Nonostante
il dipendente pubblico sia passibile di licenziamento qualora svolga una
seconda attività lavorativa senza averne preventivamente informata l’Amministrazione,
nel caso di specie la Suprema Corte ha ritenuto illegittimo il recesso in
quanto lesivo della privacy.
La
vicenda in commento è scaturita da una segnalazione anonima con la quale l’Amministrazione
Provinciale del Piemonte era stata informata che un proprio dipendente fosse
solito “vendere” le sue prestazioni sessuali.
I
dirigenti dell’Ente avevano quindi effettuato alcune indagini sulla vita
privata dell’impiegato, indirizzata in particolar modo sulle sue interrelazioni
nella rete internet.
L’indagine
tra siti e social network preposti a tale genere di prestazioni avevano confermato
che il lavoratore pubblicasse costantemente annunci di prestazioni sessuali a
pagamento, dedicando il proprio tempo libero a questa seconda attività.
L’Ente,
ritenuta una simile condotta lesiva dell’immagine della Pubblica Amministrazione,
aveva licenziato l’impiegato al termine del provvedimento disciplinare.
Il
lavoratore aveva però impugnato il recesso, deducendo che lo stesso fosse
scaturito al termine di un’indebita intromissione nella sua vita privata.
La
normativa sulla privacy, infatti, colloca le informazioni volte a rivelare gli
orientamenti e le abitudini sessuali dei lavoratori nella categoria dei c.d. “dati
sensibili”, la cui tutela risulta rafforzata dell’art.4 del D.lgs. n.196/2003, ai sensi del
quale gli stessi possono essere trattati solo previo specifico consenso
dell’interessato e solamente per determinate finalità.
Queste,
in sostanza, le ragioni che hanno indotto la Cassazione a ritenere illegittimo
il licenziamento.
Valerio
Pollastrini
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