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domenica 5 ottobre 2014

Limiti della riduzione contributiva dell’indennità di trasferta

Nella sentenza n.20595 del 30 settembre 2014, la Corte di Cassazione ha riepilogato i limiti dell’esenzione contributiva delle somme erogate a titolo di indennità di trasferta ai lavoratori subordinati.

Il caso di specie è scaturito dal  verbale di accertamento con il quale l’Inps aveva richiesto ad un’azienda, esercente attività di installazione e manutenzione di linee telefoniche ed elettriche, il pagamento della contribuzione sulla metà delle somme corrisposte ai lavoratori come "indennità di trasferta giornaliera", erogata nella misura di  12,00 € a titolo di rimborso spese per il pasto meridiano o serale, nonché, nella misura dell’85% della paga oraria, sulle "indennità per tempi di viaggio", come previsto dal CCNL di categoria, in luogo del trattamento riconosciuto da un Accordo Integrativo Aziendale.

La Corte di Appello di Torino aveva confermato la decisione del giudice di primo grado, con la quale era stata respinta la domanda proposta dalla società tesa ad accertare l’insussistenza di cui alla pretesa creditoria dell’Inps.

In merito alla "indennità di trasferta giornaliera", la Corte del merito aveva ha rilevato che l’Istituto Previdenziale avesse correttamente  ritenuto applicabile il disposto di cui all’art.48, comma 6, del TUIR (1), in luogo del comma 5 dello stesso articolo, come preteso dalla società, considerando che, alla luce dell’attività svolta, i dipendenti erano "tenuti a prestare quotidianamente la propria prestazione lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi".

Per quanto riguarda, invece, il calcolo della contribuzione previdenziale relativa alla "indennità tempi di viaggio", i giudici dell’appello avevano osservato che "la determinazione del minimo retributivo utile ai fini contributivi" doveva essere effettuato nella specie "in relazione a quanto stabilito dall’art.26 del CCNL di categoria e non già in relazione alla previsione più sfavorevole di cui al Contratto Aziendale".

Contro questa sentenza, la società aveva adito Cassazione, lamentando che la Corte territoriale avrebbe erroneamente considerato i lavoratori dipendenti della stessa come "trasfertisti", applicando loro l’art.51, comma 6, del TUIR, in luogo del comma 5 dello stesso articolo.

Attraverso la formulazione di un "quesito di diritto", la ricorrente aveva chiesto alla Suprema Corte  se "l’attività prestata dai lavoratori quotidianamente presenti presso la sede aziendale e frequentemente inviati presso cantieri posti fuori dal comune ove l’azienda ha sede, senza obbligo di pernottamento all’esterno della propria abitazione e con versamento delle indennità previste solo in caso di effettiva trasferta sia qualificabile come trasferta e, in tal caso, se a tale attività sia applicabile la disposizione di cui all’art.48, comma 5 (2).

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto infondato detto  motivo del ricorso, alla stregua dei principi affermati in plurime decisioni dalla giurisprudenza di legittimità (3).

Il regime fiscale e contributivo previsto per le indennità di trasferta - situazione caratterizzata dalla corresponsione di emolumenti da parte del datore di lavoro per il mutamento temporaneo del luogo esecuzione della prestazione del dipendente - è stato dettato, a decorrere dal 1° gennaio 1998, dall’art.48, commi 5 e 6, del  D.P.R. n.917/1986 (4), e, poi, con formulazione sostanzialmente immutata a parte l'espressione del valore delle somme in euro, dall’art. 51, commi 5 e 6, del nuovo T.U.I.R. (5), in vigore dal 1° gennaio 2004.

La Corte torinese, avuto riguardo alla "indennità di trasferta giornaliera" corrisposta ai dipendenti della società nella misura di 12,00 € per ogni giorno effettivamente lavorato in cantieri esterni per almeno 5 ore, aveva rilevato come ad essa l’INPS avesse correttamente ritenuto applicabile il disposto di cui all’art.48, comma 6, del TUIR (6), in luogo del comma 5 dello stesso articolo, come preteso dalla società, considerando che, "alla luce dell’attività svolta dai dipendenti della società, gli stessi erano "tenuti a prestare quotidianamente la propria prestazione lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi".

Il citato comma 6 dell’art.48 stabilisce che "le indennità e le maggiorazioni di retribuzione spettanti ai lavoratori tenuti per contratto all’espletamento delle attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi, anche se corrisposte con carattere di continuità, ... concorrono a formare il reddito nella misura del 50 per cento del loro ammontare."

La società ricorrente aveva censurato  la valutazione della Corte di Appello relativa all’applicabilità del suddetto comma 6 dell'articolo citato, rilevando che le previsioni sia del contratto collettivo nazionale sia del contratto integrativo aziendale, applicabili alla fattispecie, evidenzierebbero chiaramente la natura risarcitoria e non retributiva dell’indennità di trasferta in discussione e che tale funzione sarebbe vincolante ai fini dell’esclusione dell’applicabilità del comma in parola.

A tal fine, l’azienda aveva invocato le Circolari dell’INPS e del Ministero delle Finanze, secondo le quali costituirebbe elemento riconducibile al "trasfertismo" la corresponsione di una indennità o maggiorazioni della retribuzione attribuite per contratto, per tutti i giorni retribuiti, senza distinguere se il dipendente si sia effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si sia svolta.

Si tratta di censure non condivise dalla Cassazione che, diversamente da quanto sostenuto dalla società attraverso il richiamo alle Circolari Amministrative, ha confermato che la disposizione applicata dalla Corte territoriale non richiede per la sua operatività che le indennità e le maggiorazioni ivi previste siano corrisposte in maniera fissa e continuativa, anche indipendentemente dalla effettuazione della trasferta e dal tipo di essa.

La norma, infatti, indica tale rigida continuità ("anche se") come eventuale, mentre concentra il proprio nucleo precettivo significativo, in rapporto a quello del precedente comma, nel dato relativo ad una erogazione corrispettiva dell'obbligo contrattuale assunto dal dipendente di espletare normalmente le proprie attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi e quindi al di fuori di una qualsiasi sede di lavoro prestabilita.

Sede di lavoro, appunto, e non mera sede di assunzione o comunque luogo in cui il dipendente non è chiamato a svolgere normalmente la propria attività lavorativa e costituente sostanzialmente mero riferimento per la gestione burocratica del rapporto di lavoro ovvero per l’esecuzione di compiti preparatori rispetto alle mansioni svolte (7).

Quanto poi all’accertamento del presupposto fattuale al quale la norma riconnette l’assoggettamento a contribuzione nella misura del 50% dell’erogato, l’essere cioè "lavoratori tenuti per contratto all'espletamento delle attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi", trattasi di ricostruzione della vicenda storica di competenza esclusiva del giudice del merito.

Nella specie tale accertamento era stato concluso dalla Corte di Appello, in conformità con il giudizio di prime cure, nel senso che i dipendenti della società erano "tenuti a prestare quotidianamente la propria prestazione lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi", con una valutazione non sindacabile in sede di legittimità al di fuori dei limiti dell'art. 360, comma 1, n.5, c.p.c..

Con il secondo mezzo di impugnazione la ricorrente aveva censurato la sentenza del merito nella parte in cui, circa il calcolo della contribuzione previdenziale relativa alla "indennità tempi di viaggio", aveva ritenuto che "la determinazione del minimo retributivo utile ai fini contributivi" dovesse essere effettuato nella specie "in relazione a quanto stabilito dall’art.26 del CCNL di categoria e non già in relazione alla previsione più sfavorevole di cui al contratto aziendale".

Con il conclusivo quesito di diritto l’azienda aveva chiesto alla Corte "se l’accordo aziendale n.2522-174/28 del 22/9/92 ... può essere posto a base per la determinazione del minimo retributivo utile a fini contributivi ai sensi dell’art. 12, V comma, della Legge n.153/1969 (8) e,  conseguentemente, ai sensi dell’art.1 del D.L. n.388/1989 (9)”, in luogo del CCNL per gli addetti all’industria metalmeccanica privata e all’installazione di impianti al quale detto contratto aziendale deroga.

Nella specie, la società aveva articolato il motivo in esame sulla base del citato Accordo Aziendale Integrativo.

Si tratta di una  doglianza infondata.

Ai sensi dell'art.12 della Legge n.153/1969, per la determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale, si considera retribuzione tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro, in danaro o in natura, in dipendenza del rapporto di lavoro, con esclusione di determinate somme specificamente indicate nel secondo comma del medesimo articolo.

Secondo l'unanime giurisprudenza in proposito, il collegamento normativo dei contributi previdenziali alla retribuzione va inteso nel senso che la base imponibile debba restare insensibile agli eventuali inadempimenti del datore di lavoro all'obbligazione retributiva, dovendo in ogni caso farsi riferimento a tutta la retribuzione dovuta, a prescindere da quella materialmente erogata, e, quindi, a tutta quella che il lavoratore ha diritto di ricevere (10).

Nell'ambito di questa disciplina, l’art.1 del D.L. n.338/1989 (11), confermato espressamente dall'ottavo comma dell'art.6 del D.Lgs. n.314/1997, ha stabilito il limite minimo di retribuzione imponibile ai fini contributivi, prevedendo che la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale non può essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo.

Dunque le due categorie giuridiche di "retribuzione imponibile" e "minimale retributivo ai fini contributivi" hanno finalità diverse, attenendo le disposizioni relative alla prima categoria alla distinzione fra erogazioni che devono essere computate ai fini contributivi ed erogazioni che devono essere escluse secondo la prevista elencazione tassativa, mentre l’art.1 del D.L. n.338/1989 (12) fissa un imponibile da sottoporre a contribuzione anche se la retribuzione dovuta ed erogata al lavoratore sia inferiore (13).

La legge ha individuato nei "contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale" la fonte del parametro per determinare l’obbligo contributivo minimo.

Si tratta di un parametro "virtuale", poiché la retribuzione stabilita dal contratto collettivo non è sempre e necessariamente quella dovuta al dipendente, la quale può essere legittimamente inferiore nel caso in cui non sia obbligatoria l'applicazione della contrattazione collettiva di diritto comune (14).

Gli accordi collettivi diversi da quelli stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (ad es. un accordo aziendale come quello in rilievo nella specie), ovvero gli accordi individuali, hanno rilevanza ai fini contributivi solo quando determinino una retribuzione superiore al minimale, mentre, in caso contrario, restano irrilevanti e la contribuzione va parametrata al minimale.

Invero, il riferimento ai contratti aziendali conferma che la retribuzione contributiva non è sempre ed in ogni caso quella spettante al lavoratore: non essendo dubitabile che i contratti collettivi aziendali possano derogare "in peius" quelli nazionali, può accadere che la retribuzione corrisposta e spettante in forza di contratto aziendale sia inferiore a quella determinata dal contratto collettiva nazionale; in tal caso però la retribuzione contributiva non e quella spettante al lavoratore, ma, in forza della norma in commento, è quella superiore (e non spettante) prevista dal contratto nazionale (15).

Pertanto, correttamente la Corte distrettuale aveva ritenuto, ai fini della determinazione del minimo retributivo utile ai fini contributivi, utilizzabile quanto stabilito dal contratto collettivo nazionale di categoria in luogo del trattamento economico previsto dal contratto integrativo aziendale, ritenuto più sfavorevole con accertamento del giudice di merito non sindacabile in  sede di legittimità.

Peraltro, contrariamente a quanto opinato dalla ricorrente, la prova che dall’accordo collettivo aziendale derivasse una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale gravava ovviamente su chi aveva dedotto tale circostanza.

Conclusivamente, alla stregua di tutte le argomentazioni esposte, la Cassazione ha respinto il ricorso ed ha condannato l’azienda al pagamento delle spese del processo di legittimità, liquidate in 4.000,00 € per compensi professionali,  100,00 € per esborsi, oltre accessori secondo legge.

Valerio Pollastrini

 
1)      - Come sostituito dall’art.3 del D.Lgs. n.314/1997;
2)      - Oggi art.51, comma 5, del TUIR;
3)      - Cass., Sentenza n.8136/2008; Cass., Sentenza n.396/2012; Cass., Sentenza n.4837/2013; Cass., Sentenza n.1620/2013; Cass., Sentenza n.22796/2013;
4)      - Nel testo sostituito dall’art.3 del D.Lgs. n.314/1997;
5)      - Introdotto dall’art.1 del D.Lgs. n. 344/2003;
6)      - Come sostituito dall’art.3 del D.Lgs. n.314/1997;
7)      - Cass., Sentenza n.22796/2013;
8)      - Come sostituito dall’art.6 del D.Lgs. n.314/1997;
9)      - Convertito con modificazioni dalla Legge n.389/1989
10)  - Cass., Sentenza n.8620/1999; Cass., Sentenza n.1898/1997; Cass., Sentenza n.5547/1993
11)  - Convertito nella Legge n.389/1989
12)  - Convertito nella Legge n.389/1989
13)  - Cass. SS.UU., Sentenza n.11199/2002
14)  - Cass., Sentenza n.801/2012;
15)  - Cass., Sentenza n.12122/1999;

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