Inail, News del 26
agosto 2015
A cinquant’anni dal disastro causato da una valanga di
ghiaccio che travolse 88 operai impegnati nella costruzione di una diga nel canton
Vallese in Svizzera - tra cui 56 italiani -, lo storico Toni Ricciardi
ricostruisce i fatti in modo dettagliato e documentato nel saggio edito da
Donzelli
ROMA - Ore 17.15, 30 agosto 1965: a Mattmark in Svizzera,
canton Vallese, oltre due milioni di metri cubi di ghiaccio travolgono in pochi
secondi 88 lavoratori del cantiere posto alle pendici del ghiacciaio Allalin
per la costruzione della diga più grande d’Europa. Tra loro ci sono 56
italiani, alcuni dei quali sfuggiti alla tragedia del Vajont. Una pagina
dimenticata di storia dell’Europa e del lavoro a cui Toni Ricciardi, storico
delle migrazioni presso l’Università di Ginevra, nel libro edito da Donzelli
“Morire a Mattmark. L’ultima tragedia dell’emigrazione italiana”, restituisce
la memoria attraverso una ricostruzione dettagliata dei fatti, realizzata
raccogliendo fonti d’archivio inedite, testimonianze dei sopravvissuti e
articoli della stampa dell’epoca.
La posizione del
cantiere all’origine della tragedia.
Il Vallese era una delle regioni più povere della Svizzera
ma, essendo ricco di ghiacciai, era il luogo ideale per la produzione di
energia idroelettrica (su cui si puntava allora) e, dunque, per attirare
manodopera. “Questa catastrofe - spiega Toni Ricciardi - unì nord e sud dell’Italia:
il maggior numero di vittime italiane, infatti, proveniva dalla provincia di
Belluno seguita dal comune di San Giovanni in Calabria, gli altri da diverse
regioni del nostro Paese”. Con loro persero la vita, 23 svizzeri, quattro
spagnoli, due tedeschi, due austriaci e un apolide. Le baracche in cui
vivevano, le officine e la mensa erano state costruite alle pendici del
ghiacciaio per risparmiare sui costi di trasporto, nonostante nel corso dei
lavori - iniziati nel ’60 e terminati con l’inaugurazione della diga nel ’69 -
il ghiacciaio avesse ripetutamente dato cenni di cedimento, con il verificarsi
di valanghe e incidenti.
Le durissime
condizioni di vita e di lavoro degli operai.
Le condizioni di lavoro e di vita nel cantiere erano
durissime. Circa quindici, sedici ore al giorno invece delle undici previste
dai contratti, turni anche di domenica, - nel ’64 erano stati anche incentivati
gli straordinari per ultimare più velocemente i lavori, come risulta dagli
archivi - una situazione igienica precaria, con pochissimi bagni per molte
persone, senza acqua calda e temperature rigidissime. Il racconto fotografa un
esempio di vita da emigrante in Svizzera, sullo sfondo storico dell’epoca:
negli anni dal ‘58 al ’76, infatti, circa il 50% del flusso migratorio italiano
era orientato verso lo Stato elvetico. Una realtà che portò nel ’61 l’allora
ministro del Lavoro Sullo “a proporre, senza successo, l’equiparazione del
trattamento assicurativo tra lavoratori svizzeri e italiani” aggiunge
Ricciardi.
Ignorata la sicurezza
dei lavoratori.
La diga, oggi funzionante e in grado di fornire energia a
circa 150 mila famiglie, arrivò nel corso dei lavori di costruzione a impiegare
oltre mille lavoratori. La sicurezza all’interno del cantiere, però, non era
una priorità. A tal punto che, nel piano annuale di gestione delle slavine, si
fornivano indicazioni su come ripulire le strade e far ripartire l’attività nel
minor tempo possibile e nel modo più efficiente, mentre i rischi per le
baracche e le officine non erano neppure menzionati. Del resto, come emerge
dalle testimonianze, i lavoratori stessi, nella maggior parte dei casi, non
avevano una chiara percezione dei rischi che correvano. “Nel ’69, in una
classifica stilata dall’Organizzazione internazionale del lavoro – Ilo, la
Svizzera è il paese dell’Europa occidentale con il più alto numero di morti
bianche” rileva lo storico.
“Catastrofe
naturale”, al processo assoluzione per gli imputati.
Eppure nonostante le evidenti negligenze e la mancanza di
misure di prevenzione, il processo approderà - solamente nel ’72 - a una
sentenza di assoluzione in primo grado di tutti gli imputati, poi confermata in
appello. A prevalere fu la tesi della “catastrofe naturale” e i familiari delle
vittime furono condannati a pagare parte delle spese processuali. “Il processo
va contestualizzato nel momento storico, allora condannare gli imputati avrebbe
significato condannare un sistema e un Paese”, sottolinea Ricciardi. Inoltre,
bisogna ricordare che la Fondazione Mattmark erogò più di 4,5 milioni di
franchi in contribuiti e indennità ai familiari delle vittime e la Suva, l’ente
assicurativo svizzero per gli infortuni e le malattie professionali, oltre 60.
Una storia
dimenticata.
La vicenda ebbe un notevole impatto mediatico per l’epoca,
oltre 200 corrispondenti arrivarono in Svizzera da tutto il mondo per
raccontarla. “Mi ha colpito molto la testimonianza di un sopravvissuto che ha
raccontato di aver incontrato sul luogo del disastro, ancor prima degli addetti
ai soccorsi, un giornalista – spiega Ricciardi – È il paradosso di Mattmark,
una storia che ebbe un’enorme copertura mediatica, eppure dimenticata”. Tra le
diverse motivazioni di quest’oblio, quella che le ricostruzioni nel testo
sembrano suggerire come predominante è data dal ruolo dell’Italia all’epoca in
pieno boom economico, con lo sguardo rivolto al futuro tra le superpotenze
mondiali, più che alla memoria di una terribile catastrofe.