Nel
caso di specie, il Tribunale di Palermo, ritenuto inefficace il licenziamento intimato
verbalmente da un’agenzia ippica ad una terminalista addetta alla ricezione delle
scommesse, aveva condannato la società a
versare alla lavoratrice una somma, a titolo di risarcimento del danno, pari
alla retribuzione maturata tra la data del recesso e quella del ripristino del rapporto.
Successivamente,
la Corte di Appello di Palermo, pronunziando sull’impugnazione proposta dall'agenzia
ippica, aveva parzialmente riformato la sentenza gravata, stabilendo che il
risarcimento del danno dovesse decorrere dalla data di notifica del ricorso di
primo grado, precisando, in proposito, come solo da tale momento si fosse determinata una situazione di mora accipiendi della datrice di lavoro
in conseguenza dell'offerta della prestazione lavorativa.
Investita
della questione, la Cassazione ha riepilogato nella premessa le censure
sollevate dall’azienda.
In
particolare, l’agenzia ippica aveva contestato la valutazione con la quale il
giudice dell’Appello aveva ritenuto che il rapporto intercorso tra le parti fosse
di natura subordinata.
A
detta della ricorrente, nel giudizio impugnato non sarebbe emersa alcuna prova
volta ad attestare tale subordinazione, in quanto i testi escussi avevano
riferito che la lavoratrice aveva reso la sua prestazione secondo concordati
con collaboratori autonomi operanti nell’azienda, potendo assentarsi comunicando
al preposto la sua indisponibilità.
L’azienda,
inoltre, aveva sostenuto che, prima della data di deposito del ricorso, sarebbe
avvenuta solo un'interruzione di due
anni e mezzo del rapporto, dalla quale la Corte territoriale aveva ritenuto
provato il recesso datoriale.
Nel
ritenere infondate tali censure, la Suprema Corte ha osservato innanzitutto come la ricorrente
avesse incentrato le predette doglianze
sulla questione attinente alla natura giuridica del rapporto lavorativo
in esame, indicato, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice
dell’Appello, come di tipo autonomo, al punto che la difesa dell'azienda aveva
sostenuto l’inapplicabilità, nella fattispecie, dei principi in materia di
proporzionalità della retribuzione alla prestazione resa e di necessità della
forma scritta per l’atto di recesso che contraddistinguono i rapporti di lavoro
subordinato.
A
tale proposito, va rilevato come la Cassazione, sulla premessa che ogni
attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di
lavoro subordinato che di lavoro autonomo, abbia costantemente affermato che
l'elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto è
costituito dalla subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei
confronti del datore, con assoggettamento del prestatore al potere
organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, ed al conseguente
inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale con prestazione delle
sole energie lavorative corrispondenti all'attività di impresa (1).
Tuttavia,
sempre la giurisprudenza di legittimità ha più volte precisato che l’esistenza del vincolo va concretamente
apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito; d’altronde,
proprio in relazione alle difficoltà che non di rado si incontrano nella
distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato alla luce dei
principi fondamentali ora indicati, si è asserito che in tale ipotesi è
legittimo ricorrere a criteri distintivi sussidiari, quali la presenza di una
pur minima organizzazione imprenditoriale ovvero l'incidenza del rischio
economico, l'osservanza di un orario, la forma di retribuzione, la continuità
delle prestazioni e via di seguito.
Di
conseguenza, è stata enucleata la regula
iuris secondo la quale, nel caso in
cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva
e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione, oppure, all'opposto, nel
caso di prestazioni lavorative dotate di notevole elevatezza e di contenuto
intellettuale e creativo, al fine della distinzione tra rapporto di lavoro
autonomo e subordinato, il criterio rappresentato dall'assoggettamento del
prestatore all'esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può
non risultare, in quel particolare contesto, significativo per la
qualificazione del rapporto di lavoro, ed occorre allora far ricorso a criteri
distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le
modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell'orario di lavoro,
la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale e la sussistenza
di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore.
Si
tratta di principi ai quali correttamente si era attenuta la Corte del merito in
quanto, sulla premessa che la lavoratrice in causa era addetta a mansioni
ripetitive e che tali mansioni, una volta ricevute le istruzioni iniziali, non
richiedevano ulteriori direttive e controlli, aveva dato rilievo, ai fini di
cui trattasi, alle risultanze istruttorie dalle quali emergeva che:
-
i
turni settimanali erano predisposti dalla società, ancorché sulla scorta delle
disponibilità inizialmente manifestate dal prestatore di lavoro;
-
una
volta predisposti i turni la lavoratrice era tenuta a rispettarli e non poteva
allontanarsi senza essere autorizzata;
-
in
caso d'indisponibilità la lavoratrice doveva avvertire preventivamente il
preposto;
-
il
lavoro veniva svolto nei locali dell'agenzia con l’uso di beni aziendali
secondo orari predeterminati;
-
il
compenso corrisposto era fisso, senza che vi fosse alcun riferimento al
risultato della prestazione;
-
non
vi era alcun rischio economico da parte della lavoratrice.
In
conclusione, la Cassazione ha ritenuto corretta l'affermazione della Corte del merito secondo
la quale il rapporto fosse connotato dal requisito della subordinazione, intesa
come sottoposizione della lavoratrice al potere organizzativo, di controllo e,
all'occorrenza, disciplinare da parte del datore di lavoro non ravvisandosi,
peraltro, nelle modalità delle prestazioni lavorative, come sopra effettuate,
margini di autonomia.
Per
tali ragioni la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Valerio
Pollastrini
1)
-
Cass., Sentenza n.4036 del 3 aprile 2000; Cass., Sentenza n.224 del 9 gennaio
2001; Cass., Sentenza n.16697 del 29 novembre 2002; Cass., Sentenza n.2970 del
1° marzo 2001; Cass., Sentenza n.13858 del 15 giugno 2009; Cass., Sentenza n.9251
del 19 aprile 2010;
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