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venerdì 13 marzo 2015

Le tutele crescenti analizzate dalla Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro

Dopo l’entrata in vigore del  Decreto Legislativo n.23 del 4 marzo 2015, recante, nell’ambito dell’applicazione del Jobs Act, l’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, con annesso nuovo regime di tutela contro i licenziamenti, la Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro ha analizzato  le  modifiche apportate al provvedimento nel corso dei vari passaggi istituzionali che hanno condotto alla sua definitiva approvazione.

In particolare, dette modifiche alla formulazione iniziale del Decreto spaziano dall’allargamento della platea dei destinatari, alla sostituzione del parametro di riferimento per il calcolo dell’indennità risarcitoria, fino all’introduzione di ulteriori adempimenti posti a carico  dei datori di lavoro.

Nelle pagine seguenti, si riporta il testo integrale della Circolare in commento.


Fondazione Studi Consulenti del lavoro
Circolare n.6 dell’11 marzo 2015

TUTELE CRESCENTI: L’ANALISI DELLE NOVITA’

E’ stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 54 del 6 marzo 2015 il DECRETO LEGISLATIVO 4 marzo 2015, n. 23 (in seguito “decreto”) contenente disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183, entrato in vigore il 7 marzo 2015.
La stesura finale del provvedimento contiene alcune significative modifiche rispetto allo schema predisposto lo scorso 24 dicembre 2014 e inviato alle Camere per il previsto parere.
Per una disamina generale del provvedimento si rinvia alla circolare n. 1/2015 del 7 gennaio scorso e la successiva n. 4/2015, mentre con la presente circolare si analizzano le sole novità introdotte nel testo pubblicato in Gazzetta Ufficiale.
In particolare, le novità riguardano l’allargamento della platea dei destinatari, la sostituzione del parametro di riferimento per il calcolo dell’indennità risarcitoria, alcune opportune puntualizzazioni al testo e nuovi adempimenti amministrativi con relativa sanzione posti a carico delle aziende.

Destinatari del decreto
Nell’articolo 1 è stato introdotto il nuovo comma 2 il quale stabilisce che “Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano anche nei casi di conversione, successiva all'entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato”.
La norma fa riferimento ad una generica “conversione” del contratto a termine e dunque trovano applicazione le tutele crescenti sia nel caso in cui i contratti a tempo determinato, avviati prima del 7 marzo 2015, siano convertiti – senza soluzione di continuità – dal datore di lavoro a partire dal 7 marzo 2015; ma le tutele crescenti si applicano anche laddove la conversione sia una conseguenza di un regime sanzionatorio (art. 5, D.Lgs.368/2001) a condizione che essa si collochi in un ambito temporale a decorrere dal 7 marzo 2015.
Diversamente, troverà applicazione il regime dell’articolo 18 della legge n. 300/1970 per le conversioni ex tunc dei contratti a termine il cui effetto retroagisce ad una data precedente al 7 marzo 2015.
Anche gli apprendisti che proseguono il rapporto di lavoro, dopo l’entrata in vigore del decreto, a seguito del mancato esercizio della facoltà di recesso al termine del periodo di formazione, ai sensi dell’art. 2 lett. m) del D.Lgs. n.167/2011, rientrano nel novero dei contratti a tutele crescenti.
È appena il caso di sottolineare l’inadeguata locuzione utilizzata in merito alla “conversione” del rapporto di apprendistato, posto che si tratta di un contratto a tempo indeterminato ab initio, per una rinuncia del datore di lavoro alla facoltà di recesso prevista dalla sopra citata norma.

Definizione di licenziamento discriminatorio
Uno dei pochi casi in cui resiste il diritto alla reintegra nel posto di lavoro è la dichiarazione di nullità del licenziamento, perché “discriminatorio”, ma solo come definito dall’art. 15 della legge 300 del 1970. L’intento del legislatore è teso a tipizzare il più possibile le casistiche limitando così l’ambito di intervento del giudice.
Nella prima stesura, il testo si limitava alla generica indicazione del termine “discriminatorio” senza fare riferimento alcuno, lasciando aperta la possibile inclusione anche di quelli individuati come tali ad esempio dal D.Lgs. n.198/2006, art. 26 c. 3 che sancisce: “sono considerate altresì discriminazioni quei trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che costituiscono una reazione ad un reclamo, o ad una azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne”.
Tale principio, peraltro, a prescindere dal preciso richiamo nelle altre norme antidiscriminatorie, è stato alla base dell'orientamento prevalente della giurisprudenza, con cui si afferma che il carattere ritorsivo del licenziamento che determina la nullità del provvedimento, perché illecito è il motivo determinante posto alla base dello stesso, ai sensi dell’art. 1345 cc e dell'art. 1418 cc. Restano, pertanto, quali licenziamenti discriminatori, quelli legati a ragioni di ordine sindacale, politico,
religioso, razziale, di lingua, di sesso, di handicap, di età, basate sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.
Tale principio, peraltro, a prescindere dal preciso richiamo nelle altre norme antidiscriminatorie, è stato alla base dell'orientamento prevalente della giurisprudenza, con cui si afferma che il carattere ritorsivo del licenziamento che determina la nullità del provvedimento, perché illecito è il motivo determinante posto alla base dello stesso, ai sensi dell’art. 1345 cc e dell'art. 1418 cc. Restano, pertanto, quali licenziamenti discriminatori, quelli legati a ragioni di ordine sindacale, politico,
religioso, razziale, di lingua, di sesso, di handicap, di età, basate sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.
Peraltro, la giurisprudenza ha sinora spesso affermato che “il divieto di licenziamento discriminatorio - sancito dall'art. 4 legge n. 604 del 1966, dall'art. 15 legge n. 300 del 1970 e dall'art. 3 legge n. 108 del 1990 - è suscettibile di interpretazione estensiva, sicché l'area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia” (ad es. Cass. 18 marzo 2011, n. 6282). Va in ogni caso dato atto che dal riferimento a “tutti gli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge", può dedursi una accezione del concetto di nullità e di ambito applicativo del regime di cui all’art. 2 del d.lgs.n. 23/2015 di ampiezza sostanzialmente identica ai primi tre commi dell’art. 18 dello Statuto.

Determinazione dell’indennità risarcitoria
Il decreto contiene una significativa modifica in ordine alla determinazione dell’indennità risarcitoria. In particolare, ogni qual volta il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento individua a tal fine un'indennità commisurata “all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto”.
Prima di questa versione della norma, il decreto faceva riferimento alla nozione di “ultima retribuzione globale di fatto” che è stata introdotta nell’art. 18 della legge n. 300/1970 dalla legge n. 92/2012 la quale a sua volta recepiva precedenti orientamenti giurisprudenziali.
In passato si era interpretato il concetto di retribuzione globale di fatto di cui alla legge n. 108/1990 che ha modificato l’art. 18 della l. 300/1970, affermando che “La nozione di retribuzione globale di fatto, alla quale è da commisurare il risarcimento del danno spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, deve essere intesa come coacervo delle somme che risultino dovute, anche in via non continuativa, purché non occasionale, in dipendenza del rapporto di lavoro e in correlazione ai contenuti e alle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, così da costituire il trattamento economico normale, che sarebbe stato effettivamente goduto, se non vi fosse stata l'estromissione dall'azienda. “ (Cass. sent, n. 18441 del 24.08.2006).
Inoltre, “La nozione di retribuzione globale di fatto prevista dall'art. 18 legge n. 300/1970 come base di calcolo per il licenziamento illegittimo non può ricomprendere i ratei e/o l'indennità di ferie non godute, attesa la natura risarcitoria di quest'ultima voce ed in considerazione della funzione squisitamente compensativa di questo istituto, che presuppone infatti l'avvenuto ed effettivo espletamento della prestazione lavorativa.”(cfr. Tribunale Forlì, civile Sentenza 1 giugno 2011).
Mentre “Le maggiorazioni retributive e le indennità erogate in corrispettivo di prestazioni di lavoro notturno, non occasionali, ma continuative ed organizzate secondo regolari turni periodici, costituiscono parte integrante della ordinaria retribuzione globale di fatto giornaliera e, come tali, concorrono alla composizione della base di computo dei compensi per ferie e festività, dell'indennità di anzianità, del trattamento di fine rapporto ed in genere di quegli istituti retributivi per la cui liquidazione la legge o la contrattazione collettiva facciano riferimento a siffatta nozione di retribuzione globale di fatto. (Nella specie, la S.C. ha confermato sul punto la sentenza impugnata che, interpretando l'art. 18 del c.c.n.l. 31 maggio 1987 per i lavoratori delle autostrade secondo cui il compenso per "l'eventuale" lavoro notturno è elemento solo "aggiuntivo" della retribuzione, ha ritenuto che la disposizione si riferisse al solo lavoro notturno non sistematico).”(Cass. sent. n. 2872 del 07.02.2008, in senso conforme Cass. sent. n. 12760 del 01.09.2003).
Pertanto, si è comunemente inteso che “In tema di risarcimento dei danni da licenziamento illegittimo, l'indennità risarcitoria di cui all'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n.300 deve essere liquidata in riferimento alla retribuzione globale di fatto spettante al lavoratore al tempo del licenziamento, comprendendo nel relativo parametro di computo non soltanto la retribuzione base, ma anche ogni compenso di carattere continuativo che si ricolleghi alle particolari modalità della prestazione in atto al momento del licenziamento (con esclusione, quindi, dei soli emolumenti eventuali, occasionali od eccezionali), in quanto altrimenti verrebbero ad essere addossate al lavoratore le conseguenze negative di un illecito altrui. (Nella specie, la S.C., nell'enunciare l'anzidetto principio, ha cassato la sentenza impugnata, che aveva escluso dalla base di calcolo dell'indennità risarcitoria l'indennità di mensa avente carattere convenzionale, l'indennità di rischio, il concorso nelle spese tranviarie, il premio di rendimento ed il premio di produttività, senza considerare che l'assenza del dipendente cui si ricollegava la mancata fruizione dei detti emolumenti era derivata dall'illegittima estromissione dello stesso dall'azienda)” (cfr. Corte di Cassazione, sez.lav., sent. n. 19956 del 16.09.2009).
Del resto “in caso di licenziamento dichiarato illegittimo, è onere del lavoratore fornire prova adeguata in merito all'entità e alla composizione della retribuzione globale di fatto, goduta al momento del recesso, da prendere come base per il calcolo del risarcimento del danno.” (in tal senso Cass. Sent. 27 novembre 2014, n. 25244).
Pertanto il computo in esame “implica la rilevanza della media dei compensi corrisposti di fatto nell'ultimo periodo prima del licenziamento, anche se tale procedimento può comportare una discrepanza rispetto a quanto sarebbe dovuto in base agli elementi fissi e continuativi della retribuzione - si riferisce ad un caso in cui il giudice di merito aveva valorizzato le retribuzioni risultanti dalle buste paga prodotte, relative agli ultimi quattro mesi prima del licenziamento, in cui erano state prestati orari complessivi molto differenziati. (Cass. n. 9307/2000).
Nel caso in esame, la specifica questione sottoposta all'esame della Corte riguarda l'aggiornamento delle retribuzioni, e la soluzione ad essa offerta dal Giudice d'appello appare corretta considerata la natura risarcitoria delle somme spettanti al lavoratore in seguito all'illegittimo licenziamento rispetto alla quale l'aggiornamento è espressione di detta natura.” (Cass. sent. n. 19285 del 22.09.2011).
Chiarito il sistema previgente, si evidenzia che sin dalle modifiche intervenute per effetto della legge n. 92/2012, che per prima ha introdotto l’aggettivo “ultima” alla retribuzione cui fare riferimento per la determinazione del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, le parti depositano l’ultimo cedolino paga al momento della costituzione in giudizio ed il Giudice forma il proprio convincimento, in ordine alla misura dell’indennizzo, utilizzando il riferimento esposto nell’ultima busta paga del rapporto, ove non contestata.
Resta ora da capire se la versione definitiva del decreto possa portare ad una diversa conclusione.
Due sono i profili di analisi; il primo riguarda la individuazione degli elementi retributivi utili; il secondo, è l’ambito temporale cui fare riferimento per individuare tale retribuzione.
Con riferimento al primo aspetto il legislatore effettua un sostanziale, anche se non esplicito, rinvio all’articolo 2120, comma 4 del codice civile in cui è stabilito “Salvo diversa previsione dei contratti collettivi la retribuzione annua, ai fini del comma precedente, comprende tutte le somme, compreso l'equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese” cui è possibile richiamare l’importante produzione giurisprudenziale che ha definito ad oggi in modo sostanzialmente puntuale la previsione codicistica. Più problematica è l’individuazione dell’ambito temporale cui fare riferimento per individuare la/le mensilità dell’indennità risarcitoria. Al riguardo, la norma fa riferimento “all’ultima” retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, a sua volta l’articolo 2120 del codice civile, individua quale periodo di riferimento, un periodo annuale (il riferimento è alla “retribuzione annua”).
Il combinato disposto delle due norme porterebbe a ritenere che la retribuzione cui fare riferimento è quella dell’ultimo anno (o frazione di anno) dovuta (indipendentemente se corrisposta) al lavoratore, rapportata a mese.
Pertanto, ad esempio, un licenziamento illegittimo effettuato il 31 dicembre 2015, porterebbe ad individuare la retribuzione utile ai fini del TFR nel periodo 1 gennaio /31 dicembre dello stesso anno rapportata a mese (retribuzione annua/12 per il numero di mensilità previste dal decreto).
Un licenziamento effettuato il 31 marzo 2016, porterebbe ad individuare il periodo di riferimento tra il 1 gennaio/31 marzo 2016 rapportata anch’essa a mese (retribuzione del periodo/3 per il numero di mensilità previste dal decreto).
Questa modalità sembrerebbe assicurare un’ equa individuazione della retribuzione, utile a determinare l’indennità risarcitoria.
Una diversa interpretazione, che in questa sede non appare preferibile, è rappresentata dalla retribuzione corrisposta nell’ultimo mese al termine del rapporto. Tuttavia, alla cessazione del rapporto (con l’ultima busta paga) nella prassi sono corrisposti diversi emolumenti tipici di questo evento che rischierebbero di alterare, anche quantitativamente, la definizione di mese previsto dalla norma.
Comparando la precedente definizione (retribuzione globale di fatto) con quella attuale (retribuzione utile ai fini del TFR), si ritiene che la nuova formulazione possa di fatto tradursi in una riduzione dell’importo dell’indennità risarcitoria da corrispondere al dipendente in caso di licenziamento illegittimo. Ciò in quanto la Cassazione ha chiarito, ad integrazione dell’art. 2120 cc, quali siano le voci da escludere dal computo del TFR. Si tratta di quelle collegate a ragioni del tutto imprevedibili, accidentali e fortuite rispetto al normale svolgimento dell’attività lavorativa, quali ad esempio il lavoro straordinario occasionale e non continuativo, l’indennità di trasferta, l’indennità di viaggio stabilita in ragione chilometrica secondo tariffe Aci, il rimborso spese, ivi compreso quello a piè di lista.

Sanzioni per omissione contributiva
L’articolo 3, comma 2 del decreto nel ribadire che in caso di insussistenza del fatto materiale il datore di lavoro è condannato, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, in esso aggiunge “senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva”.
Pertanto, nel caso di reintegra al lavoratore compete la copertura contributiva, ma nel testo definitivo del decreto è stabilito che il datore di lavoro è esplicitamente escluso dall’applicazione delle sanzioni per omissione contributiva.
Tale esclusione esplicita appare quanto mai opportuna ed in linea con il comma 4 dell’art 18 legge n.300/70 come riscritto dalla legge n.92/2012.
La predetta legge, nel modificare l’art. 18 aveva, infatti, operato una sistemazione di tale conseguenza (applicazione o meno delle sanzioni per omissione contributiva) a seguito di reintegra, distinguendo due casi:

1)     il primo, previsto dai commi 1 e 2, nel qual caso, a seguito di vizio di nullità, la sentenza che contiene l'ordine di reintegrazione è dichiarativa quindi l'obbligo contributivo è riconosciuto ora per allora e ne consegue una vera e propria omissione contributiva;

2)    il secondo, previsto dal comma 4, nel qual caso, a seguito del vizio di annullabilità, la sentenza che contiene l'ordine di reintegrazione è costitutiva e quindi l'obbligo contributivo è ripristinato ex tunc senza pertanto che ci sia omissione contributiva.

La mancata indicazione nel nuovo decreto avrebbe di fatto potuto riaccendere le questioni in merito sulle quali si era da ultimo pronunciata la Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 17 giugno – 18 settembre 2014, n. 19665.

Correzioni formali
Il testo finale del decreto contiene la correzione di un mero errore materiale nell’articolo 6, laddove sostituisce il richiamo all’art. 82 del D.Lgs. n. 76/2003 al più opportuno art. 76 che individua le sedi di certificazione che sono abilitate anche alle rinunce e transazioni.
Si ricorda che l’articolo 6 del decreto intende individuare le sedi presso cui espletare l’offerta di conciliazione che pertanto, oltre a quelle di cui al c. 4 dell’art. 2113 cc, saranno anche quelle elencate nell’art. 76 del DLgs n.276/03 comprese le commissioni istituite presso i Consigli Provinciali degli Ordini dei Consulenti del Lavoro.

Limite all’esenzione fiscale dell’offerta conciliativa
Sempre nell’art. 6, è stata apportata una modifica con l’intento di circoscrivere l’esenzione dall’imposizione fiscale alle sole somme offerte dal datore di lavoro a fronte della definitiva cessazione del rapporto di lavoro e la conseguente rinuncia da parte del lavoratore all’impugnazione del licenziamento, confermando la posizione interpretativa già espressa dalla Fondazione Studi nella circolare n. 1/2015.

Nuova comunicazione di fine rapporto
Nell’ambito del monitoraggio del mercato del lavoro di cui alla legge n. 92/2012, l’art. 6, comma 3 del decreto stabilisce che “la comunicazione obbligatoria telematica di cessazione del rapporto di cui all'articolo 4-bis del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni, e' integrata da una ulteriore comunicazione, da effettuarsi da parte del datore di lavoro entro 65 giorni dalla cessazione del rapporto, nella quale deve  essere indicata l'avvenuta ovvero la non avvenuta conciliazione di cui al comma 1 e la cui omissione è assoggettata alla medesima sanzione prevista per l'omissione della comunicazione di cui al predetto articolo 4-bis. Il modello di trasmissione della comunicazione obbligatoria è conseguentemente riformulato”.
Il legislatore ha scelto di introdurre una doppia comunicazione relativa alla cessazione del rapporto; la prima, entro il termine di 5 giorni dalla fine del rapporto, la seconda entro 65 giorni dalla medesima cessazione, al solo fine di monitorare l’attuazione dell’offerta di conciliazione.
Il motivo di tale scadenza deriva dalla sommatoria dei termini di impugnazione stragiudiziale (60 gg) e quelli per l’invio ordinario della C.O. (5 gg).
Rispetto ai tempi di effettuazione della comunicazione (65 giorni) si fa presente che essi potrebbero risultare incompatibili rispetto alle dinamiche di svolgimento della conciliazione.
Infatti, l’art. 6, comma 1 del decreto stabilisce che “il datore di lavoro può offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento (ndr 60 giorni)”, ma questo non significa che l’intero procedimento conciliativo si esaurisca entro i 60 giorni.
Ciò in quanto, l’offerta conciliativa potrebbe essere regolarmente presentata nei termini, ma il lavoratore accetti la stessa in una o più riunioni successive in relazione anche alla complessità della conciliazione.
La mancata o tardiva comunicazione, tuttavia, è sanzionata al pari di quella inerente la cessazione del rapporto, anche se i dati in essa contenuti non sono sostanziali ai fini del rapporto di lavoro stesso.

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