Nel
caso di specie, la Corte di Appello di Caltanissetta aveva confermato la sentenza
emessa dal Tribunale del primo grado che aveva condannato il Comune di San
Cataldo a corrispondere un risarcimento di 100.000,00 € al dipendente a cui aveva revocato l'incarico di dirigente dei
servizi finanziari.
In
particolare, la Corte territoriale aveva esposto che:
-
con delibera del 28 marzo 2000, il Comune
aveva dichiarato l’uomo vincitore del concorso e gli aveva assegnato la
qualifica dirigenziale come capo ripartizione dei servizi finanziari;
-
che,
con successiva disposizione del 20 luglio 2001, lo aveva assegnato ai servizi
demografici come dirigente, per affermata "rotazione degli incarichi";
-
che
il lavoratore aveva impugnato tale trasferimento, sostenendo che l'assegnazione
ad altro incarico trovava il suo reale fondamento nei contrasti insorti con la
giunta municipale, a seguito di una serie di pareri contabili negativi da egli espressi.
Ciò
premesso, la Corte del merito aveva confermato l'illegittimità
dell'assegnazione ad un ufficio di minore rilevanza, in quanto palesemente,
ricordando come la stampa locale avesse dato ampio risalto alla notizia
dell'avvenuta e ripetuta imposizione di pareri negativi su delibere di spesa
della giunta comunale da parte del lavoratore, a proposito del quale, il
sindaco, in una nota specifica, aveva
espressamente affermato che avesse esorbitato dai suoi poteri di ragioniere
capo esercitando un vero e proprio veto di carattere politico.
La
Corte, inoltre, aveva preso atto di come
il Tribunale avesse valutato anche il pervicace rifiuto opposto dal Comune
all'esecuzione degli ordini giudiziali di reintegra emessi nella fase
cautelare, ulteriore segnale delle finalità effettivamente perseguite con il
trasferimento del lavoratore, e , pertanto, tale provvedimento, emesso sotto le
apparenti esigenze organizzative, celava, in realtà, l'interno di rimuovere da un
incarico nevralgico un dirigente scomodo, considerato anche il carattere oscuro
della disposizione di servizio circa le esigenze che avrebbero giustificato la
rotazione degli incarichi dirigenziali, non ulteriormente specificata neppure
nel corso del giudizio.
Il
giudice dell’appello aveva affermato, altresì, che, a seguito della procedura concorsuale,
tra le parti era stato raggiunto un
valido accordo, con il quale era stato conferito l'incarico dirigenziale senza
previsione di un termine di durata e che, dunque, tale termine non poteva
essere inferiore ai due anni, come previsto dalla normativa di riferimento. Di
conseguenza, il contratto intercorso tra le parti doveva sottostare alle regole
generali del codice civile e, dunque, non poteva essere sciolto che per mutuo
consenso, non sussistendo neppure i presupposti per la revoca anticipata
prevista dal comma 1 dell’articolo 109 del D.Lgs. n.267/2000 (1).
Quanto
al risarcimento, la Corte territoriale aveva rilevato:
-
che l’illegittima negazione o impedimento allo
svolgimento delle mansioni costituiva illecito contrattuale che obbligava al
ristoro del danno subito;
-
che
con il ricorso il lavoratore aveva chiesto il risarcimento dei danni, da
determinarsi in via equitativa, compresi sia i danni patrimoniali, sia quelli
non patrimoniali;
-
che
con riferimento al danno patrimoniale era emersa la prova della diminuzione del
reddito a seguito del mutamento dell'incarico;
-
che,
con riferimento al danno non patrimoniale, la lesione doveva essere individuata nelle
finalità perseguite dalla revoca del l'incarico, nel clamore suscitato dalle
critiche rivolte dal sindaco al dirigente, nell’ampia diffusione data a livello
locale al provvedimento di assegnazione ad altro incarico con conseguente forte
discredito professionale, tanto che il dirigente si era posto in pensione
fuggendo da una condizione lavorativa e personale avvilente;
-
che
tali circostanze evidenziavano una lesione massima dell’immagine professionale.
Avverso
questa sentenza, l’Amministrazione comunale aveva proposto ricorso per
Cassazione, lamentando che non sarebbe stato affatto provato che il reparto
servizi demografici, delegazioni regionali ed economato, cui era stato adibito
il lavoratore, fosse di minore rilevanza rispetto ai servizi finanziari e
sostenendo, dunque, che non sarebbe
stato configurato un demansionamento.
Secondo
il ricorrente, inoltre, l'articolo 2103
c.c. non sarebbe applicabile al caso di specie, non sussistendo alcun diritto
al mantenimento dell'incarico specifico ricoperto, ma unicamente il diritto al
mantenimento delle funzioni dirigenziali.
A
ciò il Comune aveva aggiunto che, anche a voler ritenere sussistente un demansionamento, il lavoratore avrebbe
dovuto provare il pregiudizio ed il nesso di causalità con l’inadempimento e
che, nella specie, il dipendente nessun allegazione avrebbe riferito circa le
conseguenze negative.
Parimenti,
nessuna prova sarebbe stata fornita in merito al carattere punitivo del trasferimento
ad altro ufficio, ritenuto accertato in base al discutibile valore giuridico
degli articoli di stampa o dell’interrogatorio del ricorrente.
Con
il secondo motivo il ricorrente aveva censurato la sentenza nella parte in cui
avrebbe fornito una motivazione del tutto insufficiente circa l’affermata
insussistenza delle esigenze organizzative di rotazione degli incarichi dirigenziali,
osservando che la relativa disposizione di servizio riguardava la totalità dei
dirigenti in una logica di complessiva ristrutturazione degli uffici e dei
servizi.
In
sostanza, secondo l’Amministrazione, le delibere adottate dal Comune sarebbero
del tutto legittime, restando i pareri negativi del lavoratore del tutto
ingiustificati.
Con
il terzo motivo, il ricorrente aveva negato che, nella specie, vi fosse stata
una revoca
dell'incarico, bensì una semplice rotazione per sopravvenute esigenze dell'Amministrazione,
frutto dei poteri organizzativi attribuiti al sindaco dalla norma di cui
all'articolo 6, comma 7, della Legge n.127/1997, che disciplina gli incarichi
dirigenziali.
Investita
della questione, la Cassazione ha ritenuto infondate le suddette censure.
In
premessa, gli ermellini hanno rilevato che, quanto all'assegnazione del
lavoratore ad ufficio di minor rilievo, riconosciuta sia dal Tribunale che
dalla Corte di Appello, nonché al carattere ritorsivo di detta assegnazione, trattasi di un accertamento in fatto svolto
dai giudici di merito e, dunque, non censurabile in Cassazione, risultando la
motivazione della sentenza impugnata congrua e priva di contraddizioni.
La
Corte di Appello, infatti, aveva correttamente valutato il comportamento delle parti e gli elementi
probatori acquisisti, con giudizio immune da vizi che, investendo una questione
di merito, sfuggono al sindacato della Cassazione.
I
giudici di merito, dopo aver ricordato che, con determinazione dirigenziale del
2001, all’esito di una procedura concorsuale di cui il lavoratore era rimasto
vincitore era stata assegnata la
qualifica dirigenziale e posto a capo della ripartizione dei servizi finanziari,
e che, con successiva disposizione, il Comune aveva assegnato lo stesso alla
ripartizione dei servizi demografici, ufficio di minore rilevanza, come
confermato dalla stessa previsione del Comune di un compenso inferiore, avevano
affermato, in primo luogo, che il Comune non aveva provato le ragioni
organizzative o eventuali manchevolezze del dirigente che ne avevano impedito
la permanenza, dopo appena un anno, presso l’ufficio al quale era stato inizialmente
assegnato.
Al
riguardo, la Corte ha rilevato, oltre al carattere "criptico" delle
richiamate disposizioni, che il Comune non aveva specificato quale fosse stato
"l’ambito di ristrutturazione degli
uffici e dei servizi" in cui era stato inserito il provvedimento, le
"mutate ed accresciute esigenze"
per far fronte alle quali era stato necessario spostare il dipendente
dall’incarico dirigenziale e che avevano imposto di "intervenire sollecitamente".
Come,
invece, evidenziato dalla Corte di Appello, l'assegnazione al nuovo incarico di
minor rilievo aveva assunto il chiaro carattere ritorsivo, attesi la vasta eco
di stampa verificatasi in occasione del trasferimento, l’ampio risalto della notizia dell’avvenuta e ripetuta
apposizione da parte del dirigente di pareri negativi sulle delibere di spesa
della giunta comunale, la nota del sindaco con cui si accusava il lavoratore di
aver esorbitato dai suoi poteri di ragioniere capo, il pervicace rifiuto
opposto dal Comune ad eseguire gli ordini giudiziali di reintegra, anch’esso
valutabile quale segnale dell’intento di rimuovere da un incarico nevralgico un
dirigente scomodo, tanto da indurlo ad un anticipato pensionamento.
La
Corte territoriale aveva quindi sottolineato che la unilaterale modifica delle
funzioni, in assenza dei presupposti della revoca anticipata degli incarichi
dirigenziali di cui all’art109, comma 1, del D.Lgs n.267/2000, comunque in
assenza di prova di ragioni organizzative comportanti l’assegnazione ad ufficio
di minor rilievo e avente un evidente carattere ritorsivo, doveva considerarsi
illecita.
Nel
riepilogare la questione, gli ermellini hanno osservato come il caso verta nella
nella diversa ipotesi di un’assegnazione di lavoratore ad officio diverso
"per ritorsione", vietata
anche nell’ambito del pubblico impiego. Ipotesi ritenuta
sussistente dalla Corte di Appello, la
quale aveva ritenuto che il lavoratone avesse subito, nel periodo relativo alla
sua adibizione all'ufficio demografico, un inammissibile atto punitivo.
La
diversa rilevanza dei due uffici trova conferma dalla previsione contenuta nel
regolamento comunale di "una scala
di valutazione delle posizioni
dirigenziali", con relativa attribuzione a ciascuna di esse di un
punteggio, e, nell’ambito di tale valutazione, una diversa modulazione dei
compensi, con la previsione di un minor compenso per il dirigente dei servizi
demografici.
Se
ne desume che, pur nel contesto di un’unica qualifica dirigenziale, la
regolamentazione amministrativa conserva un’articolazione gerarchica dei
compiti e delle responsabilità, cui corrisponde una graduazione dei compensi.
Ne
consegue che il provvedimento di assegnazione del lavoratore ad una diversa
posizione dirigenziale, con corrispondente diminuzione della retribuzione, integra
una lesione della posizione acquisita, la cui ridefinizione è ammissibile solo
in ragione di una motivata diversa attribuzione dell’Ente nei confronti del suo
dipendente.
Negando
il demansionamento, il Comune si era limitato a riprodurre le delibere emesse, sostenendo
di aver predisposto una mera rotazione di incarichi, senza, tuttavia,
provvedere a contestare i passaggi motivazionali della sentenza.
Quanto
poi alla liquidazione del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale, la
Corte ha rilevato, con riferimento al primo, la minore entità dell’indennità di
posizione percepita e, al riguardo, ha sottolineato che lo stesso Comune,
riconoscendo una minore indennità di posizione ai servizi demografici, aveva
attribuito una minore "caratura ad
un servizio meno importante risolvendosi ciò in un trattamento deteriore".
A
proposito del secondo, invece, ha sottolineato l’aspetto fondamentale della
lesione della sfera non patrimoniale nelle fuorvianti finalità perseguite dal
provvedimento di revoca dell'incarico presso i servizi finanziari, concretatosi
in un demansionamento del lavoratore, nel clamore suscitato dalle critiche rivoltegli
dal sindaco, nell’ampia diffusione data, a livello locale, al provvedimento di
assegnazione ad altro incarico e nel conseguente forte discredito
professionale.
Sulla
base di tali elementi, la Suprema Corte ha ribadito la lesione massima
dell’immagine professionale del dirigente, dal momento che era stato ingiustamente rimosso dalla funzione
apicale rispondente alla sua qualifica di ragioniere capo, per essere assegnato
a settore di minor rilievo.
In
conclusione, la Cassazione ha confermato la validità delle motivazioni rese dal
giudice dell’appello, allorché aveva affermato che "in caso di revoca illegittima di un incarico dirigenziale da parte del
datore di lavoro pubblico, costituiscono profili rilevanti, ai fini del diritto
del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale, le ragioni
dell'illegittimità del provvedimento di revoca, le caratteristiche, la durata e
la gravità dell'attuato demansionamento, la frustrazione di ragionevoli
aspettative di progressione e le eventuali reazioni poste in essere nei
confronti del datore di lavoro e comprovanti l'avvenuta lesione dell’interesse
relazionale" (2).
Per
le considerazioni che precedono, il ricorso è stato dunque rigettato.
Valerio
Pollastrini
1)
-
Testo Unico degli Enti Locali;
2)
.-
cfr Cass., Sentenza n.687/2014 e n.28274/2008;
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