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sabato 8 novembre 2014

Contestazione dell’addebito non idonea a giustificare la sanzione disciplinare del licenziamento – Conseguenze

Nella sentenza n.23669 del 6 novembre 2014, la Corte di Cassazione ha ricordato le conseguenze connesse alla contestazione disciplinare inidonea a giustificare la sanzione del licenziamento, alla luce delle recenti modifiche apportate all’art.18 dello Statuto dei Lavoratori.

La pronuncia in commento è scaturita dal licenziamento del direttore di filiale di una Banca, irrogato al termine dell’iter disciplinare avente ad oggetto alcune condotte scorrette.

I giudizi del merito si erano conclusi con la pronuncia con la quale la Corte di Appello di Venezia, riformando la sentenza del Tribunale,  aveva annullato il recesso e, ai sensi dell’art.18, comma 4, della Legge n.300/1970, come novellato dalla Legge n.92/2012, aveva condannato la Banca  a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro, disponendo la prosecuzione del giudizio sulla domanda di risarcimento dei danni.

In particolare, la Corte territoriale aveva precisato che dal contenuto della lettera di contestazione risultava che al Direttore della filiale  erano state contestate le seguenti condotte: 

-         aver incaricato abitualmente ad i dipendenti  di fare la spesa per suo conto  durante l'orario di lavoro e di timbrare a suo nome l’entrata in servizio;

-         aver incaricato ripetutamente ad alcuni dipendenti di acquistare il pesce in un Comune vicino durante l'orario di lavoro;

-          avere fornito ad un addetto della filiale password e chiavi di accesso alla banca.

Sempre dalla lettura della contestazione disciplinare, era emerso che, per quanto atteneva agli incarichi di fare la spesa e di timbrare il cartellino, i suddetti comportamenti erano stati posti in essere dal momento dell’assegnazione del direttore alla filiale fino a quello della contestazione, traducendosi, pertanto, in condotte ripetute, mentre, per quanto riguardava l’affidamento stabile ad altro dipendente di password e chiavi, dette condotte erano state perpetrate attraverso  un comportamento caratterizzato dalla permanenza.

Il giudice dell’appello aveva poi osservato che la predetta contestazione aveva avuto ad oggetto  un "modus operandi" del direttore che denotava un atteggiamento perdurante ed attuale di grave scorrettezza ed inadempienza nella gestione dell'ufficio e che solo intesa in questi termini poteva ritenersi che detta contestazione avesse riguardato comportamenti sufficientemente individuati e non generici, posto che, se la Banca avesse avuto riguardo a singoli episodi riferiti ad alcune occasioni, avrebbe dovuto precisare in quanti casi si erano verificati i fatti ed in quali e quante giornate il direttore avesse conferito gli incarichi contestatigli.

Alla luce di tale premesse, la Corte aveva osservato che i testimoni escussi avevano riferito fatti riguardanti il momento in cui la Banca era venuta a conoscenza degli stessi, ma nessuno di essi era stato in grado di riferire per conoscenza diretta delle condotte imputate al direttore.

Alla stregua di tali considerazioni, attesa la genericità della contestazione dell’addebito, il giudice dell’appello aveva disposto la  reintegrazione del direttore nel posto di lavoro.

Contro questa sentenza, la Banca aveva adito la Cassazione, lamentando che nella sentenza gravata  non sarebbe stato riportato il testo integrale della contestazione disciplinare e che l’azienda avrebbe contestato non un modus operandi, bensì diverse condotte differenziate le une dalle altre, aventi ciascuna autonomo rilievo disciplinare, e che la motivazione secondo cui solo se intesa nel primo senso la contestazione poteva ritenersi non generica era meramente apparente, in quanto, per consolidato orientamento giurisprudenziale, la regola della specificità della contestazione non imporrebbe l’indicazione del giorno e dell’ora in cui i fatti erano compiuti.

La ricorrente, inoltre, aveva sostenuto  che la Corte di Appello non avrebbe tenuto conto di tutti i fatti contestati come cristallizzati nella contestazione disciplinare, ma aveva attribuito rilievo al modus operandi di cui non vi era traccia nella contestazione disciplinare.

Infine, l’azienda aveva sostenuto che la Corte del merito, una volta accertata l'insussistenza totale ed assoluta del fatto contestato, avrebbe potuto rilevare, quanto meno, la sussistenza parziale del fatto che avrebbe giustificato la condanna all’indennità risarcitoria omnicomprensiva tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto il ricorso  infondato.

In primo luogo, gli ermellini hanno ricordato che la previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione di tutte le sanzioni disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l'immediata difesa e, pertanto, deve rivestire il carattere della specificità, il quale può dirsi integrato solamente nel caso fornisca le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt.2104 e 2105 cod. civ..

A tale proposito, la Suprema Corte ha sottolineato come l'accertamento relativo al requisito della specificità della contestazione costituisca oggetto di un'indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito (1),

Sul punto, la ricostruzione del materiale probatorio compiuta dal giudice dell’appello risultava congruamente motivata, avendo lo stesso rilevato che le deposizioni rese non potevano assumere valore decisivo ai fini della prova dell'abitualità della condotta, essendo in parte contraddittorie ed in parte riferite a periodi limitati che non consentivano di accertare la conoscenza diretta dei testimoni escussi delle circostanze di fatto, non confortate da prove documentali, quali tabulati delle telefonate con cui, in alcune occasioni, sarebbero stati conferiti incarichi ai dipendenti, in dispregio delle regole disciplinanti la condotta dei lavoratori nell’orario di lavoro e per finalità esulanti del tutto da quelle di adempimento dell’attività lavorativa.

La Cassazione ha poi aggiunto che l’interpretazione della contestazione nei sensi precisati dalla Corte del merito aveva evidenziato come l’atto,  se inteso nel senso indicato dalla ricorrente, non rispondesse ai requisiti detta specificità, sicché non era idonea a giustificare la sanzione disciplinare irrogata.

Vero è che in tema di licenziamento per giusta causa, quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, pur dovendosi escludere che il giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la necessaria considerazione della loro concatenazione ai fini della valutazione della gravità dei fatti, non occorre che l’esistenza della "causa" idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice - nell'ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di lavoro - individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità richiesto dall'art. 2119 cod. civ. (2).

Tuttavia, il giudice del gravame aveva ritenuto che, di per sé, ciascun addebito era insufficiente ad integrare una contestazione autonomamente valutabile in termini di specificità dell'addebito.

Inoltre, la sentenza impugnata aveva implicitamente escluso anche il giustificato motivo soggettivo, posto che la motivazione si fondava sulla affermazione della sostanziale insussistenza delle condotte ascritte al direttore, stante la ritenuta insufficienza delle prove acquisite a dimostrare la sussistenza della condotta abituale, una volta ritenuta l'inidoneità della contestazione disciplinare rispetto a fatti isolati non sufficientemente individuati, rilevanti disciplinarmente.

Enunciando quanto disposto dalla normativa di riferimento, gli ermellini hanno osservato che il nuovo articolo 18 ha invero tenuto distinta dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, sicché rende necessario operare una distinzione tra l'esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione.

La reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell'accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato.

Tuttavia, deve osservarsi che il quarto comma dell'art.18 della Legge n.300/1970 accomuna le ipotesi di giusta causa e giustificato motivo, escludendone gli estremi per insussistenza del fatto contestato, ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi, ovvero dei codici disciplinari applicabili, e che il quinto comma prevede, nelle altre ipotesi in cui venga accertato che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, la risoluzione del rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e la condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva, determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione al riguardo.

Nella sostanza, dunque, il legislatore della riforma ha introdotto due distinti regimi di tutela per ipotesi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo dichiarato illegittimo.

Il primo regime, come già detto, viene in considerazione nelle sole tassative ipotesi in cui il giudice accerti che il fatto (che ha dato causa al licenziamento) non sussiste, ovvero nel caso in cui ritenga che il fatto rientri nelle condotte punibili con una sanzione conservativa, sulla base delle disposizioni del contratto collettivo applicato, ovvero dei codici disciplinari applicabili alla fattispecie in esame.

Nelle suddette ipotesi continua ad applicarsi la tutela reintegratoria, unitamente a quella risarcitoria, con detraibilità dell’aliunde perceptum e dell’aliunde perctpiendum.

Il secondo regime, invece, disciplinato dal nuovo comma 5 dell’art.18, si applica nelle "altre ipotesi" in cui emerge in giudizio che non vi sono gli estremi integranti la giusta causa o per il giustificato motivo soggettivo, con esclusione delle ipotesi di licenziamento adottato in violazione delle regole procedurali previste dall’art.7 della Legge n.300/1970.

In tale secondo caso, la violazione del requisito della tempestività viene considerata elemento costitutivo del diritto di recesso, a differenza del requisito della immediatezza della contestazione, che, invece, rientra tra le regole procedurali.

Un terzo regime, per il quale vige anche la sola tutela risarcitone, viene poi in considerazione nell’ipotesi di violazione delle regole procedurali previste dall’art.7 della Legge n.300/1970.

Alla luce di questa analisi, la Suprema Corte ha ritenuto che l’ipotesi in questione fosse stata correttamente inquadrata nelle fattispecie contemplate nel primo regime.

In base a tutte le richiamate considerazioni, la Cassazione ha concluso disponendo il rigetto del ricorso, con conseguente condanna della Banca ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in 4.000,00 € per compensi processuali, 100,00  € per esborsi, oltre accessori come per legge e spese generali nella misura del 15%.

Valerio Pollastrini

1)      - cfr. Cass., Sentenza n.7546 del 30 marzo 2006;
2)      - cfr. Cass., Sentenza n.12195 del 30 maggio 2014; Cass., Sentenza n.14574 del  31 ottobre 2013; Cass., Sentenza n.2579 del  2 febbraio 2009;

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