Corte di
Cassazione – Sentenza n.13158 del 25 giugno 2015
Svolgimento del
processo
Il Tribunale di
Venezia ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato dalla Azienda USLL
n. X. a M.S. infermiere professionale alle dipendenze dell’Azienda, ritenendo
che l’addebito contestatogli, consistente nell’avere il medesimo svolto la
stessa attività presso un centro privato convenzionato con il Servizio
sanitario nazionale, non fosse di gravità tale da giustificare la sanzione
espulsiva, tenuto conto dello scarsa attività lavorativa svolta dai dipendente
presso la struttura privata; che gli orari di lavoro non erano incompatibili con
quelli osservati presso l'Azienda; che non vi era conflitto di interessi tra la
struttura pubblica e quella privata, che il dipendente aveva agito in buona
fede.
Di diverso
avviso è stata la Corte di Appello di Venezia, la quale, a seguito di impugnazione
dell’Agenda, ha ritenuto viceversa legittimo il licenziamento.
La Corte anzidetta
ha osservato che, come definitivamente accertato dal giudice di primo grado,
non essendo stata proposta al riguardo alcuna impugnazione, l'attività non
consentita svolta dal dipendente presso il centro di analisi privato riguardava
il periodo giugno - dicembre 2006; che l'impegno lavorativo era stato non
superiore a 24 ore mensili; che l’art. 53 D. Lgs. n. 165/01 stabilisce il
principio della unicità del rapporto di lavoro con il Servizio sanitario
nazionale e la incompatibilità con ogni altro tipo di rapporto di lavoro
dipendente, anche di natura convenzionata con il Servizio sanitario nazionale:
che non era condivisibile la sentenza di primo grado che aveva considerato la
violazione commessa dal M. di scarsa gravità; che era ravvisabile nella specie
una situazione di conflitto di interessi potenziale; che lo svolgimento di
attività lavorativa per almeno dieci o dodici ore al mese nel centro di analisi
privato era idoneo ad incidere sul rapporto di lavoro con l’Azienda, tanto che
gli orari del M., di solito effettuati nella fascia oraria dalle 7,30 alle
9,30, subivano frequenti modifiche; che il divieto di prestare attività
lavorativa presso centri privati risultava dal contratto individuale di lavoro
sottoscritto dal dipendente, oltre che dal contratto collettivo; che la
condotta posta in essere dal dipendente costituiva violazione dell’elemento
fiduciario che sta alla base del rapporto di lavoro; che conseguentemente il licenziamento
era giustificato.
Per la
cassazione di questa sentenza il dipendente propone ricorso per cassazione
sulla base di sei motivi. L’Azienda resiste con controricorso, illustrato da
memoria.
Motivi della
decisione
1. Con il primo
motivo, denunciando vizio di motivazione su un punto decisivo della
controversia nonché violazione dell'art. 61 D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, in
relazione all'art. 53 D.Lgs n. 165 del 2001, il ricorrente, premesso che gli
era stato anche contestato dall'Azienda di avere svolto, nel periodo successivo
al dicembre 2006 e sino al maggio 2008, attività lavorativa a favore dello
stessa struttura privata quale sodo di una cooperativa - attività questa, ad
avviso dello stesso ricorrente, consentita, posto che il divieto di cumulo di
impieghi non si applica nei casi di lavoro svolto da un socio di una
cooperativa a norma dell‘art. 61 sopra menzionato - lamenta, se ben si coglie
il senso della censura, che la Corte di merito, nel prendere in esame
esclusivamente il periodo giugno - dicembre 2006, ritenendo che per il periodo
successivo ogni questione fosse preclusa dal giudicato, non ha chiarito la
questione circa la perdurante validità dell'art. 61 D.P.R. cit. a seguito
dell'entrata in vigore dell’art. 53 del D. Lgs. n. 165 del 2001.
Tale
chiarimento, aggiunge, avrebbe consentito al giudice d’appello di valutare
compiutamente la vicenda per cui è controversia.
2. Con il
secondo motivo, denunciando vizio di motivazione, il ricorrente deduce che la
Corte di merito ha omesso di considerare, ai fini della gravità della condotta,
che le sue presenze presso la struttura privata non erano superiori a 24 ore
mensili, con un impegno giornaliero di non più di due ore. Aggiunge che, come
era emerso dalla documentazione prodotta e dalla prova testimoniale, le
modifiche dei turni di lavoro presso l’Azienda veneziana non solo non
incidevano in alcun modo sulla prestazione lavorativa e sulla efficienza del
reparto cui esso ricorrente era addetto, ma costituivano una prassi normale,
risultando peraltro tutte autorizzate dall’Azienda.
3. Con il terzo
motivo, denunciando vizio di motivazione e violazione dell’art. 7 della legge
n. 300 del 1970, il ricorrente deduce che la contestazione disciplinare fa
riferimento al lavoro svolto da esso ricorrente presso la struttura privata dal
giugno 2006 al maggio 2008 "su incarico" della cooperativa. La Corte
di merito ha viceversa ritenuto che nei primi sei mesi egli avesse svolto
lavoro subordinato alle dipendente della struttura privata. E su tale erroneo
presupposto la stessa Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento, così
fondando la decisione su un fatto mai contestato in sede disciplinare.
4. Con il quarto
motivo, denunciando vizio di motivazione nonché violazione dell’art. 2106 cod.
civ., il ricorrente sostiene che, diversamente da quanto sostenuto dal giudice
di primo grado, la Corte di merito ha ritenuto che vi fosse un potenziale
conflitto di interessi con la struttura pubblica. Ma, aggiunge, all’epoca dei
fatti la struttura privata in questione era convenzionata con il Servizio
sanitario nazionale, sicché l’attività svolta da esso ricorrente presso tale
struttura - consistente nel prelievo di sangue ai pazienti per le relative
analisi - altro non era se non una attività integrativa di quella svolta dalla
struttura pubblica, attività che questa non riusciva ad assicurare.
5. Con il quinto
motivo, denunciando vizio di motivazione e violazione del CCNL dei dipendenti
del Servizio sanitario nazionale, art. 13, comma 8, lettera d), il ricorrente
lamenta che la Corte di merito non ha tenuto conto delle deroghe poste alla
esclusività del rapporto di pubblico impiego dall’art. 61 D.P.R. n. 3 del 1957,
richiamato dall’art. 53 del D. Lgs. n. 165 del 2001, con riferimento
all’attività dei soci delle cooperative. Aggiunge che il predetto CCNL non
contiene alcun divieto di prestare attività lavorativa presso centri privati,
ma solo un generico riferimento all’art. 2119 cod. civ., e che il Regolamento
vigente presso la ULSS veneziana in tema di incompatibilità adopera termini
vaghi, ingenerando confusioni ed incertezze. Da tutto ciò non può non ricavarsi
la buona fede di esso ricorrente, il quale in definitiva ha svolto un
limitatissimo carico di lavoro presso una struttura privata per conto di una
cooperativa sociale.
6. Con il sesto
motivo, denunciando vizio di motivazione, il ricorrente lamenta che la Corte
territoriale, nel ritenere giustificato il licenziamento, non ha adeguatamente
valutato i criteri generali posti dal CCNL sopra citato, art. 13, ai fini del
rispetto della gradualità e proporzionalità delle sanzioni, ed in particolare
lo stato di servizio di esso ricorrente, quasi trentennale e privo di
qualsivoglia censura disciplinare; la situazione familiare del medesimo;
l’elemento soggettivo, l’impegno di lavoro limitato a sole due ore giornaliere
per dodici giorni al mese; la mancanza di danno per l’azienda e per gli utenti;
la posizione di lavoro del ricorrente e la mancanza di responsabilità nello
svolgimento delle mansioni in questione; la totale assenza di disservizio
nell’organizzazione aziendale.
7. Osserva
innanzitutto la Corte che, come risulta dalla sentenza impugnata, devono
ritenersi pacifici perché non oggetto di impugnazione, i seguenti fatti
accertati dal giudice di primo grado:
- lo svolgimento,
da parte del ricorrente, di attività di lavoro subordinato alle dipendenze di
una struttura privata (laboratorio di analisi R.) dal giugno al dicembre 2006;
-
l’insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, nel periodo successivo,
nella stessa struttura, dal momento che le prestazioni lavorative sono state
rese dal ricorrente nell’ambito di un servizio di appalto stipulato con società
cooperative di cui il lavoratore era socio;
- l’entità
dell'attività lavorativa svolta dal ricorrente presso detta struttura, non
superiore a 24 ore mensili.
Alla stregua di
tali elementi, sono inammissibili, in quanto coperti dal giudicato:
- il primo
motivo, con il quale si lamenta che la sentenza impugnata non avrebbe dato
risposta al quesito se fosse o meno lecita l'attività prestata dal ricorrente
quale socio di una cooperativa, avendo viceversa la Corte considerato
definitivamente accertata la liceità di tale attività, tanto che nel prosieguo
si é occupata solo del primo periodo (giugno - dicembre 2006);
- il quinto
motivo, con il quale si lamenta che la Corte di merito non avrebbe tenuto conto
delle deroghe poste alla esclusività del rapporto di pubblico impiego dall’art.
61 D.P.R. n. 3 del 1957, richiamato dall’art. 53 del D. Lgs, n. 165 del 2001,
quando invece la Corte di merito, come detto in precedenza, ha considerato, ai
fini della decisione, solo il lavoro svolto dal ricorrente dal giugno al
dicembre 2006, non tenendo conto di quello svolto nel periodo successivo quale
socio della cooperativa.
8. Deve altresì
ritenersi inammissibile la censura relativa al terzo motivo, non risultando dal
ricorso di primo grado e dalla memoria difensiva depositata nel giudizio di
appello, trascritti nel ricorso, che il ricorrente abbia sollevato nei
precedenti giudizi la questione relativa al licenziamento per un fatto diverso
da quello contestato.
9. Deve ancora
rilevarsi che il divieto di cumulo di impieghi è previsto, con riguardo al caso
in esame, dal D. Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, primo comma, il quale dispone
che per i dipendenti pubblici restano ferme, tra l’altro, le disposizioni di
cui all’art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991, secondo cui con il
Servizio sanitario nazionale può intercorrere un unico rapporto di lavoro. Tale
rapporto è incompatibile con ogni altro rapporto di lavoro dipendente, pubblico
o privato, e con altri rapporti anche di natura convenzionale con il Servizio
sanitario nazionale.
10. Tutto ciò
premesso, ritiene il Collegio fondati gli altri tre motivi (secondo, quarto e
sesto), i quali vanno trattati congiuntamente in ragione della loro
connessione.
E’ principio
consolidato di questa Corte che in tema di licenziamento per giusta causa, ai
fini della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in
considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di
scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione
del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi
ritenere determinante, a tal fine, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia
in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete
modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in
dubbio la futura correttezza dell'adempimento e denoti una scarsa inclinazione
ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio
comportamento ai canoni di buona fede e correttezza (cfr., fra le altre, Cass.
22 giugno 2009 n. 14586; Cass. 26 luglio 2010 n. 17514; Cass. 13 febbraio 2012
n. 2013).
La gravità
dell’inadempimento deve essere valutata nel rispetto della regola generale
della "non scarsa importanza" di cui all’art. 1455 c.c., sicché
l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata
solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali,
tale cioè da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro per essersi
irrimediabilmente incrinato il rapporto di fiducia, da valutarsi in concreto in
considerazione della realtà aziendale e delle mansioni svolte (Cass. 10
dicembre 2007 n. 25743).
Non è
sufficiente, per ritenere giustificato un licenziamento, che una disposizione
di legge sia stata violata dal lavoratore o che un obbligo contrattuale non sia
stato dal medesimo adempiuto, occorrendo pur sempre che tali violazioni siano
di una certa rilevanza e presentino i caratteri in precedenza enunciati.
A tal riguardo,
va assegnato rilievo all'intensità dell’elemento intenzionale, al grado di
affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione
del rapporto, alla durata dello stesso, alla natura e alla tipologia del
rapporto medesimo.
Nella specie la
Corte territoriale ha ritenuto di non condividere il giudizio di scarsa gravità
espresso dal giudice di primo grado, sulla base delle seguenti considerazioni;
- lo svolgimento
di attività presso la struttura privata comportava una situazione di conflitto
di interessi potenziale:
- tale attività
veniva prestata per "un tempo apprezzabile", e cioè "per almeno
dieci o dodici mattine al mese", e peraltro dalle ore 7,30 alle ore 9,30,
in cui il dipendente era tenuto ad assicurare la propria presenza nella
struttura pubblica, con la conseguenza che il suo orario di lavoro subiva
frequenti modifiche;
- il divieto di
prestare attività presso centri privati risultava dal contratto individuale di
lavoro, da fonti contrattuali nonché da fonti normative;
- la condotta
del ricorrente, tenuto conto della sua durata, del vincolo di esclusività e del
venir meno della situazione di incompatibilità solo a seguito dell’accertamento
compiuto dalla Direzione provinciale del lavoro, costituiva una violazione
dell’elemento fiduciario che sta alla base del rapporto di lavoro.
Non ritiene
questo Collegio che dette argomentazioni siano idonee a sorreggere la
decisione, non apparendo la sentenza impugnata adeguatamente motivata.
Ed infatti la
Corte di merito, nel ritenere che nella condotta del dipendente sia ravvisabile
un conflitto di interessi e che tale condotta comportava "frequenti
modifiche" nell'orano di lavoro, con conseguenti disservizi, non considera
che i cambi di turno, come risulta dalle dichiarazioni dei testi riportate in
ricorso e dalla nota del Direttore del Dipartimento di anestesia e
rianimazione, allegata al ricorso, venivano effettuati "praticamente"
da "tutti i colleghi" del ricorrente, previo avviso all'infermiere
coordinatore o al suo sostituto. Tanto meno, la sentenza impugnata spiega il
tipo di disservizi che il cambio di orario comportava per la struttura
pubblica, una volta che tale cambio veniva comunicato in anticipo.
Quanto alla
gravità della condotta, la Corte territoriale, nel ritenere "apprezzabile
il tempo dedicato" alla struttura privata, non considera che "dieci o
dodici mattine" al mese "nella fascia oraria dalle 7,30 alle
9,30", equivalgono complessivamente a 20 - 24 ore mensili.
In ordine, poi,
all’elemento soggettivo, se è vero che la esclusività del rapporto era prevista
dal contratto individuale e da fonti normative, sussistevano deroghe a tale
divieto, tanto che per il periodo gennaio 1997 - maggio 1998, l’attività
prestata dal ricorrente presso il centro privato) quale socio di una
cooperativa, è stata ritenuta legittima, con sentenza del primo giudice passata
sul punto in giudicato.
Ancora, la Corte
di merito non ha considerato che la valutazione della Amministrazione circa la
gravità della condotta tenuta dal ricorrente è stata effettuata con riguardo ad
un periodo di circa due anni (giugno 2006 - maggio 2008, ben più ampio di
quello di sette mesi considerato dalla Corte di merito.
Infine, alcun
riferimento la Corte di merito ha fatto alle "responsabilità connesse alla
posizione di lavoro occupata dal dipendente", al "grado di danno o di
pericolo causato all'azienda o ente, agli utenti o a terzi", alla
"sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti, con particolare
riguardo al comportamento del lavoratore" ed ai precedenti disciplinari,
criteri questi previsti dall’art. 13 CCNL dei dipendenti del Servizio sanitario
nazionale del 19 aprile 2004, come modificato dal CCNL del 10 aprile 2008, ai
fini del rispetto del principio di gradualità e proporzionalità delle sanzioni,
in relazione alla gravità della mancanza.
Il ricorso, nei
termini sopra indicati, deve pertanto essere accolto, con la conseguente
cassazione della impugnata sentenza e con rinvio al giudice indicato in
dispositivo, il quale dovrà riesaminare la causa in base ai principi e ai
criteri sopra enunciati, provvedendo anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il
ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte
di Appello di Milano.
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