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sabato 22 novembre 2014

Superamento del periodo di comporto - Licenziamento – Revoca – Rinnovazione dell’atto alla comunicazione del prolungamento della malattia

Nella sentenza n.24525 del 18 novembre 2014, la  Corte di Cassazione ha ribadito che dalla nullità di un licenziamento discende la possibilità di rinnovazione dell’atto sulla base di una situazione diversa e nuova.

Nel caso di specie, la Corte di Appello di Genova aveva confermato la decisione con la quale  il Tribunale di Chiavari  aveva rigettato la domanda di un dipendente diretta ad ottenere la declaratoria di inefficacia della revoca del licenziamento irrogatagli dal datore di lavoro in data 25 maggio 2009, nonché di illegittimità del licenziamento intimatogli in data 30 aprile 2009, con la condanna dell’azienda alla sua reintegrazione in servizio, nonché al risarcimento dei danni.

Nella premessa, la Corte territoriale aveva riassunto i fatti di causa nei seguenti termini:

a)     il lavoratore, in aspettativa per malattia fino al 1° maggio 2009, aveva ricevuto una lettera di licenziamento per superamento del periodo di comporto datata 30 aprile 2009; in data 25 maggio 2009 la società gli aveva inviato altra lettera con cui aveva precisato che licenziamento del 30 aprile precedente doveva ritenersi efficace solo dal momento in cui il lavoratore ne aveva avuto comunicazione (6 maggio 2009);

b)    in ogni caso, lo aveva revocato e, contestualmente, ne aveva intimato un altro, fondato sul superamento del periodo di comporto per effetto della comunicazione scritta, inviatagli dal lavoratore, di prolungamento del suo stato di malattia sino al 4 giugno 2009.

Ciò premesso, la Corte del merito aveva ritenuto che:

-         il primo licenziamento era nullo perché intimato durante il periodo di malattia, e prima della scadenza del periodo di comporto;

-         la revoca del licenziamento disposta con la missiva del 25 maggio 2009 doveva ritenersi improduttiva di effetti, in quanto non accettata dal lavoratore;

-         in conseguenza della nullità del primo licenziamento, era legittimo l'esercizio da parte della datrice di lavoro del nuovo potere di recesso, fondato sul definitivo superamento del periodo di comporto.

Avverso questa  sentenza, il lavoratore aveva proposto ricorso per Cassazione, deducendo che, poiché la Corte aveva ritenuto inefficace la revoca in quanto da egli non accettata, ogni ulteriore indagine avrebbe dovuto ritenersi superflua essendosi il rapporto ormai esaurito ed essendosi così consumatosi il potere risolutorio del datore di lavoro.

In sostanza, il ricorrente aveva sostenuto che tutti gli atti successivi al (primo) licenziamento fossero privi di rilievo, compresa la sua missiva  con la quale aveva comunicato all’azienda la prosecuzione del periodo di aspettativa, avendo il datore di lavoro già consumato il potere risolutorio con riferimento al superamento del periodo di comporto.

A ciò, il dipendente aveva aggiunto che l'ipotesi in esame non configurerebbe un caso di nullità del licenziamento ma di illegittimità, con la conseguente sussistenza del suo diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.

Investita della questione,  la Cassazione ha rigettato il ricorso, in quanto infondato.

Nel richiamare preliminarmente i principi più volte espressi dalla giurisprudenza di legittimità, gli ermellini hanno osservato che, invero, in caso di licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, ma anteriormente alla scadenza di questo, l'atto di recesso è nullo per violazione di norma imperativa, di cui all'art.2110 c.c., che vieta il licenziamento stesso in costanza della malattia del lavoratore, e non già temporaneamente inefficace, con differimento dei relativi effetti al momento della scadenza: il superamento del comporto costituisce, infatti, ai sensi del citato art.2110 c.c., una situazione autonomamente giustificatrice del recesso, che deve, perciò, esistere già anteriormente alla comunicazione dello stesso, per legittimare il datore di lavoro al compimento di quest'atto, ove di esso costituisca il solo motivo (1).

Ciò premesso, la Suprema Corte ha sottolineato la propria intenzione di dare continuità ad un orientamento secondo il quale dalla nullità del licenziamento discende la possibilità di rinnovazione dell’atto.

A tale proposito, la Corte di legittimità ha osservato che detta rinnovazione, risolvendosi nel compimento di un negozio diverso dal precedente, esula dallo schema dell'art.1423 c.c., il cui intento è quello di  impedire la sanatoria di un negozio nullo con effetto ex lune e non a comprimere la libertà delle parti di reiterare la manifestazione della propria autonomia negoziale (2).

In particolare, la Cassazione ha fatto appello alla Sentenza n.6773 del 19 marzo 2013, con la quale la Corte stessa aveva confermato la giurisprudenza secondo cui è consentita la rinnovazione del licenziamento disciplinare nullo per vizio di forma (purché siano adottate le modalità prescritte, omesse nella precedente intimazione) in base agli stessi motivi sostanziali determinativi del precedente recesso, anche se la questione della validità del primo licenziamento sia ancora sub iudice.

Tornando sulla vicenda in questione, gli ermellini hanno poi aggiunto  che, secondo quanto emerso dagli atti e non risultato  oggetto di contestazione tra le parti, il secondo licenziamento era stato intimato sulla base di una situazione diversa e nuova rispetto alla precedente, costituita dalla comunicazione di un ulteriore periodo di malattia del lavoratore, che aveva determinato il definitivo superamento del periodo di comporto.

Di conseguenza, la continuità e la permanenza del rapporto, non interrotto dall'atto di recesso nullo, per un verso avevano reso privo di effetto l'atto di revoca del primo licenziamento intimato dalla società e, per altro verso, rendevano giustificata l'irrogazione di un secondo recesso, in quanto fondato su una nuova e diversa ragione giustificatrice, dalla quale solamente, in mancanza di tempestiva impugnazione, era derivato l'effetto estintivo del rapporto (3).

Per tutte le considerazioni predette, la Cassazione ha concluso con il rigetto del ricorso e la conseguente condanna del lavoratore al pagamento delle spese processuali, liquidate in 4.000,00 € per compensi professionali, 100,00 € per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed agli altri accessori di legge.

Valerio Pollastrini

 
1)      - Cass., Sentenza n.9869 del 21 settembre 1991; Cass., Sentenza n.12031 del 26 ottobre 1999;
2)      - In tal senso, Cass., Sentenza n.23641 del 6 novembre 2006;
3)      - Cass., Sentenza n.6055 del 6 marzo 2008; Cass., Sentenza n.19104 del 9 agosto 2013;

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