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lunedì 10 novembre 2014

Omessa registrazione del lavoratore nei libri paga e matricola - Verbale ispettivo - Conciliazione fra datore e lavoratore - Opponibilità all’Inps

Nella sentenza n.23799 del 7 novembre 2014, la Corte di Cassazione ha precisato che, qualora in sede di ispezione l’Inps rilevi un’omissione contributiva, il datore di lavoro non può opporre l’eventuale conciliazione precedentemente stipulata con il dipendente, attestante fatti diversi da quelli evidenziati nel verbale di accertamento, in quanto detta conciliazione assume efficacia solo tra le parti e non incide sulla pretesa dell’Ente Previdenziale.

Nel caso di specie, la Corte di Appello di Napoli aveva confermato la decisione con la quale il Tribunale di primo grado aveva rigettato le opposizioni proposte da una società  avverso i decreti ingiuntivi e l'ordinanza ingiunzione notificatigli per il pagamento di contributi e sanzioni conseguenti ad un verbale ispettivo dei funzionari di vigilanza dell’lNPS.

Nel citato verbale, infatti,  erano stati contestati all’azienda, esercente l’attività di ristorazione, la omessa registrazione di un lavoratore nei libri paga e matricola, il versamento di contributi con riguardo al lavoro a tempo parziale asseritamente svolto dai dipendenti, anziché a tempo pieno, ed il versamento di contributi in misura inferiore a quella prevista dal CCNL di categoria.

La Corte del merito, in particolare, aveva ritenuto fondate le pretese dell’Ente Previdenziale sulla scorta delle risultanze probatorie acquisite in primo grado, tra le quali la prova testimoniale.

Contro questa pronuncia la società aveva proposto ricorso per Cassazione, deducendo
l’erroneità della sentenza impugnata sulla base dei seguenti rilievi:

-         non vi sarebbe stata una omissione di registrazione  del lavoratore, come risulterebbe dalla prova testimoniale,  erroneamente valutata dai giudici del merito, nonché dal verbale di conciliazione redatto dal datore di lavoro ed il predetto dipendente davanti alla Commissione Provinciale di Conciliazione di Napoli;

-         i camerieri avrebbero svolto lavoro parziale e non già a tempo pieno, diversamente da quanto sostenuto nella sentenza impugnata, come si evincerebbe dalla prova testimoniale e dai verbali di conciliazione sottoscritti dai dipendenti, a nulla rilevando che i contratti di lavoro non fossero stati stipulati in forma scritta, non essendo questa richiesta a pena di nullità;

-         a seguito dell’accertamento ispettivo il datore di lavoro aveva  proposto istanza di condono in data 1 luglio 1996, reiterata il 29 maggio 1997, di cui l’INPS, nel richiedere il pagamento dei contributi, non avrebbe tenuto conto;

-         anche le sanzioni, compresa quella una tantum, applicate in base alla Legge n.662/1996, sarebbero illegittime ed errate, posto che, per le somme effettivamente dovute, risulterebbero applicabili i criteri sanzionatori previsti dal condono stesso.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto il ricorso  inammissibile.

Preliminarmente, gli ermellini hanno precisato come il ricorso fosse privo di rubriche e non avesse denunciato alcun vizio ex art.360 cod. proc. civ., vale a dire i motivi per i quali la sentenza era stata impugnata.

In particolare, non risultava se le predette censure attenessero a violazione e falsa applicazione di norme di diritto (1), ovvero a omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (2).

Sotto altro profilo, la Suprema Corte ha precisato che, a norma dell’art.366, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., il ricorso per Cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, l’esposizione sommaria dei fatti di causa.

Al riguardo, nella giurisprudenza di legittimità si è  più volte affermato, che, ai fini della sussistenza di tale requisito, è necessario, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, che in esso vengano indicati, in maniera specifica e puntuale, tutti gli elementi utili perché la Cassazione possa avere la completa cognizione dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso assunte dalle parti, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti del processo, ivi compresa la sentenza impugnata, così da acquisire un quadro degli elementi fondamentali in cui si colloca la decisione censurata e i motivi delle doglianze prospettate (3).

Nella specie la ricorrente aveva omesso del tutto di esporre detti elementi, incorrendo, così, nel vizio sopra indicato.

In ordine alle censure come sopra irritualmente proposte, la Corte ha tuttavia precisato:

-         che, con riguardo a quella concernente la non corretta valutazione delle risultanze probatorie, la ricorrente aveva teso inammissibilmente a rimettere in discussione, contrapponendo una propria diversa valutazione, l’apprezzamento dei fatti e delle prove compiuto dai giudici di merito, che, secondo il costante orientamento giurisprudenziale, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che nell’ambito di detto sindacato, non è consentito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione rese dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (4);

-         che, in ordine alle circostanze risultanti dai verbali di conciliazione stipulati dai lavoratori con il datore di lavoro, la ricorrente aveva omesso del tutto di considerare e contestare quanto sostenuto al riguardo dalla sentenza impugnata che, nel richiamare i principi enunciati dalla Cassazione, aveva affermato che la conciliazione di una controversia attinente ad un rapporto di lavoro assume efficacia soltanto per le parti che l’hanno stipulata e non già nei confronti dei terzi, ed in particolare nei confronti di quegli uffici o enti titolari di interessi pubblici, come l’INPS, i quali non incontrano alcun limite probatorio nell’accertamento giudiziale della natura e delle modalità del rapporto di lavoro intercorso tra le parti;

-         che, parimenti,  la ricorrente aveva omesso del tutto di considerare e di prendere posizione su quanto affermato dalla Corte territoriale in ordine alla domanda di condono e alle sanzioni, e cioè che il Consulente Tecnico d’Ufficio, nell’espletamento dell’incarico affidatogli, aveva tenuto conto di detta domanda, e che, con riguardo alle sanzioni civili, l’eventuale maggior importo versato a tale titolo, pari alla differenza tra quanto dovuto in base alla normativa previgente e quanto calcolato in base all’art.116, commi 8 e 17, della Legge n.388/2000, costituisce un credito contributivo recuperabile, a domanda dell’interessato, attraverso detrazione dalla contribuzione.

Per tutte le richiamate considerazioni, la Cassazione ha rigettato il ricorso, con conseguente condanna della società al pagamento delle spese del processo di legittimità, liquidate in 5.000,00 € per compensi professionali, 100,00 € per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Valerio Pollastrini

 
1)      - art.360, comma 1, n. 2, cod. proc. civ.;
2)      – art.360, comma 1, n.5, cod. proc. civ., nella versione anteriore alle modifiche introdotte dall’art.54, comma 1, lett. b), del D.L. n.83/2012, convertito, con modificazioni, nella Legge n.134/2012;
3)      - Cass. S.U., Sentenza n.11308 del 22 maggio 2014; Cass., Sentenza n.5660 del 9 marzo 2010; e, in precedenza, fra le altre, Cass., Sentenza n.16315 del 24 luglio 2007; Cass., Sentenza n.2097 del 31 gennaio 2007;
4)      - cfr., fra le altre, Cass., Sentenza n.7921 del 6 aprile 2011;

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