Nel
caso di specie, una lavoratrice, addetta alla cassa di un supermercato, era
stata licenziata per aver omesso la registrazione della vendita di alcuni prodotti
e per essersi appropriata delle relative somme, comunque incassate, in due diverse
ipotesi verificatesi a distanza di due giorni.
Impugnato
il recesso, la donna aveva convenuto in giudizio la datrice di lavoro,
chiedendo l’annullamento del licenziamento subito.
Tuttavia,
sia il Tribunale del primo grado che, successivamente, la Corte di Appello ne
avevano rigettato la domanda.
Nello
specifico, la lavoratrice aveva dedotto, rispettivamente, l'intempestività dell'addebito disciplinare, il controllo occulto operato sulla sua
attività di cassiera da parte di una agenzia investigativa e la sproporzione
della sanzione subita.
Nel
motivare la propria decisione, la Corte di Appello aveva richiamato la
giurisprudenza dì legittimità secondo la quale sono legittimi e non violano lo
Statuto dei Lavoratori i controlli del datore di lavoro a mezzo di agenzia
investigativa se diretti non a verificare il mero eventuale inadempimento
contrattuale del lavoratore, ma degli illeciti riguardanti il patrimonio
aziendale.
A
proposito della doglianza mossa dalla lavoratrice sui tempi della fase di avvio
del procedimento disciplinare, la Corte territoriale aveva ritenuto tempestiva
la contestazione aziendale dell’addebito, attesa la complessità della verifica
dei fatti all’oggetto. Peraltro, la ricorrente aveva avuto modo di fornire le
proprie giustificazioni attraverso allegazioni specifiche, dichiarando di non aver
mai visto i prodotti menzionati alla cassa, esercitando così il proprio diritto
di difesa.
Riguardo
alla congruità del provvedimento espulsivo, il giudice dell’appello aveva
ritenuto che la sanzione non fosse sproporzionata, in considerazione delle
specifiche mansioni svolte dalla lavoratrice, dell’appropriazione indebita di
somme, nonché della reiterazione comportamento
a distanza di sole 48 ore.
Nel
corso dell’istruttoria, inoltre, gli episodi contestati risultavano pienamente
confermati dalle dichiarazioni rese dai testimoni addetti al controllo,
che avevano attestato che nelle due
diverse giornate non vi erano state eccedenze di cassa e non erano stati
rilasciati gli scontrini per i due articoli di cui si è detto e, pertanto, la
lavoratrice si era effettivamente appropriata delle somme relative ai prodotti
in questione.
La
prassi di tolleranza aziendale per i casi di discordanza contabile,
chiaramente, non poteva essere estesa a quelli di appropriazione.
Avverso
questa sentenza, la dipendente aveva proposto ricorso per Cassazione,
censurando i presupposti ed i requisiti del controllo esercitato dal datore di
lavoro sulla sua attività.
La
ricorrente aveva poi censurato la sentenza impugnata per la ritenuta
tempestività della contestazione dell’addebito e per la ritenuta proporzionalità
tra fatto contestato e la sanzione del
licenziamento per giusta causa.
Investita
della questione, la Cassazione ha ritenuto infondate le predette doglianze.
Gli
ermellini hanno osservato, innanzitutto, che la Corte di Appello aveva
applicato correttamente il consolidato orientamento della giurisprudenza di
legittimità, secondo il quale sono leciti i controlli del datore di lavoro a
mezzo di un’agenzia investigativa in ordine agli illeciti del lavoratore che
non riguardino il mero inadempimento della prestazione, ma incidano sul
patrimonio aziendale (1).
Sul
punto, la Suprema Corte ha recentemente ribadito
(2) il potere dell'imprenditore di ricorrere alla
collaborazione di un'agenzia
investigativa per la tutela del patrimonio aziendale.
Parimenti,
è stato ribadito che, per la legittimità di un simile controllo, dette
agenzie non devono sconfinare nella vigilanza sull'attività
lavorativa vera e propria, riservata, dall'art.3 dello Statuto del lavoratori,
direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, restando giustificato
l'intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza
di accertarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera
ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (3).
Tornando
al caso di specie, la Cassazione ha ritenuto che la sentenza impugnata risultava
perfettamente coerente con il richiamato indirizzo della giurisprudenza di
legittimità, in quanto i controlli disposti sull’operato della lavoratrice erano preposti a verificare eventuali
sottrazioni di cassa e, quindi, a salvaguardare il patrimonio aziendale.
In
merito alla censura mossa dalla ricorrente sui tempi di avvio del procedimento
disciplinale, gli ermellini hanno osservato che la contestazione dell’addebito
era stata disposta a brevissima distanza dai fatti, appena dieci giorni dall'ultimo
episodio, un periodo di tempo minimo per effettuare i doverosi controlli e per
procedere ad una contestazione fondata su valide ragioni.
Affrontando,
infine, la questione della sproporzione della sanzione espulsiva rispetto alla
contestata condotta, dedotta dalla ricorrente, gli ermellini hanno ribadito le
argomentazioni con le quali il giudice dell’appello aveva ritenuto accertata la
sottrazione delle somme non contabilizzate ad opera della cassiera.
Di
fronte ad un simile operato, anche la Suprema Corte ha ritenuto congrua la
sanzione del licenziamento.
In
base a tutte le richiamate considerazioni, la Cassazione ha rigettato il
ricorso, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese
processuali, liquidate in 100,00 € per esborsi, nonché in 3.000,00 € per compensi professionali, oltre
il 15% di spese generali.
Valerio
Pollastrini
1)
–
Cass., Sentenza n.18821/2008;
2)
–
Cass., Sentenza n.4984/2014;
3)
-
Cass., Sentenza n.3590 del 14 febbraio 2011;
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