In
particolare, dette modifiche alla formulazione iniziale del Decreto spaziano dall’allargamento
della platea dei destinatari, alla sostituzione del parametro di riferimento
per il calcolo dell’indennità risarcitoria, fino all’introduzione di ulteriori
adempimenti posti a carico dei datori di
lavoro.
Nelle
pagine seguenti, si riporta il testo integrale della Circolare in commento.
Fondazione Studi
Consulenti del lavoro
Circolare n.6
dell’11 marzo 2015
TUTELE
CRESCENTI: L’ANALISI DELLE NOVITA’
E’
stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 54 del 6 marzo 2015 il DECRETO
LEGISLATIVO 4 marzo 2015, n. 23 (in seguito “decreto”) contenente disposizioni
in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in
attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183, entrato in vigore il 7 marzo
2015.
La
stesura finale del provvedimento contiene alcune significative modifiche
rispetto allo schema predisposto lo scorso 24 dicembre 2014 e inviato alle
Camere per il previsto parere.
Per
una disamina generale del provvedimento si rinvia alla circolare n. 1/2015 del
7 gennaio scorso e la successiva n. 4/2015, mentre con la presente circolare si
analizzano le sole novità introdotte nel testo pubblicato in Gazzetta
Ufficiale.
In
particolare, le novità riguardano l’allargamento della platea dei destinatari,
la sostituzione del parametro di riferimento per il calcolo dell’indennità
risarcitoria, alcune opportune puntualizzazioni al testo e nuovi adempimenti
amministrativi con relativa sanzione posti a carico delle aziende.
Destinatari del decreto
Nell’articolo
1 è stato introdotto il nuovo comma 2 il quale stabilisce che “Le disposizioni
di cui al presente decreto si applicano anche nei casi di conversione,
successiva all'entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo
determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato”.
La
norma fa riferimento ad una generica “conversione” del contratto a termine e
dunque trovano applicazione le tutele crescenti sia nel caso in cui i contratti
a tempo determinato, avviati prima del 7 marzo 2015, siano convertiti – senza
soluzione di continuità – dal datore di lavoro a partire dal 7 marzo 2015; ma le
tutele crescenti si applicano anche laddove la conversione sia una conseguenza
di un regime sanzionatorio (art. 5, D.Lgs.368/2001) a condizione che essa si
collochi in un ambito temporale a decorrere dal 7 marzo 2015.
Diversamente,
troverà applicazione il regime dell’articolo 18 della legge n. 300/1970 per le
conversioni ex tunc dei contratti a termine il cui effetto retroagisce ad una
data precedente al 7 marzo 2015.
Anche
gli apprendisti che proseguono il rapporto di lavoro, dopo l’entrata in vigore
del decreto, a seguito del mancato esercizio della facoltà di recesso al termine
del periodo di formazione, ai sensi dell’art. 2 lett. m) del D.Lgs. n.167/2011,
rientrano nel novero dei contratti a tutele crescenti.
È
appena il caso di sottolineare l’inadeguata locuzione utilizzata in merito alla
“conversione” del rapporto di apprendistato, posto che si tratta di un
contratto a tempo indeterminato ab initio, per una rinuncia del datore di lavoro
alla facoltà di recesso prevista dalla sopra citata norma.
Definizione di licenziamento discriminatorio
Uno
dei pochi casi in cui resiste il diritto alla reintegra nel posto di lavoro è
la dichiarazione di nullità del licenziamento, perché “discriminatorio”, ma
solo come definito dall’art. 15 della legge 300 del 1970. L’intento del legislatore
è teso a tipizzare il più possibile le casistiche limitando così l’ambito di
intervento del giudice.
Nella
prima stesura, il testo si limitava alla generica indicazione del termine
“discriminatorio” senza fare riferimento alcuno, lasciando aperta la possibile
inclusione anche di quelli individuati come tali ad esempio dal D.Lgs.
n.198/2006, art. 26 c. 3 che sancisce: “sono considerate altresì
discriminazioni quei trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che costituiscono
una reazione ad un reclamo, o ad una azione volta ad ottenere il rispetto del
principio di parità di trattamento tra uomini e donne”.
Tale
principio, peraltro, a prescindere dal preciso richiamo nelle altre norme
antidiscriminatorie, è stato alla base dell'orientamento prevalente della
giurisprudenza, con cui si afferma che il carattere ritorsivo del licenziamento
che determina la nullità del provvedimento, perché illecito è il motivo determinante
posto alla base dello stesso, ai sensi dell’art. 1345 cc e dell'art. 1418 cc.
Restano, pertanto, quali licenziamenti discriminatori, quelli legati a ragioni
di ordine sindacale, politico,
religioso,
razziale, di lingua, di sesso, di handicap, di età, basate sull'orientamento
sessuale o sulle convinzioni personali.
Tale
principio, peraltro, a prescindere dal preciso richiamo nelle altre norme
antidiscriminatorie, è stato alla base dell'orientamento prevalente della
giurisprudenza, con cui si afferma che il carattere ritorsivo del licenziamento
che determina la nullità del provvedimento, perché illecito è il motivo determinante
posto alla base dello stesso, ai sensi dell’art. 1345 cc e dell'art. 1418 cc.
Restano, pertanto, quali licenziamenti discriminatori, quelli legati a ragioni
di ordine sindacale, politico,
religioso,
razziale, di lingua, di sesso, di handicap, di età, basate sull'orientamento
sessuale o sulle convinzioni personali.
Peraltro,
la giurisprudenza ha sinora spesso affermato che “il divieto di licenziamento
discriminatorio - sancito dall'art. 4 legge n. 604 del 1966, dall'art. 15 legge
n. 300 del 1970 e dall'art. 3 legge n. 108 del 1990 - è suscettibile di
interpretazione estensiva, sicché l'area dei singoli motivi vietati comprende
anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia” (ad es. Cass. 18 marzo
2011, n. 6282). Va in ogni caso dato atto che dal riferimento a “tutti gli
altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge", può dedursi una
accezione del concetto di nullità e di ambito applicativo del regime di cui
all’art. 2 del d.lgs.n. 23/2015 di ampiezza sostanzialmente identica ai primi
tre commi dell’art. 18 dello Statuto.
Determinazione dell’indennità risarcitoria
Il
decreto contiene una significativa modifica in ordine alla determinazione
dell’indennità risarcitoria. In particolare, ogni qual volta il giudice
condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per
il licenziamento individua a tal fine un'indennità commisurata “all'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto”.
Prima
di questa versione della norma, il decreto faceva riferimento alla nozione di
“ultima retribuzione globale di fatto” che è stata introdotta nell’art. 18
della legge n. 300/1970 dalla legge n. 92/2012 la quale a sua volta recepiva
precedenti orientamenti giurisprudenziali.
In
passato si era interpretato il concetto di retribuzione globale di fatto di cui
alla legge n. 108/1990 che ha modificato l’art. 18 della l. 300/1970,
affermando che “La nozione di retribuzione globale di fatto, alla quale è da
commisurare il risarcimento del danno spettante al lavoratore illegittimamente
licenziato, deve essere intesa come coacervo delle somme che risultino dovute,
anche in via non continuativa, purché non occasionale, in dipendenza del rapporto
di lavoro e in correlazione ai contenuti e alle modalità di esecuzione della
prestazione lavorativa, così da costituire il trattamento economico normale,
che sarebbe stato effettivamente goduto, se non vi fosse stata l'estromissione dall'azienda.
“ (Cass. sent, n. 18441 del 24.08.2006).
Inoltre,
“La nozione di retribuzione globale di fatto prevista dall'art. 18 legge n.
300/1970 come base di calcolo per il licenziamento illegittimo non può
ricomprendere i ratei e/o l'indennità di ferie non godute, attesa la natura
risarcitoria di quest'ultima
voce ed in considerazione della funzione squisitamente compensativa di questo
istituto, che presuppone infatti l'avvenuto ed effettivo espletamento della
prestazione lavorativa.”(cfr. Tribunale Forlì, civile Sentenza 1 giugno 2011).
Mentre
“Le maggiorazioni retributive e le indennità erogate in corrispettivo di
prestazioni di lavoro notturno, non occasionali, ma continuative ed organizzate
secondo regolari turni periodici, costituiscono parte integrante della
ordinaria retribuzione globale di fatto giornaliera e, come tali, concorrono
alla composizione della base di computo dei compensi per ferie e festività, dell'indennità
di anzianità, del trattamento di fine rapporto ed in genere di quegli istituti
retributivi per la cui liquidazione la legge o la contrattazione collettiva
facciano riferimento a siffatta nozione di retribuzione globale di fatto.
(Nella specie, la S.C. ha confermato sul punto la sentenza impugnata che,
interpretando l'art. 18 del c.c.n.l. 31 maggio 1987 per i lavoratori delle autostrade
secondo cui il compenso per "l'eventuale" lavoro notturno è elemento
solo "aggiuntivo" della retribuzione, ha ritenuto che la disposizione
si riferisse al solo lavoro notturno non sistematico).”(Cass. sent. n. 2872 del
07.02.2008, in senso conforme Cass. sent. n. 12760 del 01.09.2003).
Pertanto,
si è comunemente inteso che “In tema di risarcimento dei danni da licenziamento
illegittimo, l'indennità risarcitoria di cui all'art. 18 della legge 20 maggio
1970, n.300 deve essere liquidata in riferimento alla retribuzione globale di
fatto spettante al lavoratore al tempo del licenziamento, comprendendo nel
relativo parametro di computo non soltanto la retribuzione base, ma anche ogni
compenso di carattere continuativo che si ricolleghi alle particolari modalità
della prestazione in atto al momento del licenziamento (con esclusione, quindi,
dei soli emolumenti eventuali, occasionali od eccezionali), in quanto
altrimenti verrebbero ad essere addossate al lavoratore le conseguenze negative
di un illecito altrui. (Nella specie, la S.C., nell'enunciare l'anzidetto
principio, ha cassato la sentenza impugnata, che aveva escluso dalla base di calcolo
dell'indennità risarcitoria l'indennità di mensa avente carattere
convenzionale, l'indennità di rischio, il concorso nelle spese tranviarie, il
premio di rendimento ed il premio di produttività, senza considerare che l'assenza
del dipendente cui si ricollegava la mancata fruizione dei detti emolumenti era
derivata dall'illegittima estromissione dello stesso dall'azienda)” (cfr. Corte
di Cassazione, sez.lav., sent. n. 19956 del 16.09.2009).
Del
resto “in caso di licenziamento dichiarato illegittimo, è onere del lavoratore
fornire prova adeguata in merito all'entità e alla composizione della retribuzione
globale di fatto, goduta al momento del recesso, da prendere come base per il
calcolo del risarcimento del danno.” (in tal senso Cass. Sent. 27 novembre 2014,
n. 25244).
Pertanto
il computo in esame “implica la rilevanza della media dei compensi corrisposti
di fatto nell'ultimo periodo prima del licenziamento, anche se tale
procedimento può comportare una discrepanza rispetto a quanto sarebbe dovuto in
base agli elementi fissi e continuativi della retribuzione - si riferisce ad un
caso in cui il giudice di merito aveva valorizzato le retribuzioni risultanti
dalle buste paga prodotte, relative agli ultimi quattro mesi prima del
licenziamento, in cui erano state prestati orari complessivi molto
differenziati. (Cass. n. 9307/2000).
Nel
caso in esame, la specifica questione sottoposta all'esame della Corte riguarda
l'aggiornamento delle retribuzioni, e la soluzione ad essa offerta dal Giudice
d'appello appare corretta considerata la natura risarcitoria delle somme
spettanti al lavoratore in seguito all'illegittimo licenziamento rispetto alla quale
l'aggiornamento è espressione di detta natura.” (Cass. sent. n. 19285 del
22.09.2011).
Chiarito
il sistema previgente, si evidenzia che sin dalle modifiche intervenute per
effetto della legge n. 92/2012, che per prima ha introdotto l’aggettivo “ultima”
alla retribuzione cui fare riferimento per la determinazione del risarcimento
del danno da licenziamento illegittimo, le parti depositano l’ultimo cedolino paga
al momento della costituzione in giudizio ed il Giudice forma il proprio convincimento,
in ordine alla misura dell’indennizzo, utilizzando il riferimento esposto
nell’ultima busta paga del rapporto, ove non contestata.
Resta
ora da capire se la versione definitiva del decreto possa portare ad una
diversa conclusione.
Due
sono i profili di analisi; il primo riguarda la individuazione degli elementi
retributivi utili; il secondo, è l’ambito temporale cui fare riferimento per
individuare tale retribuzione.
Con
riferimento al primo aspetto il legislatore effettua un sostanziale, anche se
non esplicito, rinvio all’articolo 2120, comma 4 del codice civile in cui è
stabilito “Salvo diversa previsione dei contratti collettivi la retribuzione
annua, ai fini del comma precedente, comprende tutte le somme, compreso l'equivalente
delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro,
a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso
spese” cui è possibile richiamare l’importante produzione giurisprudenziale che
ha definito ad oggi in modo sostanzialmente puntuale la previsione codicistica.
Più problematica è l’individuazione dell’ambito temporale cui fare riferimento per
individuare la/le mensilità dell’indennità risarcitoria. Al riguardo, la norma
fa riferimento “all’ultima” retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR,
a sua volta l’articolo 2120 del codice civile, individua quale periodo di
riferimento, un periodo annuale (il riferimento è alla “retribuzione annua”).
Il
combinato disposto delle due norme porterebbe a ritenere che la retribuzione
cui fare riferimento è quella dell’ultimo anno (o frazione di anno) dovuta
(indipendentemente se corrisposta) al lavoratore, rapportata a mese.
Pertanto,
ad esempio, un licenziamento illegittimo effettuato il 31 dicembre 2015,
porterebbe ad individuare la retribuzione utile ai fini del TFR nel periodo 1 gennaio
/31 dicembre dello stesso anno rapportata a mese (retribuzione annua/12 per il
numero di mensilità previste dal decreto).
Un
licenziamento effettuato il 31 marzo 2016, porterebbe ad individuare il periodo
di riferimento tra il 1 gennaio/31 marzo 2016 rapportata anch’essa a mese
(retribuzione del periodo/3 per il numero di mensilità previste dal decreto).
Questa
modalità sembrerebbe assicurare un’ equa individuazione della retribuzione,
utile a determinare l’indennità risarcitoria.
Una
diversa interpretazione, che in questa sede non appare preferibile, è
rappresentata dalla retribuzione corrisposta nell’ultimo mese al termine del
rapporto. Tuttavia, alla cessazione del rapporto (con l’ultima busta paga)
nella prassi sono corrisposti diversi emolumenti tipici di questo evento che rischierebbero
di alterare, anche quantitativamente, la definizione di mese previsto dalla
norma.
Comparando
la precedente definizione (retribuzione globale di fatto) con quella attuale
(retribuzione utile ai fini del TFR), si ritiene che la nuova formulazione
possa di fatto tradursi in una riduzione dell’importo dell’indennità
risarcitoria da corrispondere al dipendente in caso di licenziamento
illegittimo. Ciò in quanto la Cassazione ha chiarito, ad integrazione dell’art.
2120 cc, quali siano le voci da escludere dal computo del TFR. Si tratta di
quelle collegate a ragioni del tutto imprevedibili, accidentali e fortuite rispetto
al normale svolgimento dell’attività lavorativa, quali ad esempio il lavoro
straordinario occasionale e non continuativo, l’indennità di trasferta,
l’indennità di viaggio stabilita in ragione chilometrica secondo tariffe Aci, il
rimborso spese, ivi compreso quello a piè di lista.
Sanzioni per omissione contributiva
L’articolo
3, comma 2 del decreto nel ribadire che in caso di insussistenza del fatto materiale
il datore di lavoro è condannato, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali
dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, in
esso aggiunge “senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva”.
Pertanto,
nel caso di reintegra al lavoratore compete la copertura contributiva, ma nel
testo definitivo del decreto è stabilito che il datore di lavoro è
esplicitamente escluso dall’applicazione delle sanzioni per omissione
contributiva.
Tale
esclusione esplicita appare quanto mai opportuna ed in linea con il comma 4
dell’art 18 legge n.300/70 come riscritto dalla legge n.92/2012.
La
predetta legge, nel modificare l’art. 18 aveva, infatti, operato una
sistemazione di tale conseguenza (applicazione o meno delle sanzioni per
omissione contributiva) a seguito di reintegra, distinguendo due casi:
1) il primo,
previsto dai commi 1 e 2, nel qual caso, a seguito di vizio di nullità, la
sentenza che contiene l'ordine di reintegrazione è dichiarativa quindi
l'obbligo contributivo è riconosciuto ora per allora e ne consegue una vera e propria
omissione contributiva;
2) il secondo, previsto dal comma 4, nel qual caso, a
seguito del vizio di annullabilità, la sentenza che contiene l'ordine di
reintegrazione è costitutiva e quindi l'obbligo contributivo è ripristinato ex
tunc senza pertanto che ci sia omissione contributiva.
La
mancata indicazione nel nuovo decreto avrebbe di fatto potuto riaccendere le
questioni in merito sulle quali si era da ultimo pronunciata la Corte di
Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 17 giugno – 18 settembre 2014, n.
19665.
Correzioni formali
Il
testo finale del decreto contiene la correzione di un mero errore materiale
nell’articolo 6, laddove sostituisce il richiamo all’art. 82 del D.Lgs. n.
76/2003 al più opportuno art. 76 che individua le sedi di certificazione che
sono abilitate anche alle rinunce e transazioni.
Si
ricorda che l’articolo 6 del decreto intende individuare le sedi presso cui
espletare l’offerta di conciliazione che pertanto, oltre a quelle di cui al c.
4 dell’art. 2113 cc, saranno anche quelle elencate nell’art. 76 del DLgs n.276/03
comprese le commissioni istituite presso i Consigli Provinciali degli Ordini
dei Consulenti del Lavoro.
Limite all’esenzione fiscale dell’offerta
conciliativa
Sempre
nell’art. 6, è stata apportata una modifica con l’intento di circoscrivere
l’esenzione dall’imposizione fiscale alle sole somme offerte dal datore di
lavoro a fronte della definitiva cessazione del rapporto di lavoro e la conseguente
rinuncia da parte del lavoratore all’impugnazione del licenziamento,
confermando la posizione interpretativa già espressa dalla Fondazione Studi
nella circolare n. 1/2015.
Nuova comunicazione di fine rapporto
Nell’ambito
del monitoraggio del mercato del lavoro di cui alla legge n. 92/2012, l’art. 6,
comma 3 del decreto stabilisce che “la comunicazione obbligatoria telematica di
cessazione del rapporto di cui all'articolo 4-bis del decreto legislativo 21
aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni, e' integrata da una ulteriore comunicazione,
da effettuarsi da parte del datore di lavoro entro 65 giorni dalla cessazione
del rapporto, nella quale deve essere
indicata l'avvenuta ovvero la non avvenuta conciliazione di cui al comma 1 e la
cui omissione è assoggettata alla medesima sanzione prevista per l'omissione
della comunicazione di cui al predetto articolo 4-bis. Il modello di trasmissione
della comunicazione obbligatoria è conseguentemente riformulato”.
Il
legislatore ha scelto di introdurre una doppia comunicazione relativa alla
cessazione del rapporto; la prima, entro il termine di 5 giorni dalla fine del
rapporto, la seconda entro 65 giorni dalla medesima cessazione, al solo fine di
monitorare l’attuazione dell’offerta di conciliazione.
Il
motivo di tale scadenza deriva dalla sommatoria dei termini di impugnazione stragiudiziale
(60 gg) e quelli per l’invio ordinario della C.O. (5 gg).
Rispetto
ai tempi di effettuazione della comunicazione (65 giorni) si fa presente che
essi potrebbero risultare incompatibili rispetto alle dinamiche di svolgimento
della conciliazione.
Infatti,
l’art. 6, comma 1 del decreto stabilisce che “il datore di lavoro può offrire
al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento
(ndr 60 giorni)”, ma questo non significa che l’intero procedimento
conciliativo si esaurisca entro i 60 giorni.
Ciò
in quanto, l’offerta conciliativa potrebbe essere regolarmente presentata nei
termini, ma il lavoratore accetti la stessa in una o più riunioni successive in
relazione anche alla complessità della conciliazione.
La
mancata o tardiva comunicazione, tuttavia, è sanzionata al pari di quella
inerente la cessazione del rapporto, anche se i dati in essa contenuti non sono
sostanziali ai fini del rapporto di lavoro stesso.
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