Nel
caso di specie, la Corte di Appello di Trieste, confermando la decisione di
primo grado, aveva ritenuto giustificato il licenziamento di un dipendente dell’Agenzia
delle Entrate, al quale era stata addebitata una attività di consulenza per ben
16 clienti, condotta ritenuta dall’azienda così grave da ledere
irreparabilmente il vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro.
Avverso
questa sentenza, il lavoratore aveva proposto ricorso per Cassazione,
sostenendo che il giudice di appello non avrebbe proceduto ad una corretta applicazione
del disposto dell'art.63 del DPR n.3/1957, affermando che l'omissione della
diffida non impedisce l'esercizio del potere disciplinare.
Investita
della questione, la Cassazione ha ritenuto infondata tale censura, precisando
come il giudice dell’appello avesse correttamente sostenuto che la procedura di diffida si inserisce nella
ipotesi di valutazione di incompatibilità con la permanenza in servizio e lo
svolgimento di attività non consentite e non nella diversa ipotesi che si sia
in presenza di una contestazione avente natura essenzialmente disciplinare.
Si
tratta di un assunto che trova supporto decisivo nei precedenti della
giurisprudenza di legittimità, secondo cui l'istituto della decadenza dal
rapporto di pubblico impiego, come
disciplinato dagli artt.60 e seguenti del DPR n.3 del 10 gennaio 1957, poiché
attiene alla materia dell’incompatibilità, è estraneo all’ambito delle sanzioni
e della responsabilità disciplinare (1).
Con
altra doglianza, il ricorrente aveva poi lamentato che la sentenza impugnata avrebbe
motivato in maniera apodittica in relazione alla sanzionabilità della sua condotta,
in quanto, alla luce dell'istruttoria espletata in primo grado, i fatti emersi
e contestati non avrebbero potuto essere considerati svolgimento di una
attività professionale di consulenza, come tale incompatibile con il rapporto
di impiego.
Anche
questa censura, tuttavia, è stata ritenuta inammissibile.
In
proposito, infatti, gli ermellini hanno sottolineato come il giudice di
appello, valutate compiutamente le risultanze processuali, avesse ritenuto, con
motivazione congrua, priva di salti logici e corretta sul piano giuridico, che
la pluralità delle condotte contestate al dipendente giustificassero il
licenziamento per giusta causa.
Sotto
questo, profilo, pertanto, la sentenza impugnata, essendo esente da vizi,
risulta sottratta ad ogni censura in sede di legittimità (2).
In
conclusione, la Cassazione ha rigettato il ricorso, in quanto destituito di
fondamento.
Valerio
Pollastrini
1)
-
cfr Cass., Sentenza n.967 del 10 gennaio 2006;
2)
-
cfr Cass., Sentenza n.15098 dell’8 luglio 2011;
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