Nel
caso di specie, l’azienda aveva attivato il procedimento di contestazione disciplinare
nei confronti del dipendente, adibito con le mansioni di operatore presso una stazione
metropolitana, che, risultato assente ingiustificato dalla propria postazione
lavorativa presso il banco agenti di stazione, era stato sorpreso da un utente
nel locale in uso alla ditta di pulizie in atto sessuale con una donna,
circostanza che aveva indotto la cliente a sporgere denuncia alle forze
dell'ordine chiamate in loco.
Per
tale ragione, espletate le fasi previste per l’iter disciplinare, il lavoratore
era stato licenziato per giusta causa.
Chiamati
a decidere sull’impugnativa del recesso, sia il Tribunale che, successivamente,
la Corte di Appello di Napoli avevano rigettato il ricorso del lavoratore.
In
particolare, la Corte territoriale aveva sottolineato come la realizzata
violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, unitamente
ad un comportamento manifestamente contrario agli interessi dell'impresa,
rendessero irrilevante il rispetto o meno della garanzia di affissione del
codice disciplinare prevista dall'art.7, comma 1, della Legge n.300/1970.
Il
giudice dell’appello, inoltre, aveva precisato che l'istruttoria svolta aveva
confermato la fondatezza dell'addebito, concretato nell’allontanamento dalla
postazione di lavoro per compiere un atto contrario ai doveri del servizio e
con pericolo per la sicurezza.
La
sanzione irrogata, inoltre, doveva considerarsi adeguata alla condotta oggetto
di contestazione, anche in considerazione del fatto che le mansioni alle quali era adibito il
ricorrente attribuivano allo stesso una particolare responsabilità per la
gestione della sicurezza dell'impianto della stazione.
Contro
questa sentenza il lavoratore aveva adito la Cassazione, addebitando alla Corte
di Appello di avere erroneamente reinterpretato la contestazione disciplinare,
con la quale gli sarebbe stata imputata la temporanea assenza dal posto di
lavoro senza averne ottenuto il necessario permesso.
Tale
addebito, infatti, coinciderebbe con la previsione dell'articolo 66 del Contratto
Collettivo Nazionale di riferimento, che vi correla la sanzione conservativa della
multa fino ad un massimo di quattro ore retribuzione.
A
tale proposito, il ricorrente aveva precisato come l’allontanamento contestato
fosse meramente temporaneo ed, inoltre, non vi sarebbe alcuna prova del fatto
che lo stesso fosse ritornato al lavoro perché chiamato tramite interfono e non
per sua spontanea volontà.
Il
ricorrente aveva poi aggiunto che, quello nel quale sarebbe stato consumato l’atto
sessuale, era un magazzino non accessibile all’utenza, circostanza che
denoterebbe la mancata violazione della regola della riservatezza.
Con
ulteriore motivo di ricorso, il lavoratore aveva lamentato anche la violazione
e falsa applicazione dell'art.7 della Legge n.300/1970, ribadendo che il comportamento sanzionato, in quanto contemplato dal contratto collettivo, rendeva
obbligatoria l'affissione del codice
disciplinare.
Investita
della questione, la Cassazione ha innanzitutto rilevato come il ricorrente, nel
ricondurre l’addebito alla fattispecie dell'interruzione temporanea del
servizio, avesse trascurato elementi che, invece, la Corte di merito aveva
ritenuto decisivi, quali la causale
(voluttuaria e contraria ai doveri d’ufficio) dell'abbandono del servizio e la
natura dei compiti (di vigilanza) assegnati.
Detta
sottovalutazione risulta in contrasto non solo con il contenuto letterale della
contestazione, che aveva riportato i diversi profili della condotta, ma anche con
i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in tema di
individuazione della giusta causa di recesso e del giudizio di proporzionalità
tra fatto addebitato e licenziamento, in ragione dei quali tale valutazione
deve essere effettuata considerando l'addebito nel complesso dei suoi elementi
oggettivi c soggettivi (1).
Sul
punto, gli ermellini hanno quindi ribadito l’impossibilità di valorizzare uno
solo degli aspetti della condotta posta in essere al fine di applicare la
sanzione prevista dalla norma del contratto collettivo che prevede quell’
(unico) aspetto.
Nel
caso in esame, infatti, le circostanze di fatto valorizzate dalla parte
ricorrente, vale a dire, la temporaneità dell’allontanamento, l’ubicazione del
magazzino, il livello di inquadramento, l’assenza di danni, l’assenza di
precedenti disciplinari, sono circostanze che la Corte del merito aveva
ritenuto non significative, considerata la posizione del lavoratore - unico
agente presso l’impianto della stazione, con il conseguente dovere di attenzione
sotto il profilo della tutela della sicurezza degli utenti - la potenzialità
lesiva dell’omissione, il fatto che l’attività cui si stava dedicando era stata
effettivamente rilevata da un utente sicché il magazzino era comunque
raggiungibile.
Per
la Suprema Corte, le suddette considerazioni determinano anche l’infondatezza della censura
relativa alla mancata affissione del codice disciplinare, atteso che la
valutazione complessiva del comportamento addebitato impone di considerare
realizzata una violazione dei precetti che derivano dall’obbligo generale di
diligenza, senza ricorso alle specifiche previsioni del contratto collettivo.
La
gravità della violazione complessivamente considerata e la sua proporzionalità
alla massima sanzione espulsiva, infatti, era stata desunta dal Tribunale in relazione alla
violazione degli obblighi di diligenza e fedeltà derivanti direttamente dalla
legge.
Per
tutte le richiamate considerazioni, la Cassazione ha concluso disponendo il
rigetto del ricorso, con conseguente condanna del lavoratore al pagamento delle
spese del processo di legittimità, liquidate in 3.000,00 € per compensi professionali, 100,00 € per esborsi, oltre spese generali
nella misura del 15% ed accessori di legge.
Valerio
Pollastrini
1)
-
Cass., Sentenza n.2013 del 13 febbraio 2012, Cass., Sentenza n.22798 del 12
dicembre 2012;
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