Nel
caso di specie, una società operante nel settore chimico per la ricerca,
produzione e commercializzazione degli intermedi e prodotti di chimica, in
particolare nel settore dei polimeri, aveva convenuto in giudizio dinanzi al
Tribunale di Bergamo il dirigente preposto alle funzioni di direttore dello stabilimento
di Grassobbio, chiedendo che, in forza
del patto di non concorrenza stipulato, contestualmente all’assunzione, fosse inibita a quest'ultimo la prosecuzione
dell'attività lavorativa presso un’altra società avente ad oggetto la
produzione di prodotti in concorrenza, e che il lavoratore fosse condannato al
pagamento di una penale a titolo risarcitorio,
Con
separato ricorso, il dirigente aveva
convenuto in giudizio la società, chiedendo, per ciò che è qui di interesse,
che si accertasse la nullità o la risoluzione del patto di non concorrenza.
Il
Tribunale di Bergamo, riuniti i due giudizi, in accoglimento della domanda
proposta dalla società, aveva condannato il dirigente ad interrompere ogni
attività lavorativa con la società concorrente e a pagare una penale in favore
della ricorrente.
Tuttavia,
la Corte di Appello di Brescia, riformando parzialmente la sentenza del Tribunale
di primo grado, aveva successivamente accolto il ricorso del lavoratore.
In
particolare, la Corte del merito aveva escluso la violazione del patto di non
concorrenza, in quanto la disposta consulenza tecnica di ufficio aveva
accertato la diversità dei meccanismi di produzione e degli impianti adoperati
dal nuovo datore di lavoro rispetto a quelli della società ricorrente e la
diversità dei prodotti realizzati.
Contro
questa sentenza, la società aveva proposto ricorso per Cassazione, rilevando
che, dal patto sottoscritto dalle parti al momento della costituzione del
rapporto di lavoro, il divieto avrebbe riguardato attività in favore di terzi
concorrente con quella del datore di lavoro, "limitatamente ai prodotti oggetto dell'attività lavorativa da parte del
dipendente".
A
questo proposito, l'istruttoria svolta avrebbe accertato che uno dei prodotti
realizzati dal nuovo datore di lavoro fosse in concorrenza con quattro prodotti
realizzati nello stabilimento della ricorrente in cui era stato occupato il
lavoratore.
L’azienda
aveva quindi censurato la Corte territoriale per aver escluso l'inadempimento
del dirigente alla luce di una circostanza del tutto estranea all'accordo fra
le parti, e cioè all'accertamento "in
concreto della possibilità per il dipendente di incidere su questa concorrenza
per le sue conoscenze professionali".
Una
simile interpretazione esulerebbe dalla fattispecie astratta dell'art.2125
c.c., in rapporto all’art.1372 c.c., involgendo una valutazione estranea
all'ambito di accertamento della violazione dell'obbligo di non fare
concorrenza.
L’azienda
aveva poi aggiunto che, ai fini della validità del patto di non concorrenza, la
normativa di riferimento non limiterebbe lo stesso ai soli casi di un effettivo sfruttamento, in
favore del secondo datore di lavoro, delle conoscenze acquisite dal lavoratore
nel precedente impiego.
Di
contro, il limite di oggetto previsto dall’art.2125 c.c. sarebbe costituito
esclusivamente dalla necessità di lasciare al lavoratore un margine sufficiente
di attività e di possibilità di guadagno, limite che, sempre a detta della
ricorrente, non sarebbe stato violato nel caso di specie, in considerazione
della qualificazione professionale del dirigente e della limitazione del patto
ad un settore di "nicchia", con la possibilità per l'ingegnere di
lavorare in pressoché tutto il settore della chimica.
A
sostegno del proprio assunto, la società aveva richiamato alcuni precedenti
della giurisprudenza di legittimità (1), secondo i quali risulta conforme
all’art.2125 c.c. il patto che vieta all'ex dipendente di intraprendere un
rapporto di lavoro con impresa concorrente con quella di provenienza, con
riferimento ai prodotti oggetto dell'attività lavorativa, senza limitare
l'obbligazione di non facere ai casi
in cui le mansioni o il ruolo affidati presso la nuova azienda siano tali da
attribuire a quest'ultima un concreto beneficio concorrenziale derivante dallo
sfruttamento da parte del dipendente delle conoscenze acquisite presso il
precedente datore di lavoro.
Investita
della questione, la Cassazione ha ritenuto infondate le censure predette.
Nella
premessa, gli ermellini hanno ricordato che nel patto di non concorrenza sottoscritto dalle parti era previsto un
vincolo di segretezza imposto al dipendente con riferimento a tutte le funzioni
e alle attività svolte dall’impresa, all’intero processo produttivo, inclusi
macchinari e programmi, all'elenco dei clienti e dei fornitori e alle politiche
di ricerca tecnologica.
Entro
i limiti sopra citati, inoltre, il lavoratore si era impegnato ad astenersi, ai
sensi dell'art.2125 c.c., dall'intraprendere un'attività d'impresa, o
dall'assumere cariche sociali o ancora dall'instaurare, in via stabile od
occasionale, rapporti di qualunque tipo (di consulenza, collaborazione, lavoro
subordinato) in favore di terzi svolgenti attività concorrente con quella del
datore di lavoro, "limitatamente ai
prodotti oggetto dell'attività lavorativa da parte del dipendente".
Detto
patto di non concorrenza risultava
vincolato ad una durata quinquennale e circoscritto a tutte le nazioni della CEE, Svizzera e Stati
Uniti, a fronte di un corrispettivo in
favore del dirigente di 26 milioni di lire annui lordi.
Dopo
aver riepilogato il contenuto della clausola contrattuale, la Suprema Corte ha
osservato che il giudice del merito aveva accertato: che le due società
operavano nel settore dei polimeri acrilici per l’elaborazione di prodotti non
finali, destinati ad entrare come
componenti nella produzione di altri beni; che i polimeri realizzati dalle due
società avevano caratteristiche morfologiche, di stato e di reazione diverse;
che uno solo dei prodotti realizzati dalla seconda era in concorrenza con quattro
prodotti della ricorrente nel settore degli ispessimenti per detergenti a bassa
viscosità.
La
Corte di Appello aveva concluso affermando che la obbiettiva diversità dei
processi produttivi, degli impianti, della composizione delle sostanze, della
loro struttura chimica e delle modalità di reazione nei procedimenti diretti
alla realizzazione dei prodotti finali, compresi gli effetti della loro
incorporazione, rendevano l'attività svolta dalla seconda società diversa rispetto a quella della società
datrice di lavoro ed in nessun modo collegabile alla professionalità, nonché
alle informazioni e competenze tecniche acquisite dal dirigente presso la datrice
di lavoro.
In
sostanza, la Corte territoriale aveva escluso la violazione del patto di non
concorrenza dopo aver accertato l’oggettiva diversità dell’attività di
produzione svolta dalle due società.
Secondo
gli ermellini, questo giudizio, coerente ed esaustivo, oltre che sorretto da un
compiuto apprezzamento dei fatti di causa e delle evidenze istruttorie, non può
essere scalfito dall'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, della concorrenzialità rilevata tra un
prodotto della seconda società e quattro prodotti della società appellata.
Si
tratta, infatti, di un dato dal valore
assai marginale, sotto il profilo della identità economica dei beni e della
loro idoneità ad essere competitivi, rispetto al più complessivo giudizio
riguardante l'oggettiva assenza di competitività tra i prodotti delle due
società.
Le
clausole di non concorrenza sono finalizzate a salvaguardare l’imprenditore da
qualsiasi "esportazione presso
imprese concorrenti" del patrimonio immateriale dell'azienda, nei suoi
elementi interni (organizzazione tecnica ed amministrativa, metodi ed i
processi di lavoro, eccetera) ed esterni (avviamento, clientela, cc.),
trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo
successo rispetto alle imprese concorrenti.
In
questo ambito, l’art.2125 c.c. si preoccupa di tutelare il lavoratore
subordinato affinché le dette clausole non comprimano eccessivamente le
possibilità di poter dirigere la propria attività verso altre occupazioni, ritenute più
convenienti e, per tali ragioni, ha previsto che le limitazioni dell’accordo in
commento debbano essere subordinate a determinate condizioni, temporali e
spaziali, e ad un corrispettivo adeguato, a pena della loro nullità.
Per
limiti di oggetto si deve aver riguardo all’attività del prestatore di lavoro,
non circoscritta alle specifiche mansioni in concreto svolte presso il datore
di lavoro nei cui confronti è assunto il vincolo.
L'art.
2125 c.c., infatti, non fornisce indicazioni sulla estensione di tali limiti,
esse devono ricavarsi, pertanto, dalla ratio
della previsione di nullità, palesemente intesa ad assicurare al prestatore di
lavoro un margine di attività idoneo a procurargli un guadagno adeguato alle
esigenze di vita proprie e della famiglia.
A
tal fine, la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che l’oggetto
è delimitato dalla attività del datore di lavoro, con la conseguenza che devono
escludersi dal possibile ambito del patto, in quanto inidonee ad integrare
concorrenza, attività estranee allo specifico settore produttivo o commerciale
nel quale opera l'azienda, ovvero al "mercato
nelle sue oggettive strutture, ove convergono domande ed offerte di beni o
servizi identici oppure reciprocamente alternativi o fungibili, comunque,
parimenti idonei ad offrire beni o servizi nel medesimo mercato" (2).
Sul
punto, la Corte bresciana aveva ritenuto
che l'attività svolta dal lavoratore in favore della nuova azienda non
rientrasse nell’ambito oggettivo del patto di non concorrenza, espressamente
limitato "a prodotti oggetto
dell'attività lavorativa del dipendente".
A
detta della Cassazione, l'ulteriore affermazione, secondo cui mancava un
rapporto diretto ed immediato tra le conoscenze e le informazioni del
dipendente, acquisite durante la pregressa esperienza lavorativa, e il loro
possibile trasferimento presso la nuova società, per introdurvi modificazioni o
innovazione dei processi, oltre a rafforzare il giudizio relativo alla
diversità delle produzioni, risulta coerente con la ratio del patto di non concorrenza, in quanto esprime il
giudizio di assenza di competitività tra le due attività, e, quindi, nella
specie, di ogni possibilità di "esportazione" verso la nuova società
dei beni immateriali della società datrice di lavoro.
In
base a tutte le riportate considerazioni, gli ermellini hanno disposto il rigetto
del ricorso, osservando che la ritenuta insussistenza del rapporto
concorrenziale - espressamente limitato dal patto ai prodotti dell’attività
lavorativa del dipendente - rende superfluo ogni ulteriore accertamento circa
l’eventuale compromissione delle residue possibilità di una diversa allocazione
del dipendente sul mercato del lavoro, con la conseguente insussistenza dei denunciati
vizi di violazione di legge e di omessa motivazione.
Valerio
Pollastrini
1)
-
Cass., Sentenza n.13282 del 10 settembre 2003; Cass., Sentenza n.15253 del 3 dicembre
2001;
2)
-
Cass., Sentenza n.988 del 21 gennaio 2004; Cass., Sentenza n.7141 del 21 marzo
2013;
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