Mediamente, infatti, nel nostro Paese un’ora
di lavoro costa alle imprese 28,3 €, un valore praticamente equidistante tra i
3,8 € della Bulgaria ed i 40,3 € della Danimarca.
Questo dato, di fatto, costituisce il
principale fattore che ha determinato negli ultimi anni la forte tendenza delle
nostre aziende a delocalizzare la produzione nelle nazioni meno care come, ad
esempio, la Romania (4,6 €).
Come se non bastasse, tra il 2013 ed il
2014 il costo del lavoro in Italia è ulteriormente aumentato dello 0,7%.
La principale causa che penalizza il
nostro valore è costituita dagli oneri aggiuntivi rispetto alla retribuzione. Basti
pensare che, mentre in Italia il 28,2% del costo del lavoro è determinato da
tutti i fattori non legati allo stipendio, quali i contributi previdenziali, in
Germania i costi non salariali ammontano solamente al 22,3%. Peggio dell’Italia,
tuttavia, è la situazione rilevata per la Francia, che con 33,1% si colloca al primo
posto tra i Paesi con i maggiori oneri accessori al compenso.
Sempre in relazione al 2014, sono
quattro i Paesi europei in cui il costo del lavoro è diminuito, nello
specifico: Cipro, Portogallo, Croazia e Irlanda. Si tratta di Stati che sono
stati “salvati” dalla Ue, atteso il processo di svalutazione interna legato
alle dure politiche di austerità cui sono stati soggetti.
Vista l’impossibilità di svalutare la
moneta, la svalutazione interna si è dimostrata dunque uno strumento utile per rendere
più competitive le esportazioni attraverso un abbassamento dei salari ed un
aumento della produttività. Basti pensare alla Grecia, dove il costo del lavoro
orario era nel 2014 di 14,6 € e sei anni prima di 16,8 €.
Valerio
Pollastrini
Nessun commento:
Posta un commento