Il
caso di specie è scaturito dal verbale di
accertamento con il quale l’Inps aveva richiesto ad un’azienda, esercente
attività di installazione e manutenzione di linee telefoniche ed elettriche, il
pagamento della contribuzione sulla metà delle somme corrisposte ai lavoratori
come "indennità di trasferta giornaliera", erogata nella misura di 12,00 € a titolo di rimborso spese per il
pasto meridiano o serale, nonché, nella misura dell’85% della paga oraria, sulle
"indennità per tempi di viaggio", come previsto dal CCNL di
categoria, in luogo del trattamento riconosciuto da un Accordo Integrativo Aziendale.
La
Corte di Appello di Torino aveva confermato la decisione del giudice di primo
grado, con la quale era stata respinta la domanda proposta dalla società tesa
ad accertare l’insussistenza di cui alla pretesa creditoria dell’Inps.
In
merito alla "indennità di trasferta giornaliera", la Corte del merito
aveva ha rilevato che l’Istituto Previdenziale avesse correttamente ritenuto applicabile il disposto di cui
all’art.48, comma 6, del TUIR (1), in luogo del comma 5 dello stesso articolo, come
preteso dalla società, considerando che, alla luce dell’attività svolta, i dipendenti
erano "tenuti a prestare quotidianamente la propria prestazione lavorativa
in luoghi sempre variabili e diversi".
Per
quanto riguarda, invece, il calcolo della contribuzione previdenziale relativa
alla "indennità tempi di viaggio", i giudici dell’appello avevano
osservato che "la determinazione del minimo retributivo utile ai fini
contributivi" doveva essere effettuato nella specie "in relazione a
quanto stabilito dall’art.26 del CCNL di categoria e non già in relazione alla
previsione più sfavorevole di cui al Contratto Aziendale".
Contro
questa sentenza, la società aveva adito Cassazione, lamentando che la Corte
territoriale avrebbe erroneamente considerato i lavoratori dipendenti della
stessa come "trasfertisti", applicando loro l’art.51, comma 6, del
TUIR, in luogo del comma 5 dello stesso articolo.
Attraverso
la formulazione di un "quesito di diritto", la ricorrente aveva
chiesto alla Suprema Corte se
"l’attività prestata dai lavoratori quotidianamente presenti presso la
sede aziendale e frequentemente inviati presso cantieri posti fuori dal comune
ove l’azienda ha sede, senza obbligo di pernottamento all’esterno della propria
abitazione e con versamento delle indennità previste solo in caso di effettiva
trasferta sia qualificabile come trasferta e, in tal caso, se a tale attività
sia applicabile la disposizione di cui all’art.48, comma 5 (2).
Investita
della questione, la Cassazione ha ritenuto infondato detto motivo del ricorso, alla stregua dei principi
affermati in plurime decisioni dalla giurisprudenza di legittimità (3).
Il
regime fiscale e contributivo previsto per le indennità di trasferta -
situazione caratterizzata dalla corresponsione di emolumenti da parte del
datore di lavoro per il mutamento temporaneo del luogo esecuzione della
prestazione del dipendente - è stato dettato, a decorrere dal 1° gennaio 1998,
dall’art.48, commi 5 e 6, del D.P.R.
n.917/1986 (4), e, poi, con
formulazione sostanzialmente immutata a parte l'espressione del valore delle
somme in euro, dall’art. 51, commi 5 e 6, del nuovo T.U.I.R. (5), in vigore dal
1° gennaio 2004.
La
Corte torinese, avuto riguardo alla "indennità di trasferta
giornaliera" corrisposta ai dipendenti della società nella misura di 12,00
€ per ogni giorno effettivamente lavorato in cantieri esterni per almeno 5 ore,
aveva rilevato come ad essa l’INPS avesse correttamente ritenuto applicabile il
disposto di cui all’art.48, comma 6, del TUIR (6), in luogo del comma 5 dello
stesso articolo, come preteso dalla società, considerando che, "alla luce
dell’attività svolta dai dipendenti della società, gli stessi erano
"tenuti a prestare quotidianamente la propria prestazione lavorativa in
luoghi sempre variabili e diversi".
Il
citato comma 6 dell’art.48 stabilisce che "le indennità e le maggiorazioni
di retribuzione spettanti ai lavoratori tenuti per contratto all’espletamento
delle attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi, anche se
corrisposte con carattere di continuità, ... concorrono a formare il reddito
nella misura del 50 per cento del loro ammontare."
La
società ricorrente aveva censurato la
valutazione della Corte di Appello relativa all’applicabilità del suddetto
comma 6 dell'articolo citato, rilevando che le previsioni sia del contratto
collettivo nazionale sia del contratto integrativo aziendale, applicabili alla
fattispecie, evidenzierebbero chiaramente la natura risarcitoria e non
retributiva dell’indennità di trasferta in discussione e che tale funzione
sarebbe vincolante ai fini dell’esclusione dell’applicabilità del comma in
parola.
A
tal fine, l’azienda aveva invocato le Circolari dell’INPS e del Ministero delle
Finanze, secondo le quali costituirebbe elemento riconducibile al
"trasfertismo" la corresponsione di una indennità o maggiorazioni
della retribuzione attribuite per contratto, per tutti i giorni retribuiti,
senza distinguere se il dipendente si sia effettivamente recato in trasferta e
dove la stessa si sia svolta.
Si
tratta di censure non condivise dalla Cassazione che, diversamente da quanto
sostenuto dalla società attraverso il richiamo alle Circolari Amministrative, ha
confermato che la disposizione applicata dalla Corte territoriale non richiede
per la sua operatività che le indennità e le maggiorazioni ivi previste siano
corrisposte in maniera fissa e continuativa, anche indipendentemente dalla
effettuazione della trasferta e dal tipo di essa.
La
norma, infatti, indica tale rigida continuità ("anche se") come
eventuale, mentre concentra il proprio nucleo precettivo significativo, in
rapporto a quello del precedente comma, nel dato relativo ad una erogazione
corrispettiva dell'obbligo contrattuale assunto dal dipendente di espletare normalmente
le proprie attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi e quindi al
di fuori di una qualsiasi sede di lavoro prestabilita.
Sede
di lavoro, appunto, e non mera sede di assunzione o comunque luogo in cui il
dipendente non è chiamato a svolgere normalmente la propria attività lavorativa
e costituente sostanzialmente mero riferimento per la gestione burocratica del
rapporto di lavoro ovvero per l’esecuzione di compiti preparatori rispetto alle
mansioni svolte (7).
Quanto
poi all’accertamento del presupposto fattuale al quale la norma riconnette
l’assoggettamento a contribuzione nella misura del 50% dell’erogato, l’essere
cioè "lavoratori tenuti per contratto all'espletamento delle attività
lavorative in luoghi sempre variabili e diversi", trattasi di
ricostruzione della vicenda storica di competenza esclusiva del giudice del
merito.
Nella
specie tale accertamento era stato concluso dalla Corte di Appello, in
conformità con il giudizio di prime cure, nel senso che i dipendenti della
società erano "tenuti a prestare quotidianamente la propria prestazione
lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi", con una valutazione non
sindacabile in sede di legittimità al di fuori dei limiti dell'art. 360, comma
1, n.5, c.p.c..
Con
il secondo mezzo di impugnazione la ricorrente aveva censurato la sentenza del
merito nella parte in cui, circa il calcolo della contribuzione previdenziale
relativa alla "indennità tempi di viaggio", aveva ritenuto che
"la determinazione del minimo retributivo utile ai fini contributivi"
dovesse essere effettuato nella specie "in relazione a quanto stabilito dall’art.26
del CCNL di categoria e non già in relazione alla previsione più sfavorevole di
cui al contratto aziendale".
Con
il conclusivo quesito di diritto l’azienda aveva chiesto alla Corte "se
l’accordo aziendale n.2522-174/28 del 22/9/92 ... può essere posto a base per
la determinazione del minimo retributivo utile a fini contributivi ai sensi
dell’art. 12, V comma, della Legge n.153/1969 (8) e, conseguentemente, ai sensi dell’art.1 del D.L.
n.388/1989 (9)”, in luogo del
CCNL per gli addetti all’industria metalmeccanica privata e all’installazione
di impianti al quale detto contratto aziendale deroga.
Nella
specie, la società aveva articolato il motivo in esame sulla base del citato
Accordo Aziendale Integrativo.
Si
tratta di una doglianza infondata.
Ai
sensi dell'art.12 della Legge n.153/1969, per la determinazione della base
imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale,
si considera retribuzione tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di
lavoro, in danaro o in natura, in dipendenza del rapporto di lavoro, con
esclusione di determinate somme specificamente indicate nel secondo comma del
medesimo articolo.
Secondo
l'unanime giurisprudenza in proposito, il collegamento normativo dei contributi
previdenziali alla retribuzione va inteso nel senso che la base imponibile
debba restare insensibile agli eventuali inadempimenti del datore di lavoro
all'obbligazione retributiva, dovendo in ogni caso farsi riferimento a tutta la
retribuzione dovuta, a prescindere da quella materialmente erogata, e, quindi,
a tutta quella che il lavoratore ha diritto di ricevere (10).
Nell'ambito
di questa disciplina, l’art.1 del D.L. n.338/1989 (11), confermato
espressamente dall'ottavo comma dell'art.6 del D.Lgs. n.314/1997, ha stabilito
il limite minimo di retribuzione imponibile ai fini contributivi, prevedendo
che la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di
previdenza ed assistenza sociale non può essere inferiore all'importo delle
retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati
dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da
accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione
di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo.
Dunque
le due categorie giuridiche di "retribuzione imponibile" e
"minimale retributivo ai fini contributivi" hanno finalità diverse,
attenendo le disposizioni relative alla prima categoria alla distinzione fra
erogazioni che devono essere computate ai fini contributivi ed erogazioni che
devono essere escluse secondo la prevista elencazione tassativa, mentre l’art.1
del D.L. n.338/1989 (12) fissa un
imponibile da sottoporre a contribuzione anche se la retribuzione dovuta ed
erogata al lavoratore sia inferiore (13).
La
legge ha individuato nei "contratti collettivi, stipulati dalle
organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale" la fonte
del parametro per determinare l’obbligo contributivo minimo.
Si
tratta di un parametro "virtuale", poiché la retribuzione stabilita
dal contratto collettivo non è sempre e necessariamente quella dovuta al
dipendente, la quale può essere legittimamente inferiore nel caso in cui non
sia obbligatoria l'applicazione della contrattazione collettiva di diritto
comune (14).
Gli
accordi collettivi diversi da quelli stipulati dalle organizzazioni sindacali
più rappresentative su base nazionale (ad es. un accordo aziendale come quello
in rilievo nella specie), ovvero gli accordi individuali, hanno rilevanza ai fini
contributivi solo quando determinino una retribuzione superiore al minimale,
mentre, in caso contrario, restano irrilevanti e la contribuzione va
parametrata al minimale.
Invero,
il riferimento ai contratti aziendali conferma che la retribuzione contributiva
non è sempre ed in ogni caso quella spettante al lavoratore: non essendo
dubitabile che i contratti collettivi aziendali possano derogare "in
peius" quelli nazionali, può accadere che la retribuzione corrisposta e
spettante in forza di contratto aziendale sia inferiore a quella determinata
dal contratto collettiva nazionale; in tal caso però la retribuzione
contributiva non e quella spettante al lavoratore, ma, in forza della norma in
commento, è quella superiore (e non spettante) prevista dal contratto nazionale
(15).
Pertanto,
correttamente la Corte distrettuale aveva ritenuto, ai fini della
determinazione del minimo retributivo utile ai fini contributivi, utilizzabile
quanto stabilito dal contratto collettivo nazionale di categoria in luogo del
trattamento economico previsto dal contratto integrativo aziendale, ritenuto
più sfavorevole con accertamento del giudice di merito non sindacabile in sede di legittimità.
Peraltro,
contrariamente a quanto opinato dalla ricorrente, la prova che dall’accordo
collettivo aziendale derivasse una retribuzione di importo superiore a quello
previsto dal contratto collettivo nazionale gravava ovviamente su chi aveva
dedotto tale circostanza.
Conclusivamente,
alla stregua di tutte le argomentazioni esposte, la Cassazione ha respinto il
ricorso ed ha condannato l’azienda al pagamento delle spese del processo di
legittimità, liquidate in 4.000,00 € per compensi professionali, 100,00 € per esborsi, oltre accessori secondo
legge.
Valerio
Pollastrini
1)
-
Come sostituito dall’art.3 del D.Lgs. n.314/1997;
2)
-
Oggi art.51, comma 5, del TUIR;
3)
-
Cass., Sentenza n.8136/2008; Cass., Sentenza n.396/2012; Cass., Sentenza
n.4837/2013; Cass., Sentenza n.1620/2013; Cass., Sentenza n.22796/2013;
4)
-
Nel testo sostituito dall’art.3 del D.Lgs. n.314/1997;
5)
-
Introdotto dall’art.1 del D.Lgs. n. 344/2003;
6)
-
Come sostituito dall’art.3 del D.Lgs. n.314/1997;
7)
-
Cass., Sentenza n.22796/2013;
8)
-
Come sostituito dall’art.6 del D.Lgs. n.314/1997;
9)
-
Convertito con modificazioni dalla Legge n.389/1989
10) - Cass.,
Sentenza n.8620/1999; Cass., Sentenza n.1898/1997; Cass., Sentenza n.5547/1993
11) - Convertito
nella Legge n.389/1989
12) - Convertito
nella Legge n.389/1989
13) - Cass. SS.UU.,
Sentenza n.11199/2002
14) - Cass.,
Sentenza n.801/2012;
15) - Cass.,
Sentenza n.12122/1999;
Nessun commento:
Posta un commento