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domenica 18 gennaio 2015

Pubblico impiego: la decadenza dal rapporto non richiede la preventiva diffida

Nella sentenza n.617 del 15 gennaio 2015, la Corte di Cassazione ha ribadito che la decadenza dal rapporto di pubblico impiego, poiché attiene alla materia dell’incompatibilità, è estranea all’ambito delle sanzioni e della responsabilità disciplinare.

Nel caso di specie, la Corte di Appello di Trieste, confermando la decisione di primo grado, aveva ritenuto giustificato il licenziamento di un dipendente dell’Agenzia delle Entrate, al quale era stata addebitata una attività di consulenza per ben 16 clienti, condotta ritenuta dall’azienda così grave da ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro.

Avverso questa sentenza, il lavoratore aveva proposto ricorso per Cassazione, sostenendo che il giudice di appello non avrebbe proceduto ad una corretta applicazione del disposto dell'art.63 del DPR n.3/1957, affermando che l'omissione della diffida non impedisce l'esercizio del potere disciplinare.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto infondata tale censura, precisando come il giudice dell’appello avesse correttamente sostenuto  che la procedura di diffida si inserisce nella ipotesi di valutazione di incompatibilità con la permanenza in servizio e lo svolgimento di attività non consentite e non nella diversa ipotesi che si sia in presenza di una contestazione avente natura essenzialmente disciplinare.

Si tratta di un  assunto che trova  supporto decisivo nei precedenti della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l'istituto della decadenza dal rapporto di pubblico impiego,  come disciplinato dagli artt.60 e seguenti del DPR n.3 del 10 gennaio 1957, poiché attiene alla materia dell’incompatibilità, è estraneo all’ambito delle sanzioni e della responsabilità disciplinare (1).

Con altra doglianza, il ricorrente aveva poi  lamentato che la sentenza impugnata avrebbe motivato in maniera apodittica in relazione alla sanzionabilità della sua condotta, in quanto, alla luce dell'istruttoria espletata in primo grado, i fatti emersi e contestati non avrebbero potuto essere considerati svolgimento di una attività professionale di consulenza, come tale incompatibile con il rapporto di impiego.

Anche questa censura, tuttavia, è stata ritenuta  inammissibile.

In proposito, infatti, gli ermellini hanno sottolineato come il giudice di appello, valutate compiutamente le risultanze processuali, avesse ritenuto, con motivazione congrua, priva di salti logici e corretta sul piano giuridico, che la pluralità delle condotte contestate al dipendente giustificassero il licenziamento per giusta causa.

Sotto questo, profilo, pertanto, la sentenza impugnata, essendo esente da vizi, risulta sottratta ad ogni censura in sede di legittimità (2).

In conclusione, la Cassazione ha rigettato il ricorso, in quanto destituito di fondamento.

Valerio Pollastrini

 
1)      - cfr Cass., Sentenza n.967 del 10 gennaio 2006;
2)      - cfr Cass., Sentenza n.15098 dell’8 luglio 2011;

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