Nel
caso di specie, la Corte di Appello di Ancona aveva confermato la decisione con
cui il Tribunale di Fermo aveva respinto la domanda proposta da una lavoratrice
per conseguire il risarcimento dei danni subiti per effetto della pluralità di
condotte, assunte come illecite ed unitariamente qualificate come
"mobbing", poste in essere dall’Amministrazione del Comune di Santa
Vittoria in Matenano.
In
particolare, la Corte territoriale aveva escluso, rispetto alla condizione di
disagio ambientale avvertita dalla donna ed accertata come sostanzialmente
sussistente, la responsabilità dell’Ente, in quanto detta condizione di disagio
era stata addebitata in via generale a tutti i soggetti coinvolti nel rapporto
e, nello specifico, a chiunque si trovasse in posizione di preminenza nei suoi
confronti, senza, altresì, specificarne
la motivazione, così da non consentire di escluderne un diverso e giustificato
fondamento motivazionale che, a detta del giudice dell’appello, sembrava
piuttosto conseguire da una indisponibilità della lavoratrice a collaborare
nello svolgimento di compiti accessori.
Avverso
questa sentenza, la dipendente aveva proposto ricorso per Cassazione, lamentando
come la Corte territoriale, ritenute sussistenti le condotte dalla stessa
imputate all’Ente datore, avrebbe illegittimamente ritenuto la necessità della
prova dell’elemento psicologico della condotta, accollandone alla medesima
l’onere.
Investiti
della questione, gli ermellini hanno ritenuto infondata la censura predetta,
precisando, in proposito, come la ricorrente avesse palesemente confuso
l’accertamento del fatto materiale con quello della sua illiceità, di cui la
componente psicologica costituisce un elemento essenziale e della cui prova
risulta certamente onerato l’attore.
A
tale riguardo, inoltre, la Suprema Corte
ha ricordato l’orientamento consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità,
secondo cui, ai fini della configurabilità del mobbing, devono ravvisarsi, da
parte del datore di lavoro, comportamenti, anche protratti nel tempo,
rivelatori in modo inequivoco di un’esplicita volontà di emarginare il dipendente, il quale, pertanto,
deve dedurre e provare la ricorrenza di una pluralità di condotte, anche di
diversa natura, tutte dirette (oggettivamente) alla sua espulsione dal contesto
aziendale, o, comunque, connotate da un alto tasso di prevaricazione, nonché
sorrette (soggettivamente) da un intento persecutorio e tra loro
intrinsecamente collegate dall’unico fine intenzionale di isolarlo (1).
Ciò
premesso, la Cassazione ha concluso confermando la validità del procedimento
logico in base al quale la Corte del merito aveva escluso che l’Ente convenuto
avesse posto in essere simili condotte ai danni della donna.
Valerio
Pollastrini
1)
-
v. da ultimo Cass., Sentenza n.17698 del 6 agosto 2014; Cass., Sentenza n.18836
del 7 agosto 2013;
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