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martedì 7 ottobre 2014

Rientro in Italia per godere delle ferie – Illegittimo il licenziamento

Nella sentenza n.19497 del 16 settembre 2014, la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento irrogato ad un dipendente che, svolgendo la propria prestazione all’estero, era rientrato in Italia per trascorrere le ferie, nonostante l’ingresso in patria gli avesse fatto perdere,  momentaneamente, il diritto a tornare nel Paese terzo ove era ubicata la sede lavorativa.

Il caso di specie è quello di un lavoratore che aveva svolto la propria prestazione  presso taluni cantieri in Libia, per otto ore giornaliere e per sei giorni settimanali, con mansioni corrispondenti alla qualifica di “assistente di cantiere”.

Dopo il licenziamento irrogatogli dalla società datrice di lavoro, il dipendente aveva impugnato il recesso, chiedendo formalmente all’azienda  la specificazione dei motivi che l’avevano indotta ad un simile provvedimento, senza ricevere alcuna risposta.

Nel costituirsi in giudizio, l’azienda aveva precisato che il lavoratore aveva svolto la propria attività presso il cantiere libico fino a quando aveva chiesto di fare rientro in Italia.

In particolare, la società aveva evidenziato la peculiarità della posizione giuridica del ricorrente con riferimento a quanto stabilito con provvedimento n.88/369 dal Comitato Generale Popolare Libico,  relativo all’impiego di manodopera straniera in Libia in caso di avvenuta cessazione del lavoro per qualsiasi ragione (1).

La convenuta sottolineava, altresì, che, in precedenza, il dipendente aveva risolto il rapporto di lavoro in Libia con altra ditta italiana, per poi fare rientro nello stesso Paese con un visto di affari, non idoneo per l’espletamento di prestazioni di lavoro subordinato.

L’azienda sosteneva, inoltre, che il ricorrente aveva omesso di richiedere la residenza in Libia e che solo in presenza della stessa sarebbe stato possibile ottenere  un permesso di lavoro prima del decorso dei tre anni.

Per tale ragione, nel corso dei circa quattro mesi di durata del rapporto, il lavoratore avrebbe operato nel cantiere libico solo in via provvisoria e grazie ai buoni rapporti intrattenuti dalla convenuta con i funzionari  addetti ai competenti uffici che, però, avevano ben presto fatto presente alla deducente che la situazione non poteva essere ulteriormente  tollerata e che, in difetto del visto di lavoro, il ricorrente avrebbe dovuto cessare la sua attività lavorativa.

Nonostante fosse stato informato della richiesta delle autorità libiche, il ricorrente si sarebbe, tuttavia, rifiutato di richiedere la residenza in Libia ed aveva fatto rientro in Italia per fruire del periodo di ferie maturate, rendendo, di fatto, impossibile la prosecuzione del rapporto, tanto che la decisione di risolvere il contratto gli era stata comunicata una volta rientrato in patria.

Secondo la convenuta, pertanto,  la risoluzione del rapporto sarebbe attribuibile ad una impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, e quindi  non imputabile alla volontà datoriale.

Il Tribunale di Lucca, ritenuto inefficace il recesso, aveva condannato la società a riassumere il ricorrente ed a corrispondergli tutte le retribuzioni dovute dal licenziamento alla data dell’effettiva riassunzione, oltre interessi e rivalutazione dalle singole scadenze al saldo.

Il giudicante aveva  escluso la fondatezza dell’assunto formulato dalla convenuta, secondo il quale, nella specie, non vi sarebbe stato alcun licenziamento, ma solo l’attivazione di una clausola risolutiva apposta nel contratto di lavoro individuale.

Anche in tal caso, infatti,  l’azienda avrebbe dovuto comunicare al proprio dipendente le ragioni per le quali intendeva recedere dal rapporto.

Dall’istruttoria espletata era comunque emerso che il dipendente era rientrato in Italia non solo per fruire di un periodo di ferie, ma anche per richiedere il rinnovo del “visto business”, mostrando, quindi, l’intenzione di ritornare in Libia appena ottenuto il permesso.

Tali considerazioni avevano indotto il Tribunale ad osservare come, all’atto del licenziamento,  non si fosse ancora verificata nessuna situazione di impossibilità oggettiva della prestazione, stante anche l’accertata tolleranza da parte delle autorità libiche di lavoratori in possesso del solo “visto business”.

Dagli atti, inoltre, non era stato possibile accertare  se il ricorrente si fosse effettivamente rifiutato di ottenere la residenza in Libia e neppure se la società convenuta avesse formulato una richiesta in tal senso.

A seguito dell’impugnazione presentata dal datore di lavoro, la Corte di Appello di Firenze aveva respinto  il gravame, determinando, in base alle risultanze della disposta C.t.u. contabile, l’indennità risarcitoria spettante al dipendente per l’inefficace licenziamento in complessivi 251.617,84 €, oltre interessi legali.

Contro questa sentenza, l’azienda aveva proposto ricorso per  Cassazione, ribadendo che la risoluzione del contratto sarebbe stata determinata dal  verificarsi della condizione risolutiva prevista dall’articolo 23 del contratto individuale, relativo al rilascio del visto di ingresso e del permesso di lavoro da parte delle autorità libiche.

Investita della questione, la Suprema Corte ha ritenuto infondata tale doglianza, dal momento  che il lavoratore si era recato in Italia, oltre che per godere delle ferie, anche per chiedere il “visto business”,  sufficiente per il suo rientro in Libia.

La società aveva poi lamentato  che la sentenza impugnata non avrebbe valutato la questione della riconducibilità della risoluzione del contratto all’avverarsi della riferita circostanza di cui alla clausola risolutiva espressa.

Ritenendo infondata anche tale censura, gli ermellini hanno sottolineato come la Corte territoriale avesse congruamente valutato ed escluso la dedotta impossibilità sopravvenuta, o l’esistenza di una clausola risolutiva espressa, ed avesse comunque escluso il suo verificarsi, avendo il lavoratore richiesto il rinnovo del “visto business”.

Del resto, l’articolo 23 del contratto di lavoro riprodotto in ricorso, prevedeva che fosse l’azienda a doversi curare,  senza nessuna  responsabilità diretta, dell’ottenimento del visto di ingresso e del permesso di lavoro,  con l’obbligo del dipendente di fornirle tutta la documentazione occorrente   allo scopo.

Sul punto, la Cassazione ha escluso che l’adempimento della società fosse stato provato, osservando che la mancata collaborazione del dipendente non era stata specificamente dedotta.

Con altro motivo di ricorso, l’azienda aveva contestato  alla Corte del merito di aver ritenuto erroneamente che la presenza in Libia di lavoratori privi degli indicati permessi, oltre che della “desert pass”, fosse tollerata dalle autorità libiche.

Anche questa censura risulta inammissibile, poiché richiede  alla Cassazione un nuovo accertamento di fatto ed una riconsiderazione delle risultanze istruttorie, precluse al giudice di legittimità.

La Suprema Corte aveva poi escluso la supposta  impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, in quanto la ricorrente non aveva chiarito in quale sede processuale ed in che modo tale questione sarebbe stata sottoposta al giudice di appello, impedendo così un esame della censura.

In base a tutte le richiamate considerazioni, la Cassazione ha rigettato il ricorso.

Valerio Pollastrini


1)      - obbligo di abbandono del territorio della Libia entro tre mesi ed intervallo di almeno tre anni prima della possibilità di ottenere il rilascio di una nuova autorizzazione;

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