Nella
sentenza n.1695 del 29 gennaio 2015, la Corte di Cassazione ha precisato che il
datore di lavoro può compensare l’eventuale credito vantato nei confronti del
dipendente con il TFR dovuto a quest’ultimo alla cessazione del rapporto, a
patto, però, che detto credito sia certo, liquido ed esigibile.
Il
caso di specie è quello che ha riguardato il dipendente di una banca,
licenziato a seguito di alcune condotte illecite che avevano causato dei
pesanti danni economici alla datrice di lavoro.
Nel
confermare la legittimità del recesso, sia il Tribunale del primo grado che la
Corte di Appello avevano, tra l’altro, rigettato la domanda con la quale il
lavoratore aveva richiesto il pagamento del trattamento di fine rapporto, non
versatogli dall’azienda in quanto posto a compensazione con le somme dovutegli
per il danno subito.
Avverso
questa sentenza, il lavoratore aveva proposto ricorso per Cassazione, deducendo
l’erroneità della statuizione con la quale la Corte del merito aveva ritenuto
ammissibile la compensazione impropria o a-tecnica tra le due suindicate obbligazioni
- derivanti dal medesimo rapporto ma non legate dal vincolo della
sinallagmaticità - pur mancando i presupposti di tale tipo di compensazione.
Tale
compensazione, infatti, è diretta ad accertare, in via meramente contabile, il
saldo finale tra i contraenti, mentre nella specie l’accertamento del credito
della banca sarebbe ancora sub judice,
sicché difetterebbero i presupposti per la compensazione giudiziale prevista
dall’art.1243, comma secondo, cod. civ., cui non si può ricorrere quando
l’accertamento del controcredito da parte del giudice dinanzi al quale la
compensazione è fatta valere si fonda su di un credito la cui esistenza dipenda
dall’esito di un separato giudizio in corso, come tale non liquidabile se non
in quella sede.
Investita
della questione, la Cassazione ha ritenuto fondata la doglianza predetta, a
proposito della quale ha preliminarmente ricordato i seguenti consolidati e
condivisi indirizzi della giurisprudenza di legittimità:
- poiché l’art.1246 cod. civ. si limita a prevedere che la compensazione si verifica quali che siano i titoli da cui nascano i contrapposti crediti e debiti senza espressamente restringerne l’applicabilità all’ipotesi di pluralità di rapporti, non può in assoluto escludersi che detto istituto operi anche fra obbligazioni scaturenti da un’unica fonte negoziale. In particolare, una tale esclusione è giustificata allorquando le obbligazioni derivanti da un unico negozio siano tra loro legate da un vincolo di corrispettività che ne escluda l’autonomia, perché se in siffatta ipotesi si ammettesse la reciproca elisione delle obbligazioni in conseguenza della compensazione, si verrebbe ad incidere sull’efficacia stessa del negozio, paralizzandone gli effetti. Qualora, invece, le obbligazioni, ancorché aventi causa in un unico rapporto negoziale, non siano in posizione sinallagmatica ma presentino caratteri di autonomia, non v’è ragione per sottrarre la fattispecie alla disciplina dell’art.1246 cod. civ. la quale, riguardando l’istituto della compensazione in sé, è norma di carattere generale (1);
- pertanto, ai fini della configurabilità della compensazione in senso tecnico di cui all’art.1241 cod. civ., non rileva la pluralità o unicità dei rapporti posti a base delle reciproche obbligazioni, essendo invece necessario solo che le suddette obbligazioni, quale che sia il rapporto da cui esse prendono origine, siano "autonome", ovvero "non legate da nesso di sinallagmaticità" (2), mentre in mancanza della suddetta autonomia è configurabile soltanto la cosiddetta compensazione impropria o a-tecnica, in base alla quale la valutazione delle reciproche pretese importa soltanto un semplice accertamento contabile di dare ed avere, con elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza (3);
- la compensazione propria - che non è rilevabile d’ufficio - può essere legale o giudiziale, nel primo caso la presenza di due crediti contrapposti liquidi ed esigibili è anteriore al giudizio, mentre nel secondo caso il credito opposto in compensazione non è liquido, ma viene liquidato dal giudice nel processo, perché reputato di "pronta e facile liquidazione"; pertanto la compensazione legale, a differenza di quella giudiziale, opera di diritto per effetto della sola coesistenza dei debiti, sicché la sentenza che la accerti è meramente dichiarativa di un effetto estintivo già verificatosi e questo automatismo non resta escluso dal fatto che la compensazione non possa essere rilevata di ufficio, ma debba essere eccepita dalla parte, poiché tale disciplina comporta unicamente che il suddetto effetto sia nella disponibilità del debitore che se ne avvale, senza che sia richiesta una autorizzazione alla compensazione dalla controparte (4);
- invece, alla compensazione impropria sono inapplicabili le norme processuali che pongono preclusioni o decadenze alla proponibilità delle relative eccezioni, poiché in tal caso la valutazione delle reciproche pretese importa soltanto un semplice accertamento contabile di dare ed avere, al quale il giudice può procedere anche d’ufficio, in assenza di apposita eccezione di parte o della proposizione di domanda riconvenzionale (5);
- la compensazione è applicabile anche in presenza di ragioni debitorie derivanti dalla commissione di un fatto illecito, pertanto sono da ritenere compensabili i crediti vantati da una banca e nascenti dal comportamento illecito di un suo dipendente e le somme cui la banca stessa è tenuta a titolo di TFR a favore di quest’ultimo (6);
- la cosiddetta "compensazione a-tecnica" non può essere utilizzata per dare ingresso ad una sorta di "compensazione di fatto", sganciata da ogni limite previsto dalla disciplina codicistica, in quanto la peculiarità della compensazione a-tecnica consiste nel fatto di rendere possibile la compensazione tra crediti che non siano tra loro autonomi, ma deve pur sempre trattarsi di crediti per i quali ricorrano i requisiti di cui all’art.1243 cod. civ. (7);
- in particolare, per l’applicabilità della compensazione è sempre richiesto che ricorrano da ambedue i lati i requisiti di cui all’art. 1243 cod. civ., cioè che si tratti di crediti certi, liquidi ed esigibili o di facile e pronta liquidazione, pertanto un credito contestato in un separato giudizio non è suscettibile di compensazione legale, attesa la sua illiquidità, né di compensazione giudiziale, poiché potrà essere liquidato soltanto in quel giudizio (8), salvo che nel corso del giudizio di cui si tratta la parte interessata alleghi ritualmente che il credito contestato è stato definitivamente accertato con l’efficacia di giudicato nell'altro giudizio (9).
Né
può avere alcun rilevo in contrario l’argomento difensivo della
controricorrente secondo cui, non avendo il lavoratore mai contestato
l’ammontare dei danni subiti dalla Banca, quale risultante dai conteggi
allegati dall’azienda, tale ammontare dovrebbe considerarsi pacifico.
In
primo luogo, infatti, va rilevato che, comunque, il suddetto ammontare si
riferisce alla valutazione effettuata dall’Istituto di credito dei danni
complessivamente subiti, per effetto delle operazioni truffaldine poste in
essere da "una vera e propria
associazione criminosa", con il coinvolgimento anche del lavoratore, e
non ai danni subiti per effetto del comportamento ascrivibile, in particolare,
al dipendente.
Comunque,
per quel che riguarda il valore probatorio dei conteggi, occorre distinguere la
componente fattuale di tali conteggi, che soggiace agli oneri di contestazione
e agli effetti della mancata contestazione, dalla componente giuridica o
normativa, esente dai suddetti oneri (10), in applicazione della regola generale
secondo cui il principio di non contestazione determina l’ammissione in
giudizio solo dei fatti cosiddetti principali, ossia costitutivi del diritto
azionato, mentre per i fatti cosiddetti secondari, ossia dedotti in esclusiva
funzione probatoria, la non contestazione costituisce argomento di prova ai
sensi dell’art.116, secondo comma, cod. proc. civ. (11).
Di
conseguenza, secondo la Cassazione,
nella specie non può trovare applicazione il principio di non
contestazione, al fine di considerare certo e liquido il credito della Banca in
oggetto.
In
conclusione, gli ermellini hanno cassato l’impugnata sentenza, rinviando la
decisione alla Corte di Appello che, in diversa composizione, dovrà attenersi
al seguente principio:
“la compensazione è un istituto di carattere
generale che non conosce deroghe se non nei casi espressamente previsti dalla
legge e che risponde, tra l’altro, ad evidenti esigenze di economia
processuale. Tuttavia, la sua applicabilità presuppone che, in ogni caso,
ricorrano, da ambedue i lati, i requisiti di cui all’art.1243 cod. civ., cioè
che si tratti di crediti certi, liquidi ed esigibili (o di facile e pronta
liquidazione). Ne consegue che un credito contestato in un separato giudizio
non è suscettibile di compensazione legale, attesa la sua illiquidità, né di
compensazione giudiziale, poiché potrà essere liquidato soltanto in quel
giudizio, salvo che nel corso del giudizio di cui si tratta la parte interessata
alleghi ritualmente che il credito contestato è stato definitivamente accertato
con l’efficacia di giudicato, nell’altro giudizio. Pertanto, nella suindicata
ipotesi, non può neppure farsi ricorso alla cosiddetta "compensazione
a-tecnica", perché tale istituto non può essere utilizzato per dare
ingresso ad una sorta di "compensazione di fatto", sganciata da ogni
limite previsto dalla disciplina codicistica, in quanto la peculiarità della
compensazione a-tecnica consiste nel fatto di rendere possibile la
compensazione tra crediti che non siano tra loro autonomi, ma deve pur sempre
trattarsi di crediti per i quali ricorrano i requisiti di cui all’art. 1243
cod. civ.”.
Valerio
Pollastrini
- - vedi, per tutte: Cass. SU, Sentenza n.775 del 16 novembre 1999; Cass., Sentenza n.8924 dell’11 maggio 2004; Cass., Sentenza n.5349 dell’11 marzo 2005; Cass., Sentenza n.10629 del 9 maggio 2006;
- - Cass., Sentenza n.10629 del 9 maggio 2006;
- - vedi, per tutte: Cass., Sentenza n.7337 del 17 aprile 2004; Cass., Sentenza n.5024 del 2 marzo 2009;
- - Cass., Sentenza n.22324 del 22 ottobre 2014; Cass., Sentenza n.260 dell’11 gennaio 2006;
- - Cass., Sentenza n.11729 del 26 maggio 2014; Cass., Sentenza n.14688 del 29 agosto 2012; Cass., Sentenza n.23539 del 10 novembre 2011; Cass., Sentenza n.8971 del 19 aprile 2011; Cass., Sentenza n.28855 del 5 dicembre 2008; Cass., Sentenza n.17390 dell’8 agosto 2007; Cass., Sentenza n.18498 del 25 agosto 2006; Cass., Sentenza n.6214 del 29 marzo 2004;
- - Cass., Sentenza n.28855 del 5 dicembre 2008; Cass., Sentenza n.7337 del 17 aprile 2004;
- - arg. ex Cass., Sentenza n.10629 del 9 maggio 2006;
- - Cass., Sentenza n.23716 del 18 ottobre 2013; Cass., Sentenza n.9608 del 19 aprile 2013;
- - Cass., Sentenza n.22133 del 24 novembre 2004; Cass., Sentenza n.8338 del 12 aprile 2011;
- - Cass., Sentenza n.5526 del 17 aprile 2002; Cass. SU, Sentenza n.761 del 23 gennaio 2002; Cass., Sentenza n.28381 del 22 dicembre 2005;
- - Cass., Sentenza n.5191 del 27 febbraio 2008; Cass., Sentenza n.5356 del 5 marzo 2009;
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