Il caso
di specie è giunto all’attenzione degli ermellini dopo che la Corte di Appello
Torino, riformando parzialmente la sentenza del Tribunale del primo grado, aveva
rigettato la domanda con la quale un dipendente aveva impugnato il licenziamento intimatogli per aver svolto un’attività
sportiva compromettente il recupero delle sue energie fisiche e della sua
capacità lavorativa.
La Corte
del merito aveva così disposto dopo aver accertato che il dipendente, senza riferire alcunché al
datore di lavoro, aveva continuato a svolgere una pratica sportiva del tutto
incompatibile con le sue condizioni fisiche, esponendosi al rischio di un aggravamento.
In
particolare, la pronuncia del giudice dell’appello risultava fondata proprio in
considerazione dello stato fisico del ricorrente, per via del quale il datore
di lavoro lo aveva adibito a mansioni
ridotte e diverse da quelle precedentemente svolte, sopportando un inevitabile
danno dal punto di vista dell'efficienza produttiva ed organizzativa.
E’ dunque
in quest’ottica che, secondo il giudicante, la condotta posta in essere dal
dipendente, tradottasi nella violazione dei doveri di correttezza e buona fede,
risultava irrimediabilmente lesiva del rapporto fiduciario con il datore di
lavoro, e, quindi, passibile di legittimo licenziamento.
Investita
della questione, la Suprema Corte ha richiamato quanto costantemente affermato,
in proposito, dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale l'obbligo
di fedeltà a carico del lavoratore subordinato assume un contenuto più ampio di
quello risultante dall'art.2105 cc, dovendo integrarsi con gli artt.1175 e 1375
cc, che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti
extralavorativi, necessariamente tali da non danneggiare il datore di lavoro (1) e che, in tema
di licenziamento per violazione dell'obbligo di fedeltà, il lavoratore deve
astenersi dal porre in essere, non solo i comportamenti espressamente vietati
dall'art.2105 cc, ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le
possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi al suo
inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell'impresa, ivi compresa la
mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro
potenzialmente produttiva di danno (2).
Nel
ribadire, nella sostanza, la correttezza dell’impianto motivazionale reso dalla
Corte di Appello, la Cassazione ha confermato la legittimità del recesso.
Valerio
Pollastrini
1)
- cfr. Cass.,
Sentenza n.14176 del 18 giugno 2009;
2)
- v. Cass., Sentenza
n.6957 del 4 aprile 2005; Cass.,
Sentenza n.2474 del 1° febbraio 2008; Cass., Sentenza n.14176 del 18 giugno 2009; Cass.,
Sentenza n.3822 del 16 febbraio 2011;
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