Nel
caso di specie il dipendente era stato licenziato dopo essere stato sorpreso a
svolgere, durante la malattia, un’attività lavorativa nell’azienda di un suo
familiare.
Il
lavoratore aveva impugnato il recesso dinnanzi al Tribunale di Napoli che,
però, ne aveva rigettato la domanda.
Contro
questa sentenza, il dipendente aveva proposto appello, deducendo che il giudice
del primo grado avesse ritenuto configurata la giusta causa di risoluzione del
rapporto nonostante, a suo dire, l’azienda non avesse provato l'esistenza di un’altra
attività svolta dolosamente in
costanza della malattia.
Confermando
quanto disposto dal Tribunale partenopeo, anche la Corte di Appello di Napoli
aveva rigettato il gravame.
A
questo punto, il lavoratore aveva ricorso in Cassazione, sostenendo che, pur in costanza di malattia, la concomitante prestazione gratuita in favore
di familiari non possa considerarsi
contraria ai doveri inerenti al rapporto di lavoro.
A
detta del ricorrente, infatti, la sua depressione psichica sarebbe stata compatibile con la suddetta attività estranea
al rapporto di lavoro ed anzi funzionale alla guarigione, dal momento che,
nella specie, egli era stato sorpreso a svolgere piccoli lavori, quali la
riparazione di un ventilatore.
Il
dipendente, inoltre, aveva evidenziato che lo svolgimento di altra attività
lavorativa durante l’assenza per malattia, documentata con certificato medico, possa
costituire un legittimo motivo di licenziamento disciplinare solo nei casi seguenti:
-
simulazione
della lamentata inabilità temporanea assoluta;
-
condotta
che possa compromettere o ritardare la guarigione;
-
svolgimento
di un'attività oggettivamente incompatibile con lo stato di malattia;
-
espletamento
di prestazioni in contrasto con il divieto di concorrenza.
Investita
della questione, la Suprema Corte ha ritenuto infondate le censure avanzate sull’impugnata
sentenza.
Gli
ermellini hanno sottolineato come la
Corte del merito avesse correttamente osservato che la riparazione di
elettrodomestici, oltre che in contrasto
con la denunciata patologia osteoarticolare, fosse parimenti incompatibile
anche con la dedotta depressione, per via della costante focalizzazione
dell'attenzione e di contatti anche antagonistici con persone non conosciute, imposti
al lavoratore dall’ulteriore attività di sorveglianza
"antitaccheggio" resa in favore del familiare.
La
Cassazione ha poi ricordato che, nonostante sia il datore di lavoro a dover fornire la prova,
nella specie ampiamente assolta, dello svolgimento di altra attività lavorativa
da parte del dipendente ammalato, tuttavia, della prova che tale diversa
attività lavorativa sia compatibile con lo stato di malattia risulta gravato,
invece, il lavoratore. Prova che, nella specie, non era stata per nulla
fornita.
Queste,
in sostanza, le ragioni che hanno indotto la Suprema Corte a disporre il rigetto
del ricorso e la conseguente condanna del lavoratore al pagamento delle spese
di lite, liquidate in 4.000,00 € per compensi, 100,00 € per esborsi, oltre
spese generalità accessori di legge.
Valerio
Pollastrini
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