La
pronuncia in commento è scaturita dal licenziamento del direttore di filiale di
una Banca, irrogato al termine dell’iter disciplinare avente ad oggetto alcune
condotte scorrette.
I
giudizi del merito si erano conclusi con la pronuncia con la quale la Corte di
Appello di Venezia, riformando la sentenza del Tribunale, aveva annullato il recesso e, ai sensi
dell’art.18, comma 4, della Legge n.300/1970, come novellato dalla Legge n.92/2012,
aveva condannato la Banca a reintegrare
il dipendente nel posto di lavoro, disponendo la prosecuzione del giudizio
sulla domanda di risarcimento dei danni.
In
particolare, la Corte territoriale aveva precisato che dal contenuto della
lettera di contestazione risultava che al Direttore della filiale erano state contestate le seguenti condotte:
-
aver
incaricato abitualmente ad i dipendenti di fare la spesa per suo conto durante l'orario di lavoro e di timbrare a suo
nome l’entrata in servizio;
-
aver
incaricato ripetutamente ad alcuni dipendenti di acquistare il pesce in un
Comune vicino durante l'orario di lavoro;
-
avere fornito ad un addetto della filiale
password e chiavi di accesso alla banca.
Sempre
dalla lettura della contestazione disciplinare, era emerso che, per quanto
atteneva agli incarichi di fare la spesa e di timbrare il cartellino, i
suddetti comportamenti erano stati posti in essere dal momento
dell’assegnazione del direttore alla filiale fino a quello della contestazione,
traducendosi, pertanto, in condotte ripetute, mentre, per quanto riguardava
l’affidamento stabile ad altro dipendente di password e chiavi, dette condotte
erano state perpetrate attraverso un
comportamento caratterizzato dalla permanenza.
Il
giudice dell’appello aveva poi osservato che la predetta contestazione aveva avuto
ad oggetto un "modus operandi" del direttore che denotava un atteggiamento
perdurante ed attuale di grave scorrettezza ed inadempienza nella gestione
dell'ufficio e che solo intesa in questi termini poteva ritenersi che detta
contestazione avesse riguardato comportamenti sufficientemente individuati e
non generici, posto che, se la Banca avesse avuto riguardo a singoli episodi riferiti
ad alcune occasioni, avrebbe dovuto precisare in quanti casi si erano
verificati i fatti ed in quali e quante giornate il direttore avesse conferito
gli incarichi contestatigli.
Alla
luce di tale premesse, la Corte aveva osservato che i testimoni escussi avevano
riferito fatti riguardanti il momento in cui la Banca era venuta a conoscenza
degli stessi, ma nessuno di essi era stato in grado di riferire per conoscenza
diretta delle condotte imputate al direttore.
Alla
stregua di tali considerazioni, attesa la genericità della contestazione dell’addebito,
il giudice dell’appello aveva disposto la
reintegrazione del direttore nel posto di lavoro.
Contro
questa sentenza, la Banca aveva adito la Cassazione, lamentando che nella
sentenza gravata non sarebbe stato
riportato il testo integrale della contestazione disciplinare e che l’azienda
avrebbe contestato non un modus operandi, bensì diverse condotte differenziate
le une dalle altre, aventi ciascuna autonomo rilievo disciplinare, e che la
motivazione secondo cui solo se intesa nel primo senso la contestazione poteva
ritenersi non generica era meramente apparente, in quanto, per consolidato
orientamento giurisprudenziale, la regola della specificità della contestazione
non imporrebbe l’indicazione del giorno e dell’ora in cui i fatti erano
compiuti.
La
ricorrente, inoltre, aveva sostenuto che
la Corte di Appello non avrebbe tenuto conto di tutti i fatti contestati come
cristallizzati nella contestazione disciplinare, ma aveva attribuito rilievo al
modus operandi di cui non vi era traccia nella contestazione disciplinare.
Infine,
l’azienda aveva sostenuto che la Corte del merito, una volta accertata
l'insussistenza totale ed assoluta del fatto contestato, avrebbe potuto
rilevare, quanto meno, la sussistenza parziale del fatto che avrebbe
giustificato la condanna all’indennità risarcitoria omnicomprensiva tra un
minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità.
Investita
della questione, la Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato.
In
primo luogo, gli ermellini hanno ricordato che la previa contestazione
dell’addebito, necessaria in funzione di tutte le sanzioni disciplinari, ha lo
scopo di consentire al lavoratore l'immediata difesa e, pertanto, deve
rivestire il carattere della specificità, il quale può dirsi integrato
solamente nel caso fornisca le indicazioni necessarie ed essenziali per
individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di
lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in
violazione dei doveri di cui agli artt.2104 e 2105 cod. civ..
A
tale proposito, la Suprema Corte ha sottolineato come l'accertamento relativo
al requisito della specificità della contestazione costituisca oggetto di
un'indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica
di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito (1),
Sul
punto, la ricostruzione del materiale probatorio compiuta dal giudice dell’appello
risultava congruamente motivata, avendo lo stesso rilevato che le deposizioni
rese non potevano assumere valore decisivo ai fini della prova dell'abitualità
della condotta, essendo in parte contraddittorie ed in parte riferite a periodi
limitati che non consentivano di accertare la conoscenza diretta dei testimoni
escussi delle circostanze di fatto, non confortate da prove documentali, quali
tabulati delle telefonate con cui, in alcune occasioni, sarebbero stati
conferiti incarichi ai dipendenti, in dispregio delle regole disciplinanti la
condotta dei lavoratori nell’orario di lavoro e per finalità esulanti del tutto
da quelle di adempimento dell’attività lavorativa.
La
Cassazione ha poi aggiunto che l’interpretazione della contestazione nei sensi
precisati dalla Corte del merito aveva evidenziato come l’atto, se inteso nel senso indicato dalla ricorrente,
non rispondesse ai requisiti detta specificità, sicché non era idonea a
giustificare la sanzione disciplinare irrogata.
Vero
è che in tema di licenziamento per giusta causa, quando vengano contestati al
dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, pur dovendosi
escludere che il giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la
necessaria considerazione della loro concatenazione ai fini della valutazione
della gravità dei fatti, non occorre che l’esistenza della "causa"
idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile
esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice -
nell'ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di
lavoro - individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che
giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità
richiesto dall'art. 2119 cod. civ. (2).
Tuttavia,
il giudice del gravame aveva ritenuto che, di per sé, ciascun addebito era
insufficiente ad integrare una contestazione autonomamente valutabile in
termini di specificità dell'addebito.
Inoltre,
la sentenza impugnata aveva implicitamente escluso anche il giustificato motivo
soggettivo, posto che la motivazione si fondava sulla affermazione della
sostanziale insussistenza delle condotte ascritte al direttore, stante la
ritenuta insufficienza delle prove acquisite a dimostrare la sussistenza della
condotta abituale, una volta ritenuta l'inidoneità della contestazione
disciplinare rispetto a fatti isolati non sufficientemente individuati,
rilevanti disciplinarmente.
Enunciando
quanto disposto dalla normativa di riferimento, gli ermellini hanno osservato che
il nuovo articolo 18 ha invero tenuto distinta dal fatto materiale la sua
qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, sicché rende necessario
operare una distinzione tra l'esistenza del fatto materiale e la sua
qualificazione.
La
reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della
sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del
licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce
nell'accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere
condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla
individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si
tratta, da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla
fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al
profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del
comportamento addebitato.
Tuttavia,
deve osservarsi che il quarto comma dell'art.18 della Legge n.300/1970 accomuna
le ipotesi di giusta causa e giustificato motivo, escludendone gli estremi per
insussistenza del fatto contestato, ovvero perché il fatto rientra tra le
condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei
contratti collettivi, ovvero dei codici disciplinari applicabili, e che il
quinto comma prevede, nelle altre ipotesi in cui venga accertato che non
ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa
addotti dal datore di lavoro, la risoluzione del rapporto di lavoro con effetto
dalla data del licenziamento e la condanna del datore di lavoro al pagamento di
un'indennità risarcitoria onnicomprensiva, determinata tra un minimo di dodici
e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di
fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei
dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del
comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica
motivazione al riguardo.
Nella
sostanza, dunque, il legislatore della riforma ha introdotto due distinti
regimi di tutela per ipotesi di licenziamento per giusta causa o giustificato
motivo soggettivo dichiarato illegittimo.
Il
primo regime, come già detto, viene in considerazione nelle sole tassative
ipotesi in cui il giudice accerti che il fatto (che ha dato causa al
licenziamento) non sussiste, ovvero nel caso in cui ritenga che il fatto
rientri nelle condotte punibili con una sanzione conservativa, sulla base delle
disposizioni del contratto collettivo applicato, ovvero dei codici disciplinari
applicabili alla fattispecie in esame.
Nelle
suddette ipotesi continua ad applicarsi la tutela reintegratoria, unitamente a
quella risarcitoria, con detraibilità dell’aliunde
perceptum e dell’aliunde perctpiendum.
Il
secondo regime, invece, disciplinato dal nuovo comma 5 dell’art.18, si applica
nelle "altre ipotesi" in cui emerge in giudizio che non vi sono gli
estremi integranti la giusta causa o per il giustificato motivo soggettivo, con
esclusione delle ipotesi di licenziamento adottato in violazione delle regole
procedurali previste dall’art.7 della Legge n.300/1970.
In
tale secondo caso, la violazione del requisito della tempestività viene
considerata elemento costitutivo del diritto di recesso, a differenza del
requisito della immediatezza della contestazione, che, invece, rientra tra le
regole procedurali.
Un
terzo regime, per il quale vige anche la sola tutela risarcitone, viene poi in
considerazione nell’ipotesi di violazione delle regole procedurali previste
dall’art.7 della Legge n.300/1970.
Alla
luce di questa analisi, la Suprema Corte ha ritenuto che l’ipotesi in questione
fosse stata correttamente inquadrata nelle fattispecie contemplate nel primo regime.
In
base a tutte le richiamate considerazioni, la Cassazione ha concluso disponendo
il rigetto del ricorso, con conseguente condanna della Banca ricorrente al pagamento
delle spese processuali, liquidate in 4.000,00 € per compensi processuali, 100,00 € per esborsi, oltre accessori come per legge
e spese generali nella misura del 15%.
Valerio
Pollastrini
1)
-
cfr. Cass., Sentenza n.7546 del 30 marzo 2006;
2)
-
cfr. Cass., Sentenza n.12195 del 30 maggio 2014; Cass., Sentenza n.14574
del 31 ottobre 2013; Cass., Sentenza
n.2579 del 2 febbraio 2009;
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