettato come tale, in termini di obiettivi di apprendimento e tempi o risorse per l’apprendimento. L’apprendimento formale è intenzionale dal punto di vista del discente. Di norma si conclude in una convalida e in una certificazione”.
Ai fini delle verifiche in questione il personale ispettivo dovrà pertanto considerare la “quantità”, i contenuti e le modalità della formazione formale individuata come tale dalla contrattazione collettiva e declinata nel piano formativo individuale provvedendo sia a verificare la documentazione che “certifica” la formazione svolta, sia ad acquisire le dichiarazioni del lavoratore interessato e di altri soggetti in grado di confermare l’effettività di tale formazione.
Ciò premesso, l’emanazione della disposizione dovrà tener conto della possibilità di recuperare il debito formativo, il che appare proporzionalmente più difficile in relazione all’approssimarsi della scadenza del periodo formativo inizialmente individuato.
Al fine di uniformare il comportamento ispettivo è dunque possibile fornire le seguenti indicazioni, sinteticamente esposte nella tabella che segue, circa la possibilità di emanare il provvedimento di disposizione ovvero direttamente la sanzione di cui all’art. 7, comma 1, del D.Lgs. n. 167/2011.
Al riguardo si rappresenta che, nei casi di più complessa valutazione, si ritiene opportuno procedere alla emanazione della disposizione, sia al fine di consentire pur sempre una possibilità di recupero del debito formativo sia in quanto, in assenza di tale recupero, sarà applicabile comunque la sanzione di cui al citato art. 7 nonché la sanzione amministrativa di cui all’art. 11 del D:P.R. n. 520/1955.
In ogni caso la disposizione potrà/non potrà essere emanata nelle ipotesi che seguono:

durata del periodo formativo pari a 3 anni
Accertamento durante il primo
anno di apprendistato
Accertamento durante il
secondo anno di apprendistato
Accertamento durante il terzo
anno di apprendistato
La disposizione va sempre
emanata
La disposizione non è emanata in
caso di formazione formale
effettuata meno del 40% di quella
prevista sommando le ore
richieste nel PFI nel primo anno +
la “quota parte” delle ore previste
nel secondo anno
La disposizione non è emanata in
caso di formazione formale
effettuata meno del 60% di quella
prevista sommando le ore
richieste nel PFI nel primo e nel
secondo anno + la “quota parte”
delle ore previste nel terzo anno
A titolo esemplificativo
Ipotesi: contratto di apprendistato professionalizzante che prevede un periodo formativo pari a 3 anni ed un monte ore di formazione formale tecnico-professionale e specialistica di 120+120+120 (tot. 360 ore).
- accertamento nel corso della metà del secondo anno di apprendistato, in un momento in cui l’apprendista avrebbe dovuto effettuare 120 ore di formazione (quella prevista per il primo anno) + 60 ore di formazione (quella prevista per la “quota parte” del secondo anno), per un totale di 180 ore. La formazione effettuata è tuttavia pari a 60 ore e cioè al 33% del totale della formazione dovuta. La disposizione non può essere emanata e si procede direttamente con la sanzione prevista dall’art. 7, comma 1, del D.Lgs. n. 167/2011;
- accertamento nel corso della metà del terzo anno di apprendistato, in un momento in cui l’apprendista avrebbe dovuto effettuare 120 ore di formazione (quella prevista per il primo anno) + 120 ore di formazione (quella prevista per il secondo anno) + 60 ore di formazione (quella prevista per la “quota parte” del terzo anno), per un totale di 300 ore. La formazione effettuata è tuttavia pari a 220 ore e cioè al 73% del totale della formazione dovuta. La disposizione deve essere emanata ai fini del recupero del debito formativo.

durata del periodo formativo pari a 5 anni
Accertamento
durante il primo
anno di
apprendistato
Accertamento
durante il secondo
anno di
apprendistato
Accertamento
durante il terzo
anno di
apprendistato
Accertamento
durante il quarto
anno di
apprendistato
Accertamento
durante il quinto
anno di
apprendistato
La disposizione va sempre emanata
La disposizione non è emanata in caso di formazione formale effettuata meno del 40% di quella prevista sommando le ore richieste nel PFI nel primo anno + la “quota parte” delle ore previste nel secondo anno
La disposizione
non è emanata in caso di formazione formale effettuata meno del 50% di quella prevista sommando le ore richieste nel PFI nel primo e nel secondo anno + la “quota parte” delle ore previste nel terzo anno
La disposizione
non è emanata in caso di formazione formale effettuata meno del 60% di quella prevista sommando le ore richieste nel PFI nel primo, nel secondo e nel terzo anno + la “quota parte” delle ore previste nel quarto
anno
La disposizione
non è emanata in caso di formazione formale effettuata meno del 70% di quella prevista sommando le ore richieste nel PFI nel primo, nel secondo, nel terzo e nel quarto anno +
la “quota parte” delle ore previste nel quinto anno
A titolo esemplificativo
Ipotesi: contratto di apprendistato professionalizzante che prevede un periodo formativo pari a 5 anni ed un monte ore di formazione formale tecnico-professionale e specialistica di 120+120+120+120+120 (tot. 600 ore).
- accertamento nel corso della metà del quarto anno di apprendistato, in un momento in cui l’apprendista avrebbe dovuto effettuare 120 ore di formazione (quella prevista per il primo anno) + 120 ore di formazione (quella prevista per il secondo anno) + 120 ore di formazione (quella prevista per il terzo anno) + 60 ore di formazione (quella prevista per la “quota parte” del quarto anno), per un totale di 420 ore. La formazione effettuata è tuttavia pari a 350 ore e cioè al 83% del totale della formazione dovuta. La disposizione deve essere emanata ai fini del recupero del debito formativo.

Sanzioni amministrative
In caso di applicazione della sanzione di cui all’art. 7, comma 1, del D.Lgs. n. 167/2011 il personale ispettivo, oltre ad effettuare le relative comunicazioni all’Istituto, adotterà le consuete sanzioni amministrative legate al “disconoscimento” del rapporto di apprendistato ed alla sua riconduzione a quella che costituisce “la forma comune di rapporto di lavoro”.
Va infatti precisato che, sebbene l’apprendistato rappresenti già un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, il suo “disconoscimento” determina importanti conseguenze quantomeno sotto il profilo del computo del lavoratore nell’ambito dell’organico aziendale.
Pertanto, la violazione degli adempimenti amministrativi (quantomeno di quello relativo alla comunicazione al Centro per l’impiego e della consegna di una sua copia al lavoratore) non può non rilevare sotto il profilo sanzionatorio.
3. Presenza del tutor o referente aziendale
Appare opportuno chiarire l’ipotesi in cui il datore di lavoro, nonostante espresse previsioni del contratto collettivo, non individui o non disponga l’affiancamento di un tutor o referente aziendale all’apprendista.
Sul punto si premette che l’affiancamento della figura del referente aziendale accanto a quella del tutor rappresenta una “formalizzazione” di terminologie già adoperate dalla contrattazione collettiva (v. ad es. l’accordo fra Confcommercio FILCAMS-CGIL, FISASCATCISL e UILTUCS-UIL del 23 settembre 2009) senza che da ciò possano derivare conseguenze sul piano delle attività rimesse a tali soggetti.
La disciplina in materia è infatti demandata esclusivamente alla contrattazione collettiva ai sensi dell’art. 2, comma 1 lett. d), del D.Lgs. n. 167/2011, ferma restando la possibilità di prevedere analoghe disposizioni da parte delle Regioni in relazione al corretto adempimento degli obblighi formativi di loro competenza (ad es., per l’apprendistato professionalizzante, le 120 triennali di formazione “esterna”).
In linea di principio, pertanto, il tutor o referente aziendale comunque esso venga definito e in ragione della capacità di autodeterminazione delle parti sociali prevista dal Legislatore, deve essere in possesso esclusivamente dei requisiti individuati dalla contrattazione collettiva, essendo sostanzialmente abrogato il D.M. 28 febbraio 2000.
Allo stesso tutor le parti sociali possono inoltre assegnare compiti assolutamente diversificati, che vanno dall’insegnamento delle materie oggetto di formazione interna a quello della semplice “supervisione” circa il corretto svolgimento della formazione. Talvolta il tutor svolge pertanto delle funzioni esclusivamente di “controllo” della corretta effettuazione della formazione e/o di “raccordo” tra apprendista e soggetto formatore.
Ciò premesso non può certamente sostenersi che violazioni della disciplina in materia di “presenza di un tutore o referente aziendale” determinino automaticamente l’applicazione del regime sanzionatorio di cui all’art. 7, comma 1, del D.Lgs. n. 167/2011 per mancata formazione dell’apprendista.
In tali ipotesi occorre infatti evidenziare:
- in primo luogo se la formazione è stata comunque effettuata secondo “quantità”, contenuti
e modalità previste dal contratto collettivo e
- in secondo luogo, quale sia il ruolo assegnato al tutor dallo stesso contratto. Cosicché, qualora il tutor svolga un ruolo esclusivamente di “controllo”, la sua assenza non potrà mai comportare una mancata formazione. In tal caso, pertanto, il personale ispettivo dovrà comunque esplicitare e documentare le carenze formative derivanti dall’assenza del tutor che si riverberano sul mancato raggiungimento degli obiettivi formativi.

Analoghe conclusioni possono aversi nell’ipotesi in cui il tutor individuato dal datore di lavoro sia privo dei requisiti richiesti dalla contrattazione collettiva.
Eventuali violazioni in materia saranno dunque sanzionabili esclusivamente ai sensi dell’art. 7, comma 2, del D.Lgs. n. 167/2011, con sanzione amministrativa pecuniaria da € 100 a € 600 diffidabile ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. n. 124/2004 (in caso di recidiva la sanzione varia da € 300 a € 1.500).

4. Limiti numerici di assunzione di personale apprendista
L’art. 1, comma 16 lett. c), della L. n. 92/2012 sostituisce il comma 3 dell’art. 2 del D.Lgs. n. 167/2011, introducendo una disciplina in parte nuova in relazione ai limiti numerici di assunzione di apprendisti.
Secondo la riforma, il numero complessivo di apprendisti che un datore di lavoro può assumere, direttamente o indirettamente per il tramite delle agenzie di somministrazione di lavoro ai
sensi dell’articolo 20 del D.Lgs. n. 276/2003, “non può superare il rapporto di 3 a 2 rispetto alle maestranze specializzate e qualificate in servizio presso il medesimo datore di lavoro”.
A titolo esemplificativo, pertanto, qualora il datore di lavoro possa disporre, ad esempio, di 10 lavoratori specializzati o qualificati, il numero di apprendisti da poter impiegare sarà pari a 15. In sostanza ogni 2 lavoratori specializzati o qualificati è dunque possibile assumere 3 apprendisti (10/2x3=15).
Si tratta dunque di un incentivo all’utilizzo di tale tipologia contrattuale ma che trova applicazione esclusivamente per le imprese di medie o grandi dimensioni - dalle 10 unità in poi - e solo a partire dal 1° gennaio 2013. Resta infatti confermato, “per i datori di lavoro che occupano un numero di lavoratori inferiore a dieci unità”, il precedente rapporto del 100% fra maestranze specializzate e qualificate e apprendisti.
Resta altresì confermata la disposizione secondo cui:
- il datore di lavoro che non abbia alle proprie dipendenze lavoratori qualificati o specializzati, o che comunque ne abbia in numero inferiore a 3, può assumere apprendisti in numero non superiore a 3;
- la speciale disciplina prevista per le imprese artigiane dall’art. 4 della L. n. 443/1985.

Sul punto appare opportuno ricordare che questo Ministero, con risposta ad interpello n. 11/2010, ha fornito una interpretazione della disciplina sui limiti numerici già prevista dal D.Lgs. n. 276/2003, seguendo principi che possono ritenersi applicabili anche in relazione al nuovo apprendistato.
In particolare è stato precisato che detto limite (“100 per cento delle maestranze specializzate e qualificate”) “è evidentemente legato alla necessità di garantire una adeguata formazione e affiancamento del lavoratore” e pertanto è possibile il “computo di lavoratori comunque rientranti nella medesima realtà imprenditoriale, anche se operanti in unità produttive o sedi diverse da quelle in cui opera l’apprendista”.
Sulla base di tali premesse appare altresì corretto considerare quali “maestranze specializzate e qualificate”, ai fini dell’individuazione dei limiti numerici, anche i soci o i coadiuvanti familiari che prestano attività lavorativa con carattere di continuità e abitualità, sempreché siano in possesso di adeguate competenze. Al fine di accertare il possesso di tali competenze é sufficiente verificare in via alternativa che tale personale:
- abbia i requisiti richiesti per rivestire la qualità di tutor o referente aziendale;
- sia in possesso di una qualifica o specializzazione attribuita da un datore di lavoro in forza di precedente rapporto di lavoro subordinato in applicazione di un contratto collettivo.

Ciò premesso, qualora il personale ispettivo riscontri una violazione dei citati limiti numerici provvederà a ricondurre le assunzioni effettuate in violazione degli stessi limiti a dei “normali” rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
La “trasformazione” dei rapporti tuttavia, atteso che il contratto di apprendistato è già un contratto di natura subordinata a tempo indeterminato, operativamente darà luogo ad azioni di recupero contributivo (senza tuttavia applicazione della sanzione di cui all’art. 7, comma 1, del D.Lgs. n. 167/2011 ricollegabile esclusivamente ad un inadempimento sul piano formativo) e alla impossibilità, da parte del datore di lavoro, di recedere dal rapporto senza giusta causa o giustificato motivo al termine del periodo formativo ai sensi dell’art. 2, comma 1 lett. l), del D.Lgs. n. 167/2011, ferma restando l’applicazione delle “consuete” sanzioni di carattere amministrativo.
Va ulteriormente chiarito che l’eventuale violazione di limiti numerici introdotti dalla contrattazione collettiva ma che non si concretizzino nella violazione dei limiti legali, non potrà avere effetti sul piano pubblicistico, dando luogo ad una “trasformazione” dei relativi rapporti di lavoro. Tali clausole limitatrici, avendo valenza esclusivamente “obbligatoria”, potranno infatti determinare effetti esclusivamente sul piano della violazione contrattuale per le aziende iscritte alle
organizzazioni firmatarie del relativo contratto collettivo.
5. Apprendistato e pregresse esperienze lavorative
In relazione a ciascuna tipologia di apprendistato il Legislatore individua particolari requisiti di carattere “anagrafico” in capo al lavoratore ovvero, come si è detto, particolari requisiti “numerici” e di “stabilizzazione” in capo dal datore di lavoro.
Un problematica particolarmente delicata, concernente i requisiti del lavoratore apprendista, attiene anche alla “qualificazione” dello stesso che, ovviamente non deve essere già posseduta all’atto dell’instaurazione del rapporto.
In tal caso, infatti, il contratto di apprendistato sarebbe nullo per l’impossibilità di formare il lavoratore rispetto a competenze di cui è già in possesso.
Va tuttavia chiarito che un rapporto di lavoro preesistente di durata limitata, anche di apprendistato, non pregiudica la possibilità di instaurare un successivo rapporto formativo.
Sul punto, in mancanza di esplicite previsioni normative o contrattuali, si ritiene infatti possibile richiamare i principi già espressi con risposta ad interpello n. 8/2007, anche se riferiti al precedente quadro regolatorio.
In particolare, come chiarito in tale sede, occorre valutare se nell’ambito del piano formativo individuale sia ravvisabile un percorso di natura addestrativa di carattere teorico e pratico volto ad un arricchimento complessivo delle competenze di base trasversali e tecnico professionali del lavoratore. Nell’ambito della valutazione rileva peraltro anche la durata del rapporto di lavoro precedentemente intercorso con il datore di lavoro, in quanto tale elemento incide inevitabilmente sul bagaglio complessivo delle competenze già acquisite dal lavoratore. A mero titolo orientativo, non sembra ritenersi ammissibile la stipula di un contratto di apprendistato da parte di un lavoratore che abbia già svolto un periodo di lavoro, continuativo o frazionato, in mansioni corrispondenti alla
stessa qualifica oggetto del contratto formativo, per un durata superiore alla metà di quella prevista dalla contrattazione collettiva; tale conclusione è dettata dalla necessità che il precedente rapporto di lavoro, sotto il profilo dell’acquisizione delle esperienze e delle competenze professionali, non abbia a prevalere sull’instaurando rapporto di apprendistato.

6. Apprendistato e “disconoscimento” del rapporto: benefici “normativi”
In tutte le ipotesi in cui il rapporto di apprendistato venga “disconosciuto”, sia per violazione degli obblighi di carattere formativo, che per assenza dei presupposti di instaurazione del rapporto stesso (ad es. violazione limiti numerici, violazione degli oneri di stabilizzazione, assenza requisiti anagrafici ecc.), il lavoratore è considerato un “normale” lavoratore subordinato a tempo indeterminato.
In tale ipotesi vengono meno anche i benefici di carattere “normativo” già concessi in relazione al rapporto di apprendistato tra i quali, oltre al “non computo” del lavoratore nell’organico aziendale (art. 7, comma 3, D.Lgs. n. 167/2011), anche il “sottoinquadramento” dello stesso o la “percentualizzazione” della retribuzione.
Tali benefici sono infatti “intimamente” connessi allo status di apprendista e decadono automaticamente nel momento in cui il rapporto di lavoro venga “disconosciuto”, in quanto vengono meno le caratteristiche essenziali della tipologia contrattuale.
Premesso quanto sopra, per quanto attiene ai profili retributivi, il personale ispettivo provvederà ad adottare il provvedimento di diffida accertativa in relazione al “differenziale” derivante dal diverso inquadramento contrattuale del lavoratore.

7. Apprendistato e somministrazione di lavoro
Nell’ambito del riformulato art. 2, comma 3, del D.Lgs. n. 167/2011 il Legislatore chiarisce anche i limiti di utilizzabilità del contratto di apprendistato attraverso lo strumento della somministrazione di lavoro.
Ferma restando la possibilità di ricorrere a personale apprendista fornito da una agenzia di somministrazione - si prevede infatti che il datore di lavoro può assumere un dato numero di apprendisti direttamente o “indirettamente per il tramite delle agenzie di somministrazione di lavoro ai sensi dell’articolo 20 del D.Lgs. n. 276/2003” - si chiarisce ora che “è in ogni caso esclusa la possibilità di assumere in somministrazione apprendisti con contratto di somministrazione a tempo determinato di cui all’articolo 20, comma 4, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276”.
In sostanza, le agenzie di somministrazione potranno fornire lavoratori assunti con contratto di apprendistato solo in forza di una somministrazione a tempo indeterminato (c.d. staff leasing).
Ciò determinerà l’inapplicabilità di quelle disposizioni contrattuali che, nelle more della approvazione della riforma, hanno introdotto una disciplina in parte diversa (si veda l’art. 7, commi 4 e 5, del contratto collettivo sottoscritto il 5 aprile 2012 da Assolavoro, Felsa CISL e Uil Tem.p).
Anche in relazione a tale disposizione il Legislatore prevede che la stessa trovi applicazione “esclusivamente con riferimento alle assunzioni con decorrenza dal 1° gennaio 2013”.

8. Onere di stabilizzazione
Secondo la L. n. 92/2012, che ha introdotto il nuovo art. 2, comma 3 bis, del D.Lgs. n. 167/2011, con esclusivo riferimento ai datori di lavoro che occupano almeno 10 dipendenti, “l’assunzione di nuovi apprendisti è subordinata alla prosecuzione del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, nei 36 mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 50% degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro”.
Per i primi 36 mesi dall’entrata in vigore della L. n. 92/2012 tale percentuale è tuttavia fissata al 30%. Ciò comporta che a far data dal 18 luglio 2012 e in relazione alle nuove assunzioni di apprendisti occorre verificare se il numero dei rapporti “trasformati” nel corso dei 36 mesi precedenti tale assunzione sia almeno pari al 30% dei rapporti avviati nello stesso periodo. Da notare, inoltre, che quella del 30% è una percentuale minima che tuttavia, a partire dal 2015, non sarà più sufficiente per rispettare gli oneri di stabilizzazione Come già chiarito con circ. n. 18/2012, infatti, a decorrere dal 18 luglio 2015 la percentuale di stabilizzazioni da rispettare sarà del 50% e andrà, anche in tal caso, verificata in relazione ai periodi formativi venuti a scadenza nei 36 mesi precedenti.
Stabilisce ancora il Legislatore che dal computo della predetta percentuale sono esclusi i rapporti cessati per:
- recesso durante il periodo di prova;
- dimissioni;
- licenziamento per giusta causa.
Inoltre, qualora non sia rispettata la predetta percentuale, è consentita l’assunzione di un ulteriore apprendista rispetto a quelli già confermati, ovvero di un apprendista in caso di totale mancata conferma degli apprendisti pregressi.
Ancor prima dell’intervento della L. n. 92/2012 esisteva già un diverso onere di stabilizzazione. L’art. 2, comma 1 lett. i), del D.Lgs. n. 167/2011 affida infatti alla contrattazione collettiva interconfederale o nazionale il compito di prevedere la “possibilità di forme e modalità per la conferma in servizio, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, al termine del percorso formativo, al fine di ulteriori assunzioni in apprendistato (…)”.
In tal senso uno dei primi contratti che ha declinato la nuova disciplina dell’apprendistato - il contratto Confprofessioni del 29 novembre 2011 - ha ad esempio previsto che per l’assunzione con contratto di apprendistato professionalizzante il datore di lavoro deve aver mantenuto in servizio almeno il 50% dei lavoratori il cui contratto sia venuto a scadere nei 18 mesi precedenti. Il contratto Confcommercio del 24 marzo 2012 ha invece stabilito, con specifico riferimento ai contratti di apprendistato professionalizzante, che le imprese non potranno assumere apprendisti qualora non abbiano mantenuto in servizio almeno l’80% dei lavoratori il cui contratto di apprendistato professionalizzante sia venuto a scadere nei 24 mesi precedenti, “ivi compresi i lavoratori somministrati che abbiano svolto l’intero periodo di apprendistato presso le medesime”.
Analoga disposizione è inoltre contenuta nel contratto Confesercenti del 28 marzo 2012 e nel contratto Federturismo del 14 maggio 2012.
In relazione a tali discipline è stato già chiarito che:
- per i datori con meno di 10 dipendenti andrà rispettata esclusivamente la clausola di stabilizzazione prevista dal CCNL;
- per i datori di lavoro con almeno 10 dipendenti andrà invece rispettata esclusivamente la clausola di stabilizzazione legale.

In tutti i casi, per espresso dettato dell’art. 2, comma 3 bis, ultimo periodo, il superamento dei limiti comporterà la “trasformazione” del rapporto in un normale rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione (senza tuttavia applicazione della sanzione di cui all’art. 7, comma 1, del D.Lgs. n. 167/2011 ricollegabile esclusivamente ad un inadempimento sul piano formativo). A tal fine il personale ispettivo non potrà non seguire un criterio “cronologico” per l’individuazione delle unità da considerare quali “normali” lavoratori subordinati a tempo indeterminato.
Va poi evidenziato che il datore di lavoro che non abbia stabilizzato alcun lavoratore o perché privo di personale apprendista o perché, nel periodo considerato, non sia venuto a “scadenza” nessun apprendistato, non è evidentemente soggetto a particolari limitazioni in ordine a nuove assunzioni, ferme restando quelle di carattere numerico. Sul punto è sufficiente ricordare che la formulazione normativa introduce detti oneri di stabilizzazione al fine di procedere alla “assunzione di nuovi apprendisti”, presupponendo pertanto che il datore di lavoro abbia attivato, in passato, contratti di apprendistato.


mercoledì 23 gennaio 2013

Convenzione sul lavoro dignitoso per le lavoratrici ed i lavoratori domestici

Il 22 gennaio 2013 l’Italia, primo Paese aderente tra quelli dell’Unione Europea, ha ratificato la Convenzione sul lavoro dignitoso per le lavoratrici ed i lavoratori domestici.

Si tratta della Convenzione 189, adottata nel corso della Conferenza Internazionale del lavoro del 2011, il cui obiettivo è quello di migliorare le condizioni di vita e di lavoro di decine di milioni di lavoratori domestici in tutto il mondo.
Finora gli altri Paesi ratificanti sono stati l’Uruguay, le Filippine e le Mauritius. Da notare che l’Italia risulta essere tra i tre principali Paesi datori di lavoro domestico in Europa, con una percentuale di donne dell’88 per cento sul totale dei lavoratori del settore.

In base all’accordo, a tutti i lavoratori domestici deve essere riconosciuta la dignità di lavoratori, con il conseguente accesso ad una serie di diritti, primo tra tutti quello ad una retribuzione non solo in natura. Il presupposto da cui nasce la Convenzione è la consapevolezza che i lavoratori domestici rappresentano una delle categorie più fragili e bisognose di tutele, sia per la particolare composizione - si tratta principalmente di donne ed immigrati -  ma anche per il contesto lavorativo in cui si svolge l’attività, la casa dei datori di lavoro, luogo privato per eccellenza e poco trasparente ad un controllo delle condizioni di vita e di lavoro.

La Convenzione entrerà in vigore il 5 settembre 2013, ovvero dodici mesi dopo la ratifica da parte di due Stati membri dell’International Labour Organizzatium.

Valerio Pollastrini

Autorizzazione per i lavoratori italiani all’estero

La destinazione all’estero di un lavoratore non comporta un mutamento definitivo del rapporto, ma determina esclusivamente una pattuizione autonoma tra i soggetti interessati – datore di lavoro e lavoratore – in quanto è necessario il preventivo consenso di quest’ultimo.
Tuttavia, l’invio di un lavoratore italiano in un Paese extracomunitario è subordinato ad un’apposita autorizzazione amministrativa.
Con una nota del 22 gennaio 2013, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in merito alle richieste di autorizzazione per i lavoratori italiani all’estero, ha annunciato che dal 1° febbraio i datori di lavoro che intendono assumere o trasferire lavoratori italiani (o comunitari residenti in Italia) per attività lavorative in Paesi extra-UE, hanno l’obbligo di richiedere il rilascio dell’apposita autorizzazione, utilizzando esclusivamente la procedura informatica.

La nuova procedura, avviata in via sperimentale già dal 15 settembre 2012, è illustrata nella Nota ministeriale del 3 agosto 2012 e disponibile sul portale Cliclavoro.
Valerio Pollastrini

Autorizzazione per i lavoratori italiani all’estero

La destinazione all’estero di un lavoratore non comporta un mutamento definitivo del rapporto, ma determina esclusivamente una pattuizione autonoma tra i soggetti interessati – datore di lavoro e lavoratore – in quanto è necessario il preventivo consenso di quest’ultimo.
Tuttavia, l’invio di un lavoratore italiano in un Paese extracomunitario è subordinato ad un’apposita autorizzazione amministrativa.
Con una nota del 22 gennaio 2013, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in merito alle richieste di autorizzazione per i lavoratori italiani all’estero, ha annunciato che dal 1° febbraio i datori di lavoro che intendono assumere o trasferire lavoratori italiani (o comunitari residenti in Italia) per attività lavorative in Paesi extra-UE, hanno l’obbligo di richiedere il rilascio dell’apposita autorizzazione, utilizzando esclusivamente la procedura informatica.

La nuova procedura, avviata in via sperimentale già dal 15 settembre 2012, è illustrata nella Nota ministeriale del 3 agosto 2012 e disponibile sul portale Cliclavoro.
Valerio Pollastrini

Chiarimenti sulla disciplina del lavoro accessorio

Le modifiche apportate dalla riforma del lavoro all’istituto del lavoro accessorio  hanno snellito la disciplina eliminando le causali oggettive e soggettive che ne consentivano l’utilizzo, sostituendole con una disposizione che prevede limiti di carattere essenzialmente economico.
Con la circolare n.4/2012 il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha inteso  in proposito fornire alcuni chiarimenti.

Campo di applicazione

Il nuovo articolo 70 del D.Lgs. n.276/2003 prevede che, per prestazioni di lavoro accessorio si intendono le attività lavorative di natura meramente occasionale che non danno luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi superiori a 5.000 euro nel corso di un anno solare, annualmente rivalutati sulla base della variazione dell’indice Istat dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati intercorsa nell’anno precedente.
È dunque possibile attivare sempre e comunque lavoro accessorio tenendo conto esclusivamente di un limite di carattere economico (fatte salve le successive precisazioni). Tale limite, pari ad euro 5000, originariamente quantificato in relazione all’ attività prestata nei confronti del singolo committente, va riferito oggi al compenso massimo che il lavoratore accessorio può percepire, nel corso dell’anno solare, indipendentemente dal numero dei committenti.

Attività resa nei confronti dei committenti imprenditori commerciali o professionisti e nel settore agricolo
Fermo restando il limite complessivo di euro 5.000 nel corso di un anno solare, il Legislatore stabilisce che “nei confronti dei committenti imprenditori commerciali o professionisti, le attività lavorative possono essere svolte a favore di ciascun singolo committente per compensi non superiori a 2.000 euro, rivalutati annualmente”.
Ai fini del rispetto della nuova disciplina, occorre prima di tutto verificare se il committente è un imprenditore commerciale o professionista. In caso positivo la prestazione nei suoi confronti non potrà dare luogo a compensi maggiori di euro 2.000 di voucher.
Il limite in questione necessita tuttavia di una precisazione. In particolare va chiarito che l’espressione imprenditore commerciale vuole in realtà intendere qualsiasi soggetto, persona fisica o giuridica, che opera su un determinato mercato, senza che l’aggettivo commerciale possa in qualche modo circoscrivere l’attività di impresa.
Un secondo limite, anch’esso di carattere oggettivo e fermo restando il tetto dei 5.000 euro, riguarda il settore agricolo. Il nuovo art.70 stabilisce infatti che il lavoro accessorio in questo specifico ambito si applica:
-         alle attività lavorative di natura occasionale rese nell’ambito delle attività agricole di carattere stagionale effettuate da pensionati e da giovani con meno di 25 anni di età se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, compatibilmente con gli impegni scolastici, ovvero in qualunque periodo dell’anno se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso l’università;
-         produttori agricoli che nell’anno solare precedente hanno realizzato o, in caso di inizio attività, prevedono di realizzare un volume d’affari non superiore a 7000 euro, costituito per almeno due terzi da cessione di prodotti.
In sostanza è possibile utilizzare voucher sino ad euro 5.000 in agricoltura solo se l’attività è svolta da pensionati o giovani studenti ovvero, a prescindere da chi è il lavoratore accessorio, se l’attività è svolta a favore dei piccoli imprenditori agricoli. Proprio in ragione della specialità del settore agricolo, si ritiene che non trovi applicazione l’ulteriore limite di euro 2000 previsto in relazione alle prestazioni rese nei confronti degli imprenditori e professionisti.
Ultima limitazione riguarda la possibilità di ricorrere al lavoro accessorio da parte di un committente pubblico. In tale ipotesi il Legislatore prevede semplicemente che il ricorso all’istituto è consentito nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in materia di contenimento delle spese di personale e, ove previsto, dal patto di stabilità interno

Lavoro accessorio e appalti

Il lavoro accessorio è utilizzabile in relazione alle prestazioni rivolte direttamente a favore dell’utilizzatore delle stesse, senza il tramite di intermediari.
Il ricorso ai buoni lavoro è dunque limitato al rapporto diretto tra prestatore e utilizzatore finale, mentre è escluso che un’ impresa possa reclutare e retribuire lavoratori per svolgere prestazioni a favore di terzi come nel caso dell’appalto e della somministrazione.


Lavoro accessorio e permesso di soggiorno

Il compenso legato a prestazioni di lavoro accessorio è esente da qualsiasi imposizione fiscale e non incide sullo stato di disoccupato o inoccupato del prestatore di lavoro. Tuttavia lo stesso compenso può essere utile al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno.
Sul punto occorre dunque ricordare che il lavoratore non appartenente all’Unione europea deve comunque dimostrare di disporre di idonea sistemazione alloggiativa e di un reddito annuo, proveniente da fonti lecite, di importo superiore al livello minimo previsto dalla legge per l’esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria.

Caratteristiche dei buoni lavoro

I carnet dei buoni di lavoro accessorio sono orari, numerati progressivamente e datati; inoltre il loro valore nominale è fissato con decreto del Ministero del lavoro.
Il criterio di quantificazione del compenso è ancorato alla natura oraria parametrata alla durata della prestazione stessa, così da evitare che un solo voucher, attualmente del valore di 10 euro, possa essere utilizzato per remunerare prestazioni di diverse ore.
Resta evidentemente salva la possibilità di remunerare una prestazione lavorativa in misura superiore rispetto a quella prevista dal legislatore corrispondendo, ad esempio, per un’ora di lavoro anche più voucher.
Ad analoghe esigenze accertative soccorrono anche le precisazioni in ordine al fatto che i voucher sono utilizzati in relazione al periodo evidenziato.
A tal proposito, considerata la natura preventiva della comunicazione sull’utilizzo del lavoro accessorio, al fine di consentire la massima flessibilità sia del voucher telematico, sia di quello cartaceo, il riferimento alla data non può che implicare che la stessa vada intesa come un arco temporale di utilizzo del voucher non superiore ai 30 giorni decorrenti dal suo acquisto.

Disciplina sanzionatoria

Le possibili violazioni della disciplina in materia di lavoro accessorio attengono principalmente al superamento dei limiti quantitativi previsti, nonché all’utilizzo di voucher al di fuori del periodo consentito (30 giorni).
Quanto al primo profilo va anzitutto ribadito che il limite quantitativo diventa un elemento qualificatorio ed il suo  superamento  non potrà non determinare una trasformazione del rapporto in un rapporto di natura subordinata a tempo indeterminato, con applicazione delle relative sanzioni civili e amministrative.
Analoghe conseguenze non potranno non aversi anche nelle ipotesi di un utilizzo dei voucher in un periodo diverso da quello consentito (30 giorni dal suo acquisto). In assenza del titolo legittimante la prestazione di lavoro accessorio, la prestazione stessa sarà inoltre da ritenersi quale prestazione di fatto, non censita preventivamente e pertanto da considerarsi in nero.

Periodo transitorio

La riforma ha introdotto un periodo transitorio che consente in sostanza, per i buoni già acquistati prima del 18 luglio 2012, la possibilità di essere utilizzati entro il 31 maggio 2013, rispettando la precedente disciplina anche e soprattutto in relazione al campo di applicazione del lavoro accessorio.
Ne consegue che tali buoni non saranno conteggiati ai fini del raggiungimento dei predetti limiti di euro 5.000 ed euro 2.000 e rispetto ad essi non sussiste alcun vincolo di parametrazione oraria.

Valerio Pollastrini


lunedì 21 gennaio 2013

Procedura di conciliazione obbligatoria per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo

L’art.1, comma 40, della Legge n.92/2012 ha introdotto, con l’intento di ridurre il contenzioso in materia di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, una particolare procedura di conciliazione presso la commissione provinciale della Dtl.
Con la circolare n.3/2013 il Ministero del lavoro e delle politiche sociali si propone di chiarire alcuni aspetti di questa nuova disposizione.
La procedura di conciliazione pone un intervallo temporale tra il momento in cui il datore di lavoro manifesta la propria volontà di recedere dal rapporto – comunicata al lavoratore interessato – e quello nel quale il licenziamento esplica i propri effetti. Questo lasso di tempo può avere una propria utilità in quanto consente alle parti di confrontarsi presso una sede che offre garanzie di terzietà e di trovare soluzioni alternative.

Datori di lavoro interessati

Sono tenuti al rispetto della norma tutti i datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo occupino alle proprie dipendenze più di 15 unità o più di 5 se imprenditori agricoli.
La disposizione trova applicazione anche nei confronti del datore che nello stesso ambito comunale occupi più di 15 lavoratori, pur se ciascuna unità produttiva non raggiunga tali limiti (anche per l’imprenditore agricolo dimensionato oltre le 5 unità vale lo stesso principio) e, in ogni caso, a chi occupa più di 60 dipendenti su scala nazionale.
Ai fini del computo i lavoratori a tempo parziale e  indeterminato, così come quelli a chiamata, sono calcolati “pro-quota” in relazione all’orario pieno contrattuale, mentre non si computano il coniuge ed i parenti entro il secondo grado.
Va sottolineato che in ogni caso il calcolo della base numerica deve essere effettuato non già al momento in cui avviene il licenziamento, ma avendo quale parametro di riferimento la c.d. “normale occupazione” nel periodo antecendete (gli ultimi 6 mesi), senza tener conto di temporanee contrazioni di personale.
I seguenti lavoratori, comunque, non sono considerati computabili ai fini del raggiungimento della soglia di applicabilità della disciplina in commento. Essi sono:
-         gli assunti con rapporto di apprendistato;
-         gli assunti con contratto di inserimento;
-         gli assunti con contratto di reinserimento;
-         gli assunti, già impiegati in lavori socialmente utili o di pubblica utilità;
-         i lavoratori somministrati;

Motivazioni del licenziamento

Rispettando i  principi sanciti nel tempo dalla Suprema Corte, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni inerenti l’attività produttiva è una scelta riservata all’imprenditore, quale responsabile della corretta gestione dell’azienda anche dal punto di vista economico ed organizzativo, sicché essa, quando sia effettiva e non simulata o pretestuosa, non è sindacabile dal giudice quanto ai profili della sua congruità ed opportunità.
A titolo esemplificativo, il giustificato motivo oggettivo di licenziamento è stato ricondotto ad ipotesi di ristrutturazione di reparti, di soppressione del posto di lavoro, di terziarizzazione e di esternalizzazione.
A ciò vanno aggiunte altre ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (che, peraltro, non esauriscono l’ampia tematica) che fanno riferimento alla inidoneità fisica, alla impossibilità del c.d. “repechage” anche all’interno del “gruppo d’imprese”, al licenziamento di un lavoratore a tempo indeterminato in edilizia, anche per chiusura del cantiere.
Non si ritiene invece ricompreso nell’ambito dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo il licenziamento avvenuto per superamento del periodo di comporto.

Apertura della procedura e ruolo della Direzione territoriale del lavoro

Il datore di lavoro rientrante nel campo di applicazione del nuovo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (si tratta dei limiti dimensionali sopra evidenziati) che intende procedere ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo è obbligato ad inviare una comunicazione scritta alla Direzione del lavoro competente per ambito territoriale e trasmessa per conoscenza al diretto interessato.
Il contenuto deve far riferimento all’intenzione di procedere al licenziamento per un motivo oggettivo, deve indicarne le motivazioni, nonché le eventuali misure di assistenza finalizzate ad una ricollocazione. Si ricorda inoltre di indicare nella comunicazione, qualora il datore di lavoro ne sia in possesso, l’indirizzo di posta elettronica certificata.
La comunicazione si intende trasmessa a “buon fine”, nei confronti del lavoratore, se spedita al domicilio indicato nel contratto o quello successivamente indicato o, infine, se consegnata a mano con ricezione attestata da una firma sulla copia.
Dalla data di ricezione della comunicazione trasmessa da parte del datore di lavoro all’Ufficio si intende dunque avviata la procedura in esame; va infatti ricordato che la stessa comunicazione è trasmessa “per conoscenza” al lavoratore e pertanto, ai fini della individuazione del momento di avvio della procedura, assume valore preponderante la data di ricezione da parte della Dtl.

Modalità e contenuti della comunicazione datoriale

Oltre allo strumento della “raccomandata con avviso di ricevimento” si ritiene pienamente valida la comunicazione inviata alla Direzione del lavoro attraverso “posta elettronica certificata”.
La comunicazione è fondamentale in quanto consente di conoscere le cause che determinano, ad avviso del datore, la necessità di procedere al licenziamento.
Anche le misure attivabili ai fini di una ricollocazione (che peraltro sono eventuali) vanno individuate con una certa puntualizzazione in quanto possono facilitare la soluzione della controversia. Per quel che riguarda la individuazione delle misure alternative, di ricollocazione o di assistenza alla ricollocazione, va ricordato come la stessa Cassazione, con sentenza n.6625 del 23 marzo 2011, abbia affermato che non necessariamente debbano avere la caratteristica del lavoro subordinato, ben potendo l’offerta riguardare una prospettiva di lavoro autonomo o in cooperativa.

Istruttoria della Direzione territoriale del lavoro

I tempi del tentativo di conciliazione sono obiettivamente brevi. La Direzione territoriale del lavoro che ha ricevuto la comunicazione datoriale deve convocare le parti innanzi alla commissione provinciale di conciliazione, trasmettendo l’invito a comparire entro il termine perentorio di 7 giorni dalla ricezione dell’istanza.
La nota della Dtl, con il giorno e l’ora della convocazione, deve essere trasmessa con la massima celerità al fine di non vanificare la procedura obbligatoria di conciliazione; essa va inviata con lettera raccomandata o preferibilmente attraverso “posta elettronica certificata”.
La circolare in commento pone un severo monito agli uffici interessati dalla presente procedura: fissare la convocazioni delle parti, pur rispettando il termine perentorio di 7 giorni dalla richiesta, ma entro un limite temporale che va oltre i 20 giorni dalla convocazione, significa vanificare la procedura conciliativa.

Attività della commissione di conciliazione

Nel giorno e nell’ora fissata dalla lettera di convocazione, le parti sono invitate a presentarsi avanti all’organo conciliativo. L’assenza di una delle stesse non sorretta da alcun elemento giustificativo, produce la redazione di un verbale di assenza.
Ovviamente, si ha motivo di ritenere che se la mancata presenza del lavoratore abilità il datore di lavoro ad attuare il recesso, la stessa cosa non può dirsi nel caso contrario.
Alle parti è consentita la possibilità di farsi assistere dalle organizzazioni sindacali alle quali siano iscritte ovvero abbiano conferito mandato, da un avvocato o da un consulente del lavoro iscritti al relativo albo.
Al riguardo va puntualizzata la possibilità che le parti siano o meno presenti avanti alla commissione di conciliazione o possano farsi rappresentare da un soggetto terzo munito di apposita delega. La delega può essere autenticata secondo le modalità attualmente in vigore (delega sottoscritta dalla parte, unitamente a copia del documento d’identità, ovvero autentica rilasciata dallo stesso avvocato che rappresenta ed assiste il proprio cliente).
Pur non escludendo che in linea di principio le parti possano delegare altre persone alla trattazione, si ritiene che dall’articolato emerga l’opportunità che i soggetti interessati siano tutti presenti e, in particolar modo, il lavoratore.

Termini per lo svolgimento della conciliazione

La procedura di conciliazione deve concludersi entro 20 giorni dal momento in cui la Direzione territoriale del lavoro ha trasmesso la convocazione per l’incontro. Ciò sta a significare che:
-         il termine si calcola dalla data di convocazione e, quindi, all’interno dei 20 giorni vanno computati anche quelli necessari alla ricezione della lettera raccomandata;
-         l’incontro deve necessariamente essere “ravvicinato” per consentire alle parti un vero confronto.
Si ritiene tuttavia che il termine di 20 giorni può essere superato, anche su richiesta della commissione, se le parti lo reputano necessario per il raggiungimento di un accordo.
Tornando ai tempi “cadenzati” della procedura conciliativa, va sottolineato come il Legislatore prenda in considerazione una ipotesi di sospensione temporanea della stessa. Ciò accade in presenza di un legittimo e documentato impedimento del lavoratore (anche autocertificabile) a presenziare alla riunione fissata per il tentativo di conciliazione, per un periodo massimo di 15 giorni. Questo, che può consistere in uno stato di malattia ma anche in un motivo diverso afferibile alla propria sfera familiare, deve trovare la propria giustificazione in una tutela prevista dalla legge o dal contratto. Il motivo va comunicato alla commissione che, se lo ritiene valido, accorda la sospensione per il tempo richiesto.

Esito negativo del tentativo di conciliazione

Quanto alle conseguenze legate ad un fallimento del tentativo di conciliazione, va premesso che ciò può accadere sia perché le parti non hanno trovato un accordo, sia perché si è verificata l’assenza o l’abbandono da parte di una di esse.
In tali casi il datore di lavoro può procedere al licenziamento del lavoratore individuato.
In alternativa, se per una qualsiasi ragione non è stata effettuata la convocazione per il tentativo di conciliazione richiesto, il datore di lavoro può procedere con proprio atto di recesso unilaterale, trascorsi i sette giorni dalla ricezione della propria richiesta di incontro da parte della Direzione territoriale del lavoro.
Se la commissione di conciliazione non riesce ad arrivare ad una composizione della controversia, essa è tenuta a redigere un verbale di mancato accordo che non può essere generico e privo di contenuti.
Il comportamento complessivo delle parti deve infatti essere valutato dal giudice per la eventuale determinazione dell’indennità risarcitoria.
Dal verbale della commissione si deve dunque desumere, con sufficiente approssimazione, il comportamento tenuto dalle parti nella fase conciliativa.

Licenziamento adottato al termine della procedura

Va poi ricordato che il licenziamento adottato al termine della procedura conciliativa ha effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento è stato avviato – ossia dal giorno di ricezione, da parte dell’Ufficio, della comunicazione datoriale relativa al preavviso di licenziamento – salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva. In relazione ai connessi obblighi di comunicazione al Centro per l’impiego, si ritiene che gli effetti retroattivi del licenziamento non debbano incidere sui termini di effettuazione dell’obbligo di comunicazione.
Si ricorda che, ferma restando la nullità del licenziamento intervenuto in costanza di maternità/paternità, gli effetti del licenziamento rimangono sospesi in caso di inadempimento derivante da infortunio occorso sul lavoro. Il periodo di eventuale lavoro svolto in costanza di della procedura si considera come “preavviso lavorato”.
La disposizione ha lo scopo di individuare una data legale di risoluzione del rapporto ed ha un obiettivo precipuo di evitare possibili rallentamenti procedurali legati all’insorgere di una malattia che, indubbiamente, rinvierebbe l’efficacia del recesso al termine della stessa. Il legislatore ha fatto salvo l’effetto sospensivo scaturente pertanto solo dai periodi di tutela per maternità/paternità ed infortunio sul lavoro.

Esito positivo del tentativo di conciliazione

Il tentativo di conciliazione può concludersi positivamente e le soluzioni possono essere diverse, anche alternative alla risoluzione del rapporto.
In questo caso, la commissione procede alla verbalizzazione dei contenuti (si pensi, ad esempio, ad un trasferimento, alla trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale) che divengono inoppugnabili, trattandosi di una conciliazione avvenuta ex art.410 c.p.c.
Se invece si arriva ad una risoluzione consensuale del rapporto, la commissione ne darà atto attraverso il verbale riportandone tutti i contenuti, ivi compresi quelli di natura economica.
Si ricorda che la risoluzione consensuale del rapporto al termine della procedura obbligatoria di conciliazione è una delle ipotesi individuate dal legislatore che, derogando alla disciplina ordinaria, riconosce al lavoratore il diritto al “godimento” dell’Assicurazione Sociale per l’Impiego (AspI), destinata a sostituire la vecchia indennità di disoccupazione.
La risoluzione consensuale sottoscritta davanti alla commissione provinciale di conciliazione è chiaramente esaustiva e sufficiente, pertanto, a non imporre l’ulteriore richiesta di convalida da parte del lavoratore come nella generalità dei casi di dimissioni volontarie e risoluzioni consensuali.

Valerio Pollastrini

domenica 20 gennaio 2013

Istruzioni per la richiesta delle indennità di disoccupazione Aspi, Mini Aspi e Mini-Aspi 2012

Dal 1°gennaio 2013 entrano in vigore le nuove indennità di disoccupazione Aspi e Mini-Aspi e Mini-Aspi 2012.
L’Inps con il Messaggio del 14 gennaio n.760 ha fornito le istruzioni necessarie per la presentazione delle domande che potranno avvenire esclusivamente per via telematica.
I lavoratori potranno avvalersi dell’ausilio dei Patronati o, in alternativa, quello del Contact Center utilizzando i seguenti numeri telefonici: 803164 dal numero fisso; 06164164 dai telefoni mobili.
Per coloro che volessero procedere direttamente alla richiesta di una delle prestazioni indicate sarà possibile utilizzare la modalità  Web – servizi telematici accessibili direttamente dal cittadino.

Presentazione via Web effettuata direttamente dal cittadino
Sarà possibile per i cittadini interessati presentare direttamente la domanda di indennità di disoccupazione Aspi, Mini-Aspi e Mini-Aspi 2012 attraverso il portale www.inps.it, utilizzando il seguente percorso: Al servizio del cittadino – Autenticazione con Pin – Invio domande di prestazioni a sostegno del reddito – Aspi, Disoccupazione, Mobilità e Trattamenti speciali edili – Indennità Aspi.
Per seguire la procedura è indispensabile ottenere il preventivo rilascio dell’apposito Pin da parte dell’Inps attraverso le modalità di richiesta indicata nel portale dell’Istituto alla sezione “Servizi On-Line”.
Una volta in possesso del Pin sarà possibile effettuare l’autentificazione necessaria per l’avvio ella procedura.
Il servizio prevede il prelievo automatico delle informazioni anagrafiche del richiedente, per mezzo dei dati già in possesso dell’Istituto ed il completamento della domanda da parte del cittadino.
Il servizio è articolato in varie sezioni:
-          Sezione Anagrafica: visualizza i dati anagrafici registrati negli archivi Inps con la possibilità di variare manualmente il domicilio;
-          Sezione altri recapiti: consente la compilazione dei dati relativi ai recapiti telefonici ed e-mail del lavoratore;
-          Sezione ultima posizione lavorativa: consente di inserire o modificare i dati relativi all’ultimo rapporto di lavoro;
-          Sezione dati domanda: consente di acquisire i dati della domanda e cioè l’evento da comunicare ed il periodo a cui si riferisce (ultimo rapporto di lavoro e data di cessazione);
-          Sezione dichiarazioni: consente di effettuare in maniera guidata dichiarazioni sulle situazioni dell’assicurato con riflessi sulla prestazione;
-          Sezione relativa all’attestazione dello status di disoccupato;
Sezione riepilogo dati e invio della domanda: consente di salvare la domanda e di inviarla tramite il pulsante di conferma. Il richiedente avrà la possibilità di stampare sia la ricevuta di presentazione che la relativa domanda per poterne verificare la correttezza dei dati inseriti.

venerdì 18 gennaio 2013

Contributo di licenziamento richiesto alle aziende

Dopo le modifiche della recente Legge di Stabilità entra in vigore dal 1° gennaio 2013 il nuovo contributo di licenziamento richiesto alle aziende in tutti i casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato ad eccezione delle dimissioni volontarie, le risoluzioni consensuali e le cessazioni dei rapporti per morte del lavoratore.
La finalità del contributo è quella di finanziare in parte la nuova Aspi (indennità di disoccupazione). A tal fine, in caso di licenziamento, il datore di lavoro è tenuto a versare all’Inps il 41% del c.d. massimale mensile Aspi (pari  a 2.014,77 euro per il 2012) per ogni 12 mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni, fino ad arrivare alla soglia massima del 123%.
Nel computo dell’anzianità aziendale sono compresi i periodi di lavoro con contratto diverso da quello a tempo indeterminato, se il rapporto è proseguito senza soluzione di continuità.
Il contributo trova applicazione anche per le interruzioni dei rapporti di apprendistato.
Fino al 2015 il contributo aggiuntivo di licenziamento non è dovuto nei seguenti casi:
-         licenziamenti effettuati in conseguenza di cambi di appalto, ai quali siano succedute assunzioni presso altri datori di lavoro, in attuazione di clausole sociali che garantiscano la continuità occupazionale prevista dai CCNL;
-         interruzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, nel settore delle costruzioni edili, per completamento delle attività e chiusura del cantiere.
A tutt’oggi è bene specificare che l’Inps ancora non ha fornito le istruzioni operative per il calcolo e il versamento del contributo in questione.

Esempio:

-         lavoratore licenziato dopo 14 mesi di contratto a tempo indeterminato:

calcolo della percentuale:

41 : 12 x 14 = 47,83%

massimale Aspi (a titolo esemplificativo utilizziamo quello 2012 in attesa di aggiornamento) :

2.014,77

Calcolo del contributo di licenziamento:

2.014,77 x 47,83% = 963,66

Numeri utili Inps

Con la News del 18 gennaio 2013 l’Inps ha comunicato agli utenti che per informazioni e servizi sarà possibile chiamare il Contact Center Integrato Inps/Inail.

Dal 21 gennaio 2013 si potrà utilizzare il nuovo numero gratuito 803164 per le sole chiamate da numero fisso.

Per le chiamate da telefono mobile sarà altresì disponibile la nuova linea telefonica 06164164, con costo della chiamata condizionato dal piano tariffario previsto dal singolo gestore telefonico.

A questi numeri dovranni rivolgersi anche gli utenti della gestione ex-Enpals, per i quali è stato disattivato il precedente numero verde.

Rimangono invece attivi i numeri utilizzati dalla gestione ex-Inpdap

Da gennaio aumentati i contributi previdenziali per i contratti a temine

A partire dai compensi relativi al mese di gennaio, ai rapporti di lavoro subordinato a tempo non indeterminato si applicherà un contributo addizionale, a carico del datore di lavoro, pari all’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali.
Si tratta di una disposizione della riforma del lavoro dello scorso 28 giugno che in questo caso ha prodotto i suoi effetti a far data dal primo gennaio 2013.
Sono escluse dall’addizionale contributiva solamente le seguenti fattispecie di contratti a termine:
-         lavoratori assunti a termine in sostituzione di lavoratori assenti;
-         lavoratori assunti a termine per lo svolgimento delle attività stagionali;
-         gli apprendisti;
-         lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni.