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sabato 8 novembre 2014

Inquinamento acustico - Valutazione rischio rumore durante il lavoro

Nella sentenza n.45919 del 6 novembre 2014, la Corte di Cassazione ha ribadito che, in presenza di impianti e macchinari rumorosi, l’azienda ha l’obbligo di effettuate la valutazione dell’entità del rischio connesso ad inquinamento acustico.

Il caso di specie è giunto all’attenzione degli ermellini dopo che il Tribunale di Lecce aveva condannato, per il reato di cui agli artt.40, commi 1, e 50 lett. a), del D.Lgs. n.277/1991, l’amministratore unico di una società esercente la produzione di manufatti in legno  per non avere provveduto alla valutazione del rumore durante il lavoro.

L’imputato aveva contestato al Tribunale di non aver tenuto conto di quanto affermato dal Consulente Tecnico della difesa che aveva precisato che quando non si superano gli 80 dB, non si riconosce alcun rischio rumore.

Nel merito, il ricorrente aveva sostenuto che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il mancato superamento di detto limite farebbe venir meno l'obbligo di effettuare la valutazione del rischio rumore ed aveva, altresì, aggiunto che l'obbligo di effettuare nuove misurazioni del rumore sarebbe giustificato solo nel caso di mutamenti della lavorazioni atti ad incidere in modo sostanziale sul rumore prodotto, circostanza da escludersi nel caso in esame, in quanto i macchinari aziendali erano rimasti immutati nel corso degli ultimi 16 anni, ed, in ogni caso, venivano impiegati per meno di un'ora nella giornata lavorativa, attesa la natura prevalentemente artigianale delle lavorazioni effettuate.

Pur ammettendo di essere obbligato alla misurazione, il ricorrente aveva poi sostenuto come, in ogni caso, nella specie difetterebbe  l'elemento psicologico del reato, attesa la sua assoluta buona fede, avendo egli agito nell'erroneo convincimento di non essere tenuto ad effettuare nuove misurazioni del rumore.

Egli, infatti, sarebbe stato indotto nella convinzione della liceità del proprio comportamento dalla circostanza dell'immutabilità dei macchinari utilizzati e dalla natura artigianale dell'attività lavorativa esercitata.

Investita della questione, la Cassazione, pur accogliendo il ricorso sulla doglianza inerente alla quantificazione della pena, ha ritenuto la predetta censura manifestamente infondata, ricordando che    la norma violata (1), obbliga il datore di lavoro ad eseguire la valutazione del rischio rumore nell'ambiente di lavoro.

Il previgente art.40 del D.Lgs. n.277/1991, infatti, affermava chiaramente al comma 1 che "il datore di lavoro procede alla valutazione del rumore durante il lavoro, al fine di identificare i lavoratori ed i luoghi di lavoro considerati dai successivi articoli e di attuare le misure preventive e protettive, ivi previste".

Inoltre, il successivo art.181 del D.Lgs. n.81/2008,  applicabile a tutti i rischi derivanti dall'esposizione ad "agenti fisici", tra cui, appunto, il rischio rumore negli ambienti di lavoro, prevede espressamente che "nell'ambito della valutazione di cui all'articolo 28, il datore di lavoro valuta tutti i rischi derivanti da esposizione ad agenti fisici in modo da identificare e adottare le opportune misure di prevenzione e protezione con particolare riferimento alle norme di buona tecnica ed alle buone prassi".

In sostanza, la valutazione di detto rischio risulta obbligatoriamente richiesta sia dalla previgente che dalla nuova disposizione.

La Suprema Corte ha quindi sottolineato come, a riprova di tale assunto il comma 2 dell'art.190, riguardante specificamente la valutazione del rischio "rumore", puntualizza che "se, a seguito della valutazione di cui al comma 1, può fondatamente ritenersi che i valori inferiori di azione possono essere superati, il datore di lavoro misura i livelli di rumore cui i lavoratori sono esposti, i cui risultati sono riportati nel documento di valutazione", principio che era già contenuto nella previgente disciplina (2).

L'obbligo della valutazione del rischio rumore, del resto, discendeva dal comma 6 dell'art.40, applicabile all'epoca del fatto, che obbligava il datore di lavoro a redigere e tenere a disposizione dell'organo di vigilanza un rapporto nel quale fossero indicati i criteri e le modalità di effettuazione delle valutazioni ..., obbligo che oggi è stato ulteriormente specificato dal comma 3 dell'art.181 del D.Lgs. n.81/2008 che, inequivocamente, chiarisce come "la valutazione dei rischi è riportata sul documento di valutazione di cui all'articolo 28, essa può includere una giustificazione del datore di lavoro secondo cui la natura e l'entità dei rischi non rendono necessaria una valutazione dei rischi più dettagliata", imponendo cioè al datore di lavoro l'obbligo di eseguire comunque la valutazione del rischio (nella specie, rumore), salva la possibilità per lo stesso di giustificare una più dettagliata valutazione, il che, in altri termini, significa che una valutazione, sia pure generica di detto rischio, debba essere eseguita.

In altri termini, una cosa è la valutazione del rischio rumore, che va eseguita obbligatoriamente, altro è la misurazione (e l'adozione della misura finalizzate ad eliminare o ridurre il rischio) che può anche non seguire la valutazione ove ricorrano le condizioni di cui all'art.190, comma 2, del D.Lgs. n.81/2008.

Alla luce di quanto sopra, la Cassazione ha osservato l’irrilevanza dell’affermazione con la quale il Consulente Tecnico aveva precisato  che se non si superano gli 80 dB non devono essere assunti provvedimenti, in quanto la circostanza che non si "dovessero assumere provvedimenti" non escludeva che venisse svolta, anzitutto, la valutazione del rischio rumore, e che, quindi, eventualmente, si procedesse alla misurazione.

Nel caso in esame, invece, il datore di lavoro, nella cui azienda venivano svolte attività di lavorazione e produzione di manufatti in legno, con presenza di impianti e macchinari rumorosi, comportanti l’obbligo di valutare l’entità del rischio, non aveva mai eseguito la valutazione di detto rischio e, pertanto,  la fattispecie penale risultava assolutamente integrata nei suoi elementi oggettivi.

Gli ermellini hanno poi escluso ogni rilevanza  all'asserita buona fede dell’imputato.

Sul punto, infatti, non va dimenticato che il reato contestato al ricorrente è punibile a titolo di colpa, essendo irrilevante l'animo di violare la legge, dovendosi ricordare che quanto invocato dal medesimo altro non è che l'ignoranza della legge che, dunque, non può trovare giustificazione.

In proposito, giova ricordare  il principio, già in precedenza affermato dalle Sezioni Unite, secondo cui, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n.364 del  23 marzo 1988, secondo la quale l’ignoranza della legge penale, se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, scusa l'autore dell'illecito, vanno stabiliti i limiti di tale inevitabilità.

Per il comune cittadino tale condizione è sussistente ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell'ordinaria diligenza, al cosiddetto "dovere di informazione", attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia.

Tale obbligo, invece,  per quanto di interesse con riferimento alla fattispecie in esame, è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell'illecito anche in virtù di una "culpa levis" nello svolgimento dell'indagine giuridica.

In sostanza, per l'affermazione della scusabilità dell'ignoranza, occorre che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l'agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell'interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto (3).

Orbene, nel caso di specie, il ricorrente si era difeso sostenendo di non aver eseguito la valutazione convinto della liceità del proprio comportamento, convincimento soggettivo non derivato né dal comportamento positivo degli organi amministrativi né da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, donde l'irrilevanza di tale convincimento ai fini di ritenere giustificata la condotta posta in essere dal medesimo.

Valerio Pollastrini

 
1)      - art.40 del D.Lgs. n.277/1991, oggi abrogata e sostituita, senza modificazioni sostanziali, dall'art.181 del D.Lgs. n.81/2008, che, peraltro, si pone in rapporto di continuità normativa con la previgente disposizione: Cass., Sentenza n.35946 del 02 luglio 2010;
2)      - art.40, commi 1 e 2, del D.Lgs. n.277/1991;
3)      – Cass. Sez. U., Sentenza n.8154 del 10 giugno 1994;

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