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venerdì 5 dicembre 2014

Limiti al patto di non concorrenza

Nella sentenza  n.24662 del 19 novembre 2014, la Corte di Cassazione ha riepilogato i limiti, posti a tutela dei lavoratori,  del patto di non concorrenza.

Nel caso di specie, una società operante nel settore chimico per la ricerca, produzione e commercializzazione degli intermedi e prodotti di chimica, in particolare nel settore dei polimeri, aveva convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Bergamo il dirigente preposto alle funzioni di direttore dello stabilimento di Grassobbio,  chiedendo che, in forza del patto di non concorrenza stipulato, contestualmente all’assunzione,  fosse inibita a quest'ultimo la prosecuzione dell'attività lavorativa presso un’altra società avente ad oggetto la produzione di prodotti in concorrenza, e che il lavoratore fosse condannato al pagamento di una penale a titolo risarcitorio,

Con separato ricorso,  il dirigente aveva convenuto in giudizio la società, chiedendo, per ciò che è qui di interesse, che si accertasse la nullità o la risoluzione del patto di non concorrenza.

Il Tribunale di Bergamo, riuniti i due giudizi, in accoglimento della domanda proposta dalla società, aveva condannato il dirigente ad interrompere ogni attività lavorativa con la società concorrente e a pagare una penale in favore della ricorrente.

Tuttavia, la Corte di Appello di Brescia, riformando parzialmente la sentenza del Tribunale di primo grado, aveva successivamente accolto il ricorso del lavoratore.

In particolare, la Corte del merito aveva escluso la violazione del patto di non concorrenza, in quanto la disposta consulenza tecnica di ufficio aveva accertato la diversità dei meccanismi di produzione e degli impianti adoperati dal nuovo datore di lavoro rispetto a quelli della società ricorrente e la diversità dei prodotti realizzati.

Contro questa sentenza, la società aveva proposto ricorso per Cassazione, rilevando che, dal patto sottoscritto dalle parti al momento della costituzione del rapporto di lavoro, il divieto avrebbe riguardato attività in favore di terzi concorrente con quella del datore di lavoro, "limitatamente ai prodotti oggetto dell'attività lavorativa da parte del dipendente".

A questo proposito, l'istruttoria svolta avrebbe accertato che uno dei prodotti realizzati dal nuovo datore di lavoro fosse in concorrenza con quattro prodotti realizzati nello stabilimento della ricorrente in cui era stato occupato il lavoratore.

L’azienda aveva quindi censurato la Corte territoriale per aver escluso l'inadempimento del dirigente alla luce di una circostanza del tutto estranea all'accordo fra le parti, e cioè all'accertamento "in concreto della possibilità per il dipendente di incidere su questa concorrenza per le sue conoscenze professionali".

Una simile interpretazione esulerebbe dalla fattispecie astratta dell'art.2125 c.c., in rapporto all’art.1372 c.c., involgendo una valutazione estranea all'ambito di accertamento della violazione dell'obbligo di non fare concorrenza.

L’azienda aveva poi aggiunto che, ai fini della validità del patto di non concorrenza, la normativa di riferimento non limiterebbe lo stesso  ai soli casi di un effettivo sfruttamento, in favore del secondo datore di lavoro, delle conoscenze acquisite dal lavoratore nel precedente impiego. 

Di contro, il limite di oggetto previsto dall’art.2125 c.c. sarebbe costituito esclusivamente dalla necessità di lasciare al lavoratore un margine sufficiente di attività e di possibilità di guadagno, limite che, sempre a detta della ricorrente, non sarebbe stato violato nel caso di specie, in considerazione della qualificazione professionale del dirigente e della limitazione del patto ad un settore di "nicchia", con la possibilità per l'ingegnere di lavorare in pressoché tutto il settore della chimica.

A sostegno del proprio assunto, la società aveva richiamato alcuni precedenti della giurisprudenza di legittimità (1), secondo i quali risulta conforme all’art.2125 c.c. il patto che vieta all'ex dipendente di intraprendere un rapporto di lavoro con impresa concorrente con quella di provenienza, con riferimento ai prodotti oggetto dell'attività lavorativa, senza limitare l'obbligazione di non facere ai casi in cui le mansioni o il ruolo affidati presso la nuova azienda siano tali da attribuire a quest'ultima un concreto beneficio concorrenziale derivante dallo sfruttamento da parte del dipendente delle conoscenze acquisite presso il precedente datore di lavoro.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto infondate le censure predette.

Nella premessa, gli ermellini hanno ricordato che nel patto di non concorrenza  sottoscritto dalle parti era previsto un vincolo di segretezza imposto al dipendente con riferimento a tutte le funzioni e alle attività svolte dall’impresa, all’intero processo produttivo, inclusi macchinari e programmi, all'elenco dei clienti e dei fornitori e alle politiche di ricerca tecnologica.

Entro i limiti sopra citati, inoltre, il lavoratore si era impegnato ad astenersi, ai sensi dell'art.2125 c.c., dall'intraprendere un'attività d'impresa, o dall'assumere cariche sociali o ancora dall'instaurare, in via stabile od occasionale, rapporti di qualunque tipo (di consulenza, collaborazione, lavoro subordinato) in favore di terzi svolgenti attività concorrente con quella del datore di lavoro, "limitatamente ai prodotti oggetto dell'attività lavorativa da parte del dipendente".

Detto patto di non concorrenza risultava  vincolato ad una durata quinquennale e circoscritto a  tutte le nazioni della CEE, Svizzera e Stati Uniti, a fronte di  un corrispettivo in favore del dirigente di 26 milioni di lire annui lordi.

Dopo aver riepilogato il contenuto della clausola contrattuale, la Suprema Corte ha osservato che il giudice del merito aveva accertato: che le due società operavano nel settore dei polimeri acrilici per l’elaborazione di prodotti non finali,  destinati ad entrare come componenti nella produzione di altri beni; che i polimeri realizzati dalle due società avevano caratteristiche morfologiche, di stato e di reazione diverse; che uno solo dei prodotti realizzati dalla seconda era in concorrenza con quattro prodotti della ricorrente nel settore degli ispessimenti per detergenti a bassa viscosità.

La Corte di Appello aveva concluso affermando che la obbiettiva diversità dei processi produttivi, degli impianti, della composizione delle sostanze, della loro struttura chimica e delle modalità di reazione nei procedimenti diretti alla realizzazione dei prodotti finali, compresi gli effetti della loro incorporazione, rendevano l'attività svolta dalla seconda società  diversa rispetto a quella della società datrice di lavoro ed in nessun modo collegabile alla professionalità, nonché alle informazioni e competenze tecniche acquisite dal dirigente presso la datrice di lavoro.

In sostanza, la Corte territoriale aveva escluso la violazione del patto di non concorrenza dopo aver accertato l’oggettiva diversità dell’attività di produzione svolta dalle due società.

Secondo gli ermellini, questo giudizio, coerente ed esaustivo, oltre che sorretto da un compiuto apprezzamento dei fatti di causa e delle evidenze istruttorie, non può essere scalfito dall'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata,  della concorrenzialità rilevata tra un prodotto della seconda società e quattro prodotti della società appellata.

Si tratta, infatti,  di un dato dal valore assai marginale, sotto il profilo della identità economica dei beni e della loro idoneità ad essere competitivi, rispetto al più complessivo giudizio riguardante l'oggettiva assenza di competitività tra i prodotti delle due società.

Le clausole di non concorrenza sono finalizzate a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi "esportazione presso imprese concorrenti" del patrimonio immateriale dell'azienda, nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica ed amministrativa, metodi ed i processi di lavoro, eccetera) ed esterni (avviamento, clientela, cc.), trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle imprese concorrenti.

In questo ambito, l’art.2125 c.c. si preoccupa di tutelare il lavoratore subordinato affinché le dette clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di poter dirigere la propria attività  verso altre occupazioni, ritenute più convenienti e, per tali ragioni,  ha  previsto che le limitazioni dell’accordo in commento debbano essere subordinate a determinate condizioni, temporali e spaziali, e ad un corrispettivo adeguato, a pena della loro nullità.

Per limiti di oggetto si deve aver riguardo all’attività del prestatore di lavoro, non circoscritta alle specifiche mansioni in concreto svolte presso il datore di lavoro nei cui confronti è assunto il vincolo.

L'art. 2125 c.c., infatti, non fornisce indicazioni sulla estensione di tali limiti, esse devono ricavarsi, pertanto, dalla ratio della previsione di nullità, palesemente intesa ad assicurare al prestatore di lavoro un margine di attività idoneo a procurargli un guadagno adeguato alle esigenze di vita proprie e della famiglia.

A tal fine, la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che l’oggetto è delimitato dalla attività del datore di lavoro, con la conseguenza che devono escludersi dal possibile ambito del patto, in quanto inidonee ad integrare concorrenza, attività estranee allo specifico settore produttivo o commerciale nel quale opera l'azienda, ovvero al "mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergono domande ed offerte di beni o servizi identici oppure reciprocamente alternativi o fungibili, comunque, parimenti idonei ad offrire beni o servizi nel medesimo mercato"  (2).

Sul punto, la Corte bresciana  aveva ritenuto che l'attività svolta dal lavoratore in favore della nuova azienda non rientrasse nell’ambito oggettivo del patto di non concorrenza, espressamente limitato "a prodotti oggetto dell'attività lavorativa del dipendente".

A detta della Cassazione, l'ulteriore affermazione, secondo cui mancava un rapporto diretto ed immediato tra le conoscenze e le informazioni del dipendente, acquisite durante la pregressa esperienza lavorativa, e il loro possibile trasferimento presso la nuova società, per introdurvi modificazioni o innovazione dei processi, oltre a rafforzare il giudizio relativo alla diversità delle produzioni, risulta coerente con la ratio del patto di non concorrenza, in quanto esprime il giudizio di assenza di competitività tra le due attività, e, quindi, nella specie, di ogni possibilità di "esportazione" verso la nuova società dei beni immateriali della società datrice di lavoro.

In base a tutte le riportate considerazioni, gli ermellini hanno disposto il rigetto del ricorso, osservando che la ritenuta insussistenza del rapporto concorrenziale - espressamente limitato dal patto ai prodotti dell’attività lavorativa del dipendente - rende superfluo ogni ulteriore accertamento circa l’eventuale compromissione delle residue possibilità di una diversa allocazione del dipendente sul mercato del lavoro, con la conseguente insussistenza dei denunciati vizi di violazione di legge e di omessa motivazione.

Valerio Pollastrini

 
1)      - Cass., Sentenza n.13282 del 10 settembre 2003; Cass., Sentenza n.15253 del 3 dicembre 2001;
2)      - Cass., Sentenza n.988 del 21 gennaio 2004; Cass., Sentenza n.7141 del 21 marzo 2013;

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