Il
caso di specie è scaturito dalla domanda con la quale una lavoratrice aveva
chiesto che fosse dichiarato nullo il termine apposto al suo contratto a tempo determinato, con le conseguenze
risarcitorie previste dal Collegato Lavoro (1).
Dopo
che la Corte di Appello, ribaltando la decisione del Tribunale del primo grado,
aveva accolto il ricorso della dipendente, la società datrice di lavoro aveva
adito la Cassazione, sostenendo che il ritardo con cui la donna aveva agito in
giudizio dovesse essere interpretato come una sua manifestazione di rinuncia
alla prosecuzione del rapporto.
Investita
della questione, la Cassazione ha ritenuto manifestamente infondata una simile
censura.
Come
già affermato dalla Suprema Corte in altre analoghe fattispecie (2), nel giudizio
instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di
lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione al
contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una
risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla
base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a
termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze
significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo (3).
La
mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi,
"è di per sé insufficiente a
ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso" (4).
A
questo proposito, gli ermellini hanno sottolineato che, per dirsi perfezionata
una risoluzione per mutuo consenso, è necessaria la presenza di comportamenti e
di circostanze di fatto idonei ad integrare una chiara manifestazione
consensuale tacita di volontà in ordine all’estinzione del rapporto, non
essendo all'uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la
mera mancanza, seppure prolungata, di operatività delle prestazioni (5).
Tornando
al caso di specie, la Cassazione ha dunque ribadito che il ritardo con cui la
lavoratrice aveva agito in giudizio per far valere l’illegittimità del termine
apposto al contratto intercorso non
costituiva una inequivoca manifestazione di rinuncia alla sua prosecuzione o
comunque di una volontà diretta alla modifica del rapporto.
Valerio
Pollastrini
1)
-
art.32 della Legge n.183/2010;
2)
-
v, ex plurimis, Cass., Sentenza n.6161/2010; Cass.,Sentenza n.8292/2012; cfr.
pure Cass. ord., Sentenze nn.2423 e 8669 del 2013, nonché Cass., Sentenze
nn.7455, 7456 e 7817 del 2014;
3)
-
v. da ultimo Cass., Sentenza n.1780/2014; Cass., Sentenze n.5887/2011, n.16932/2011,
nonché Cass., Sentenze n.26935/2008, n.20390/2007, n.23554/2004;
4)
-
v. Cass., Sentenza n.23057 del 15 novembre 2010; Cass., Sentenza n.5887 dell’11
marzo 2011;
5)
-
cfr. Cass., Sentenza n.14209/2013; Cass., Sentenza n.13891/2004; Cass., Sentenza n.15264/2007;
Nessun commento:
Posta un commento