Ai
giudizi discordanti, diffusi in questi giorni sia dalla dottrina che dagli
addetti ai lavori, si è aggiunto quello espresso dalla Banca d’Italia che, da
ultimo, ha affermato che la scelta del lavoratore di percepire una parte del
TFR in busta paga graverebbe sulle future pensioni, penalizzando, soprattutto, i contribuenti più giovani.
Per
sgombrare il campo da possibili apriorismi, va premesso che il Tfr in busta
paga può dirsi efficace solo se idoneo a stimolare l’economia attraverso un
incremento dei consumi.
Si
tratta di una condizione che, ad oggi, non può certo ritenersi di sicura
realizzazione, mentre ciò che appaiono certi sono gli svantaggi per i lavoratori.
Quanto
appena detto, sembra emergere dalle prime analisi, che hanno evidenziato come solo
la porzione dei dipendenti del settore
privato compresa tra il 5% ed il 16% potrebbe decidere di spendere in consumi
il flusso annuale del Tfr, facendo registrare un aumento del Pil tra lo 0,1% e
lo 0,2%.
La
vera questione, in sostanza, è se il Tfr in busta paga sia in grado di rilanciare
l’economia italiana, attesa la difficoltà di infondere ottimismo alle famiglie,
rese sempre più incerte sulle aspettative del proprio futuro dalla crisi
economica in corso.
Se,
sul fronte delle imprese, il problema degli
oneri aggiuntivi derivanti dalla liquidazione anticipata delle quote di Tfr potrebbe
essere facilmente risolto attraverso il coinvolgimento delle istituzioni
bancarie, per quanto riguarda le famiglie, la misura in commento, oltre ad
aggravarne gli oneri fiscali, farebbe venir meno uno dei pochi strumenti atti a
sostenere il loro risparmio.
Quelle
sin qui riprodotte, sono delle considerazione sulle quali si spera che il
legislatore vorrà riflettere prima di introdurre una norma che stravolgerebbe
l’impianto giuslavoristico del nostro Paese.
Valerio
Pollastrini
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