Chi siamo


MEDIA-LABOR Srl - News dal mondo del lavoro e dell'economia


domenica 5 ottobre 2014

Risarcimento del danno in seguito al licenziamento verbale

Nella sentenza n.20367 del 26 settembre 2014, la Corte di Cassazione ha affrontato la questione relativa alle conseguenze sanzionatorie di un licenziamento orale irrogato ad un lavoratore subordinato, formalmente inquadrato con un contratto di collaborazione.

Nel caso di specie, il Tribunale di Palermo,  ritenuto inefficace il licenziamento intimato verbalmente da un’agenzia ippica ad una  terminalista addetta alla ricezione delle scommesse, aveva condannato la  società a versare alla lavoratrice una somma, a titolo di risarcimento del danno, pari alla retribuzione maturata tra la data del recesso e quella del ripristino del rapporto.

Successivamente, la Corte di Appello di Palermo, pronunziando sull’impugnazione proposta dall'agenzia ippica, aveva parzialmente riformato la sentenza gravata, stabilendo che il risarcimento del danno dovesse decorrere dalla data di notifica del ricorso di primo grado, precisando, in proposito, come solo da tale momento si fosse  determinata una situazione di mora accipiendi della datrice di lavoro in conseguenza dell'offerta della prestazione lavorativa.

Investita della questione, la Cassazione ha riepilogato nella premessa le censure sollevate dall’azienda.

In particolare, l’agenzia ippica aveva contestato la valutazione con la quale il giudice dell’Appello aveva ritenuto che il rapporto intercorso tra le parti fosse di natura subordinata.

A detta della ricorrente, nel giudizio impugnato non sarebbe emersa alcuna prova volta ad attestare tale subordinazione, in quanto i testi escussi avevano riferito che la lavoratrice aveva reso la sua prestazione secondo concordati con collaboratori autonomi operanti nell’azienda, potendo assentarsi comunicando al preposto la sua indisponibilità.

L’azienda, inoltre, aveva sostenuto che, prima della data di deposito del ricorso, sarebbe avvenuta  solo un'interruzione di due anni e mezzo del rapporto, dalla quale la Corte territoriale aveva ritenuto provato il recesso datoriale.

Nel ritenere infondate tali censure, la Suprema Corte  ha osservato innanzitutto come la ricorrente avesse incentrato le predette doglianze  sulla questione attinente alla natura giuridica del rapporto lavorativo in esame,  indicato,  contrariamente a quanto ritenuto dal giudice dell’Appello, come di tipo autonomo, al punto che la difesa dell'azienda aveva sostenuto l’inapplicabilità, nella fattispecie, dei principi in materia di proporzionalità della retribuzione alla prestazione resa e di necessità della forma scritta per l’atto di recesso che contraddistinguono i rapporti di lavoro subordinato.

A tale proposito, va rilevato come la Cassazione, sulla premessa che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di lavoro autonomo, abbia costantemente affermato che l'elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto è costituito dalla subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore, con assoggettamento del prestatore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, ed al conseguente inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale con prestazione delle sole energie lavorative corrispondenti all'attività di impresa (1).

Tuttavia, sempre la giurisprudenza di legittimità ha più volte precisato  che l’esistenza del vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito; d’altronde, proprio in relazione alle difficoltà che non di rado si incontrano nella distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato alla luce dei principi fondamentali ora indicati, si è asserito che in tale ipotesi è legittimo ricorrere a criteri distintivi sussidiari, quali la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale ovvero l'incidenza del rischio economico, l'osservanza di un orario, la forma di retribuzione, la continuità delle prestazioni e via di seguito.

Di conseguenza, è stata enucleata la regula iuris  secondo la quale, nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione, oppure, all'opposto, nel caso di prestazioni lavorative dotate di notevole elevatezza e di contenuto intellettuale e creativo, al fine della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato, il criterio rappresentato dall'assoggettamento del prestatore all'esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare, in quel particolare contesto, significativo per la qualificazione del rapporto di lavoro, ed occorre allora far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell'orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore.

Si tratta di principi ai quali correttamente si era attenuta la Corte del merito in quanto, sulla premessa che la lavoratrice in causa era addetta a mansioni ripetitive e che tali mansioni, una volta ricevute le istruzioni iniziali, non richiedevano ulteriori direttive e controlli, aveva dato rilievo, ai fini di cui trattasi, alle risultanze istruttorie dalle quali emergeva che:

-         i turni settimanali erano predisposti dalla società, ancorché sulla scorta delle disponibilità inizialmente manifestate dal prestatore di lavoro;
-         una volta predisposti i turni la lavoratrice era tenuta a rispettarli e non poteva allontanarsi senza essere autorizzata;
-         in caso d'indisponibilità la lavoratrice doveva avvertire preventivamente il preposto;
-         il lavoro veniva svolto nei locali dell'agenzia con l’uso di beni aziendali secondo orari predeterminati;
-         il compenso corrisposto era fisso, senza che vi fosse alcun riferimento al risultato della prestazione;
-         non vi era alcun rischio economico da parte della lavoratrice.

In conclusione, la Cassazione ha ritenuto corretta  l'affermazione della Corte del merito secondo la quale il rapporto fosse connotato dal requisito della subordinazione, intesa come sottoposizione della lavoratrice al potere organizzativo, di controllo e, all'occorrenza, disciplinare da parte del datore di lavoro non ravvisandosi, peraltro, nelle modalità delle prestazioni lavorative, come sopra effettuate, margini di autonomia.

Per tali ragioni la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Valerio Pollastrini

 
1)      - Cass., Sentenza n.4036 del 3 aprile 2000; Cass., Sentenza n.224 del 9 gennaio 2001; Cass., Sentenza n.16697 del 29 novembre 2002; Cass., Sentenza n.2970 del 1° marzo 2001; Cass., Sentenza n.13858 del 15 giugno 2009; Cass., Sentenza n.9251 del 19 aprile 2010;

Nessun commento:

Posta un commento