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lunedì 21 gennaio 2013

Procedura di conciliazione obbligatoria per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo

L’art.1, comma 40, della Legge n.92/2012 ha introdotto, con l’intento di ridurre il contenzioso in materia di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, una particolare procedura di conciliazione presso la commissione provinciale della Dtl.
Con la circolare n.3/2013 il Ministero del lavoro e delle politiche sociali si propone di chiarire alcuni aspetti di questa nuova disposizione.
La procedura di conciliazione pone un intervallo temporale tra il momento in cui il datore di lavoro manifesta la propria volontà di recedere dal rapporto – comunicata al lavoratore interessato – e quello nel quale il licenziamento esplica i propri effetti. Questo lasso di tempo può avere una propria utilità in quanto consente alle parti di confrontarsi presso una sede che offre garanzie di terzietà e di trovare soluzioni alternative.

Datori di lavoro interessati

Sono tenuti al rispetto della norma tutti i datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo occupino alle proprie dipendenze più di 15 unità o più di 5 se imprenditori agricoli.
La disposizione trova applicazione anche nei confronti del datore che nello stesso ambito comunale occupi più di 15 lavoratori, pur se ciascuna unità produttiva non raggiunga tali limiti (anche per l’imprenditore agricolo dimensionato oltre le 5 unità vale lo stesso principio) e, in ogni caso, a chi occupa più di 60 dipendenti su scala nazionale.
Ai fini del computo i lavoratori a tempo parziale e  indeterminato, così come quelli a chiamata, sono calcolati “pro-quota” in relazione all’orario pieno contrattuale, mentre non si computano il coniuge ed i parenti entro il secondo grado.
Va sottolineato che in ogni caso il calcolo della base numerica deve essere effettuato non già al momento in cui avviene il licenziamento, ma avendo quale parametro di riferimento la c.d. “normale occupazione” nel periodo antecendete (gli ultimi 6 mesi), senza tener conto di temporanee contrazioni di personale.
I seguenti lavoratori, comunque, non sono considerati computabili ai fini del raggiungimento della soglia di applicabilità della disciplina in commento. Essi sono:
-         gli assunti con rapporto di apprendistato;
-         gli assunti con contratto di inserimento;
-         gli assunti con contratto di reinserimento;
-         gli assunti, già impiegati in lavori socialmente utili o di pubblica utilità;
-         i lavoratori somministrati;

Motivazioni del licenziamento

Rispettando i  principi sanciti nel tempo dalla Suprema Corte, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni inerenti l’attività produttiva è una scelta riservata all’imprenditore, quale responsabile della corretta gestione dell’azienda anche dal punto di vista economico ed organizzativo, sicché essa, quando sia effettiva e non simulata o pretestuosa, non è sindacabile dal giudice quanto ai profili della sua congruità ed opportunità.
A titolo esemplificativo, il giustificato motivo oggettivo di licenziamento è stato ricondotto ad ipotesi di ristrutturazione di reparti, di soppressione del posto di lavoro, di terziarizzazione e di esternalizzazione.
A ciò vanno aggiunte altre ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (che, peraltro, non esauriscono l’ampia tematica) che fanno riferimento alla inidoneità fisica, alla impossibilità del c.d. “repechage” anche all’interno del “gruppo d’imprese”, al licenziamento di un lavoratore a tempo indeterminato in edilizia, anche per chiusura del cantiere.
Non si ritiene invece ricompreso nell’ambito dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo il licenziamento avvenuto per superamento del periodo di comporto.

Apertura della procedura e ruolo della Direzione territoriale del lavoro

Il datore di lavoro rientrante nel campo di applicazione del nuovo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (si tratta dei limiti dimensionali sopra evidenziati) che intende procedere ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo è obbligato ad inviare una comunicazione scritta alla Direzione del lavoro competente per ambito territoriale e trasmessa per conoscenza al diretto interessato.
Il contenuto deve far riferimento all’intenzione di procedere al licenziamento per un motivo oggettivo, deve indicarne le motivazioni, nonché le eventuali misure di assistenza finalizzate ad una ricollocazione. Si ricorda inoltre di indicare nella comunicazione, qualora il datore di lavoro ne sia in possesso, l’indirizzo di posta elettronica certificata.
La comunicazione si intende trasmessa a “buon fine”, nei confronti del lavoratore, se spedita al domicilio indicato nel contratto o quello successivamente indicato o, infine, se consegnata a mano con ricezione attestata da una firma sulla copia.
Dalla data di ricezione della comunicazione trasmessa da parte del datore di lavoro all’Ufficio si intende dunque avviata la procedura in esame; va infatti ricordato che la stessa comunicazione è trasmessa “per conoscenza” al lavoratore e pertanto, ai fini della individuazione del momento di avvio della procedura, assume valore preponderante la data di ricezione da parte della Dtl.

Modalità e contenuti della comunicazione datoriale

Oltre allo strumento della “raccomandata con avviso di ricevimento” si ritiene pienamente valida la comunicazione inviata alla Direzione del lavoro attraverso “posta elettronica certificata”.
La comunicazione è fondamentale in quanto consente di conoscere le cause che determinano, ad avviso del datore, la necessità di procedere al licenziamento.
Anche le misure attivabili ai fini di una ricollocazione (che peraltro sono eventuali) vanno individuate con una certa puntualizzazione in quanto possono facilitare la soluzione della controversia. Per quel che riguarda la individuazione delle misure alternative, di ricollocazione o di assistenza alla ricollocazione, va ricordato come la stessa Cassazione, con sentenza n.6625 del 23 marzo 2011, abbia affermato che non necessariamente debbano avere la caratteristica del lavoro subordinato, ben potendo l’offerta riguardare una prospettiva di lavoro autonomo o in cooperativa.

Istruttoria della Direzione territoriale del lavoro

I tempi del tentativo di conciliazione sono obiettivamente brevi. La Direzione territoriale del lavoro che ha ricevuto la comunicazione datoriale deve convocare le parti innanzi alla commissione provinciale di conciliazione, trasmettendo l’invito a comparire entro il termine perentorio di 7 giorni dalla ricezione dell’istanza.
La nota della Dtl, con il giorno e l’ora della convocazione, deve essere trasmessa con la massima celerità al fine di non vanificare la procedura obbligatoria di conciliazione; essa va inviata con lettera raccomandata o preferibilmente attraverso “posta elettronica certificata”.
La circolare in commento pone un severo monito agli uffici interessati dalla presente procedura: fissare la convocazioni delle parti, pur rispettando il termine perentorio di 7 giorni dalla richiesta, ma entro un limite temporale che va oltre i 20 giorni dalla convocazione, significa vanificare la procedura conciliativa.

Attività della commissione di conciliazione

Nel giorno e nell’ora fissata dalla lettera di convocazione, le parti sono invitate a presentarsi avanti all’organo conciliativo. L’assenza di una delle stesse non sorretta da alcun elemento giustificativo, produce la redazione di un verbale di assenza.
Ovviamente, si ha motivo di ritenere che se la mancata presenza del lavoratore abilità il datore di lavoro ad attuare il recesso, la stessa cosa non può dirsi nel caso contrario.
Alle parti è consentita la possibilità di farsi assistere dalle organizzazioni sindacali alle quali siano iscritte ovvero abbiano conferito mandato, da un avvocato o da un consulente del lavoro iscritti al relativo albo.
Al riguardo va puntualizzata la possibilità che le parti siano o meno presenti avanti alla commissione di conciliazione o possano farsi rappresentare da un soggetto terzo munito di apposita delega. La delega può essere autenticata secondo le modalità attualmente in vigore (delega sottoscritta dalla parte, unitamente a copia del documento d’identità, ovvero autentica rilasciata dallo stesso avvocato che rappresenta ed assiste il proprio cliente).
Pur non escludendo che in linea di principio le parti possano delegare altre persone alla trattazione, si ritiene che dall’articolato emerga l’opportunità che i soggetti interessati siano tutti presenti e, in particolar modo, il lavoratore.

Termini per lo svolgimento della conciliazione

La procedura di conciliazione deve concludersi entro 20 giorni dal momento in cui la Direzione territoriale del lavoro ha trasmesso la convocazione per l’incontro. Ciò sta a significare che:
-         il termine si calcola dalla data di convocazione e, quindi, all’interno dei 20 giorni vanno computati anche quelli necessari alla ricezione della lettera raccomandata;
-         l’incontro deve necessariamente essere “ravvicinato” per consentire alle parti un vero confronto.
Si ritiene tuttavia che il termine di 20 giorni può essere superato, anche su richiesta della commissione, se le parti lo reputano necessario per il raggiungimento di un accordo.
Tornando ai tempi “cadenzati” della procedura conciliativa, va sottolineato come il Legislatore prenda in considerazione una ipotesi di sospensione temporanea della stessa. Ciò accade in presenza di un legittimo e documentato impedimento del lavoratore (anche autocertificabile) a presenziare alla riunione fissata per il tentativo di conciliazione, per un periodo massimo di 15 giorni. Questo, che può consistere in uno stato di malattia ma anche in un motivo diverso afferibile alla propria sfera familiare, deve trovare la propria giustificazione in una tutela prevista dalla legge o dal contratto. Il motivo va comunicato alla commissione che, se lo ritiene valido, accorda la sospensione per il tempo richiesto.

Esito negativo del tentativo di conciliazione

Quanto alle conseguenze legate ad un fallimento del tentativo di conciliazione, va premesso che ciò può accadere sia perché le parti non hanno trovato un accordo, sia perché si è verificata l’assenza o l’abbandono da parte di una di esse.
In tali casi il datore di lavoro può procedere al licenziamento del lavoratore individuato.
In alternativa, se per una qualsiasi ragione non è stata effettuata la convocazione per il tentativo di conciliazione richiesto, il datore di lavoro può procedere con proprio atto di recesso unilaterale, trascorsi i sette giorni dalla ricezione della propria richiesta di incontro da parte della Direzione territoriale del lavoro.
Se la commissione di conciliazione non riesce ad arrivare ad una composizione della controversia, essa è tenuta a redigere un verbale di mancato accordo che non può essere generico e privo di contenuti.
Il comportamento complessivo delle parti deve infatti essere valutato dal giudice per la eventuale determinazione dell’indennità risarcitoria.
Dal verbale della commissione si deve dunque desumere, con sufficiente approssimazione, il comportamento tenuto dalle parti nella fase conciliativa.

Licenziamento adottato al termine della procedura

Va poi ricordato che il licenziamento adottato al termine della procedura conciliativa ha effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento è stato avviato – ossia dal giorno di ricezione, da parte dell’Ufficio, della comunicazione datoriale relativa al preavviso di licenziamento – salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva. In relazione ai connessi obblighi di comunicazione al Centro per l’impiego, si ritiene che gli effetti retroattivi del licenziamento non debbano incidere sui termini di effettuazione dell’obbligo di comunicazione.
Si ricorda che, ferma restando la nullità del licenziamento intervenuto in costanza di maternità/paternità, gli effetti del licenziamento rimangono sospesi in caso di inadempimento derivante da infortunio occorso sul lavoro. Il periodo di eventuale lavoro svolto in costanza di della procedura si considera come “preavviso lavorato”.
La disposizione ha lo scopo di individuare una data legale di risoluzione del rapporto ed ha un obiettivo precipuo di evitare possibili rallentamenti procedurali legati all’insorgere di una malattia che, indubbiamente, rinvierebbe l’efficacia del recesso al termine della stessa. Il legislatore ha fatto salvo l’effetto sospensivo scaturente pertanto solo dai periodi di tutela per maternità/paternità ed infortunio sul lavoro.

Esito positivo del tentativo di conciliazione

Il tentativo di conciliazione può concludersi positivamente e le soluzioni possono essere diverse, anche alternative alla risoluzione del rapporto.
In questo caso, la commissione procede alla verbalizzazione dei contenuti (si pensi, ad esempio, ad un trasferimento, alla trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale) che divengono inoppugnabili, trattandosi di una conciliazione avvenuta ex art.410 c.p.c.
Se invece si arriva ad una risoluzione consensuale del rapporto, la commissione ne darà atto attraverso il verbale riportandone tutti i contenuti, ivi compresi quelli di natura economica.
Si ricorda che la risoluzione consensuale del rapporto al termine della procedura obbligatoria di conciliazione è una delle ipotesi individuate dal legislatore che, derogando alla disciplina ordinaria, riconosce al lavoratore il diritto al “godimento” dell’Assicurazione Sociale per l’Impiego (AspI), destinata a sostituire la vecchia indennità di disoccupazione.
La risoluzione consensuale sottoscritta davanti alla commissione provinciale di conciliazione è chiaramente esaustiva e sufficiente, pertanto, a non imporre l’ulteriore richiesta di convalida da parte del lavoratore come nella generalità dei casi di dimissioni volontarie e risoluzioni consensuali.

Valerio Pollastrini

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