Il
caso di specie è giunto all’attenzione degli ermellini dopo che il Tribunale di
Lecce aveva condannato, per il reato di cui agli artt.40, commi 1, e 50 lett.
a), del D.Lgs. n.277/1991, l’amministratore unico di una società esercente la
produzione di manufatti in legno per non
avere provveduto alla valutazione del rumore durante il lavoro.
L’imputato
aveva contestato al Tribunale di non aver tenuto conto di quanto affermato dal
Consulente Tecnico della difesa che aveva precisato che quando non si superano
gli 80 dB, non si riconosce alcun rischio rumore.
Nel
merito, il ricorrente aveva sostenuto che, secondo la giurisprudenza di
legittimità, il mancato superamento di detto limite farebbe venir meno
l'obbligo di effettuare la valutazione del rischio rumore ed aveva, altresì,
aggiunto che l'obbligo di effettuare nuove misurazioni del rumore sarebbe
giustificato solo nel caso di mutamenti della lavorazioni atti ad incidere in
modo sostanziale sul rumore prodotto, circostanza da escludersi nel caso in
esame, in quanto i macchinari aziendali erano rimasti immutati nel corso degli
ultimi 16 anni, ed, in ogni caso, venivano impiegati per meno di un'ora nella
giornata lavorativa, attesa la natura prevalentemente artigianale delle
lavorazioni effettuate.
Pur
ammettendo di essere obbligato alla misurazione, il ricorrente aveva poi
sostenuto come, in ogni caso, nella specie difetterebbe l'elemento psicologico del reato, attesa la
sua assoluta buona fede, avendo egli agito nell'erroneo convincimento di non
essere tenuto ad effettuare nuove misurazioni del rumore.
Egli,
infatti, sarebbe stato indotto nella convinzione della liceità del proprio
comportamento dalla circostanza dell'immutabilità dei macchinari utilizzati e
dalla natura artigianale dell'attività lavorativa esercitata.
Investita
della questione, la Cassazione, pur accogliendo il ricorso sulla doglianza
inerente alla quantificazione della pena, ha ritenuto la predetta censura manifestamente
infondata, ricordando che la
norma violata (1), obbliga il
datore di lavoro ad eseguire la valutazione del rischio rumore nell'ambiente di
lavoro.
Il
previgente art.40 del D.Lgs. n.277/1991, infatti, affermava chiaramente al
comma 1 che "il datore di lavoro
procede alla valutazione del rumore durante il lavoro, al fine di identificare
i lavoratori ed i luoghi di lavoro considerati dai successivi articoli e di
attuare le misure preventive e protettive, ivi previste".
Inoltre,
il successivo art.181 del D.Lgs. n.81/2008, applicabile a tutti i rischi derivanti dall'esposizione
ad "agenti fisici", tra cui, appunto, il rischio rumore negli
ambienti di lavoro, prevede espressamente che "nell'ambito della valutazione di cui all'articolo 28, il datore di
lavoro valuta tutti i rischi derivanti da esposizione ad agenti fisici in modo
da identificare e adottare le opportune misure di prevenzione e protezione con
particolare riferimento alle norme di buona tecnica ed alle buone prassi".
In
sostanza, la valutazione di detto rischio risulta obbligatoriamente richiesta
sia dalla previgente che dalla nuova disposizione.
La
Suprema Corte ha quindi sottolineato come, a riprova di tale assunto il comma 2
dell'art.190, riguardante specificamente la valutazione del rischio
"rumore", puntualizza che "se,
a seguito della valutazione di cui al comma 1, può fondatamente ritenersi che i
valori inferiori di azione possono essere superati, il datore di lavoro misura
i livelli di rumore cui i lavoratori sono esposti, i cui risultati sono
riportati nel documento di valutazione", principio che era già
contenuto nella previgente disciplina (2).
L'obbligo
della valutazione del rischio rumore, del resto, discendeva dal comma 6
dell'art.40, applicabile all'epoca del fatto, che obbligava il datore di lavoro
a redigere e tenere a disposizione dell'organo di vigilanza un rapporto nel
quale fossero indicati i criteri e le modalità di effettuazione delle
valutazioni ..., obbligo che oggi è stato ulteriormente specificato dal comma 3
dell'art.181 del D.Lgs. n.81/2008 che, inequivocamente, chiarisce come "la valutazione dei rischi è riportata sul
documento di valutazione di cui all'articolo 28, essa può includere una
giustificazione del datore di lavoro secondo cui la natura e l'entità dei
rischi non rendono necessaria una valutazione dei rischi più dettagliata",
imponendo cioè al datore di lavoro l'obbligo di eseguire comunque la
valutazione del rischio (nella specie, rumore), salva la possibilità per lo
stesso di giustificare una più dettagliata valutazione, il che, in altri
termini, significa che una valutazione, sia pure generica di detto rischio,
debba essere eseguita.
In
altri termini, una cosa è la valutazione del rischio rumore, che va eseguita
obbligatoriamente, altro è la misurazione (e l'adozione della misura
finalizzate ad eliminare o ridurre il rischio) che può anche non seguire la valutazione
ove ricorrano le condizioni di cui all'art.190, comma 2, del D.Lgs. n.81/2008.
Alla
luce di quanto sopra, la Cassazione ha osservato l’irrilevanza dell’affermazione
con la quale il Consulente Tecnico aveva precisato che se non si superano gli 80 dB non devono
essere assunti provvedimenti, in quanto la circostanza che non si "dovessero assumere provvedimenti"
non escludeva che venisse svolta, anzitutto, la valutazione del rischio rumore,
e che, quindi, eventualmente, si procedesse alla misurazione.
Nel
caso in esame, invece, il datore di lavoro, nella cui azienda venivano svolte
attività di lavorazione e produzione di manufatti in legno, con presenza di
impianti e macchinari rumorosi, comportanti l’obbligo di valutare l’entità del
rischio, non aveva mai eseguito la valutazione di detto rischio e,
pertanto, la fattispecie penale risultava
assolutamente integrata nei suoi elementi oggettivi.
Gli
ermellini hanno poi escluso ogni rilevanza all'asserita buona fede dell’imputato.
Sul
punto, infatti, non va dimenticato che il reato contestato al ricorrente è
punibile a titolo di colpa, essendo irrilevante l'animo di violare la legge,
dovendosi ricordare che quanto invocato dal medesimo altro non è che
l'ignoranza della legge che, dunque, non può trovare giustificazione.
In
proposito, giova ricordare il principio,
già in precedenza affermato dalle Sezioni Unite, secondo cui, a seguito della
sentenza della Corte Costituzionale n.364 del
23 marzo 1988, secondo la quale l’ignoranza della legge penale, se incolpevole
a cagione della sua inevitabilità, scusa l'autore dell'illecito, vanno
stabiliti i limiti di tale inevitabilità.
Per
il comune cittadino tale condizione è sussistente ogni qualvolta egli abbia
assolto, con il criterio dell'ordinaria diligenza, al cosiddetto "dovere
di informazione", attraverso l’espletamento di qualsiasi utile
accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in
materia.
Tale
obbligo, invece, per quanto di interesse
con riferimento alla fattispecie in esame, è particolarmente rigoroso per tutti coloro
che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono
dell'illecito anche in virtù di una "culpa
levis" nello svolgimento dell'indagine giuridica.
In
sostanza, per l'affermazione della scusabilità dell'ignoranza, occorre che da
un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo
pacifico orientamento giurisprudenziale, l'agente abbia tratto il convincimento
della correttezza dell'interpretazione normativa e, conseguentemente, della
liceità del comportamento tenuto (3).
Orbene,
nel caso di specie, il ricorrente si era difeso sostenendo di non aver eseguito
la valutazione convinto della liceità del proprio comportamento, convincimento
soggettivo non derivato né dal comportamento positivo degli organi
amministrativi né da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale,
donde l'irrilevanza di tale convincimento ai fini di ritenere giustificata la
condotta posta in essere dal medesimo.
Valerio
Pollastrini
1)
-
art.40 del D.Lgs. n.277/1991, oggi abrogata e sostituita, senza modificazioni sostanziali,
dall'art.181 del D.Lgs. n.81/2008, che, peraltro, si pone in rapporto di
continuità normativa con la previgente disposizione: Cass., Sentenza n.35946 del
02 luglio 2010;
2)
-
art.40, commi 1 e 2, del D.Lgs. n.277/1991;
3)
–
Cass. Sez. U., Sentenza n.8154 del 10 giugno 1994;
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