Nel
caso di specie, il Tribunale del primo grado aveva rigettato la domanda
proposta da una dipendente pubblica, diretta ad ottenere il risarcimento del
danno subito in conseguenza dell'illegittima apposizione del termine apposto a
tre contratti di lavoro stipulati con il Policlinico di Messina tra il 1992 ed
il 1994.
L'appellante,
successivamente inquadrata a tempo
indeterminato a seguito di concorso, aveva evidenziato di essere stata assunta
per svolgere l'attività di infermiera professionale e che, nei periodi
intermedi tra i vari contratti, era rimasta disoccupata.
Deducendo
la violazione della normativa relativa all'apposizione del termine, la donna,
nello specifico, aveva lamentato:
-
che
il contratto stipulato nel 1993 e prorogato nel 1994 avesse superato la durata
massima di 90 giorni;
-
che,
successivamente, era stata assunta nell’ambito
di un progetto strutturato per sopperire le carenze di organico;
-
che,
nel 1998, aveva stipulato un contratto di lavoro a tempo determinato, al di
fuori dai casi previsti dal C.C.N.L. di riferimento;
-
che l'Amministrazione avesse violato la Direttiva
n.70\99 CEE.
Il
giudice del primo grado aveva argomentato la propria decisione, evidenziando
che ritenere illecito il ricorso al contratto a termine per coprire la carenza
di organico, non comportava, in sé, la dimostrazione degli altri elementi
necessari per ottenere il riconoscimento della pretesa, non avendo la ricorrente dimostrato l'esistenza del
danno subito e, soprattutto, la consequenzialità dello stesso, neanche sotto il
profilo della perdita di chance.
Il
Tribunale, inoltre, aveva osservato che, sulla base dei principi costituzionali
in materia, l'assunzione a tempo indeterminato non poteva non essere effettuata
che per concorso e che la stessa lavoratrice aveva preferito, tra una
assunzione e l'altra, restare a disposizione in attesa di un nuovo contratto,
senza, peraltro, avere mai offerto la prestazione lavorativa.
Successivamente,
anche la Corte di Appello di Messina, decidendo sull’impugnazione presentata
dalla dipendente, aveva rigettato il gravame.
Avverso
questa sentenza, la donna aveva quindi proposto ricorso per Cassazione, evidenziando
che l'obbligo di conformazione dell'ordinamento italiano a quello comunitario,
ed, in particolare, al principio per cui la disciplina comunitaria non osta ad
una normativa nazionale che escluda, nel caso di abuso derivante da una
successione di contratti di lavoro a tempo determinato da parte di un datore di
lavoro pubblico, che questi siano trasformati in contratti o rapporti a tempo
indeterminato, a condizione che tale normativa contenga un'altra misura
effettiva (anche risarcitoria) destinata ad evitare e, se del caso, ad
adeguatamente sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti a
tempo determinato.
A
detta della Cassazione, questa doglianza, pur contenendo affermazioni di
principi astrattamente condivisibili, risulta in concreto inammissibile, non
contenendo una specifica critica alla sentenza impugnata, che aveva accertato
come, nella fattispecie, non fosse stata fornita alcuna prova dei danni subiti.
Secondo
la ricorrente, la sentenza impugnata avrebbe errato nel ritenere legittimi i
contratti in questione, senza valutare se negli stessi risultassero indicate
per iscritto le ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive, richieste
per la legittima instaurazione di un rapporto a termine, nonché la successione
nel tempo dei contratti in questione.
Anche
questa censura, tuttavia, è stata ritenuta inammissibile dalla Suprema Corte,
in quanto la ricorrente non aveva chiarito ove ed in che modo la sentenza
impugnata avrebbe omesso di valutare la sussistenza delle ragioni legittimanti
i contratti a termine, neppure indicate, mentre le censure concernenti i vizi
di motivazione devono indicare quali siano gli elementi di contraddittorietà o
illogicità che rendano del tutto irrazionali le argomentazioni del giudice del
merito e non possono risolversi nella richiesta di una lettura delle risultanze
processuali diversa da quella operata nella sentenza impugnata (1).
Ciò
detto, la Cassazione, esaminando la
questione anche sotto il profilo dell'abuso di contratti a termine legittimi,
ha però ribadito che la Corte di Giustizia Europea (2) ha chiarito che
"L'accordo quadro sul lavoro a tempo
determinato (3), relativo all'accordo quadro CES, UN ICE e CEEP sul
lavoro a tempo determinato, deve essere interpretato nel senso che esso osta ai
provvedimenti previsti da una normativa nazionale, quale quella oggetto del
procedimento principale, la quale, nell'ipotesi di utilizzo abusivo, da parte
di un datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a
tempo determinato (pur legittimi), preveda soltanto il diritto, per il lavoratore
interessato, di ottenere il risarcimento del danno che egli reputi di aver
sofferto a causa di ciò, restando esclusa qualsiasi trasformazione del rapporto
di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato,
quando il diritto a detto risarcimento è subordinato all'obbligo, gravante su
detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori
opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere
praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio, da parte del
citato lavoratore, dei diritti conferiti dall'ordinamento dell'Unione”.
Sotto
questo profilo, pertanto, spetta al giudice nazionale valutare in che misura le
disposizioni di diritto interno volte a sanzionare il ricorso abusivo, da parte
della pubblica amministrazione, a una successione di contratti o rapporti di
lavoro a tempo determinato siano conformi a questi principi, rendendo effettiva
la conversione dei contratti di lavoro da determinato ad indeterminato di tutti
i rapporti a termine successivi con lo stesso datore di lavoro pubblico, dopo
trentasei mesi anche non continuativi di servizio precario, in applicazione
dell'art.5, comma 4-bis, del D.Lgs n.368/2001.
Tornando
al caso di specie, gli ermellini hanno escluso l'illegittimità dei contratti in
esame, anche sotto il profilo dell'abuso, trattandosi di soli tre contratti a
tempo determinato della durata di pochi mesi, così come, in sostanza, ritenuto
dalla Corte di merito.
Per
tale ragione, la Cassazione ha concluso rigettando il ricorso.
Valerio
Pollastrini
1)
-
cfr., ex plurimis, Cass., Sentenze nn.l0833\2010; 8718/2005; 15693/2004;
2357/2004; 12467/2003; 16063/2003 e 3163/2002;
2)
-
Ordinanza Papalia, C-50/13, e Sentenza "Carratù", C-361/12;
3)
-
concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla Direttiva 1999/70/CE del
Consiglio, del 28 giugno 1999;
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