Il
caso di specie è quello di un lavoratore che aveva svolto la propria
prestazione presso taluni cantieri in Libia, per otto ore
giornaliere e per sei giorni settimanali, con mansioni corrispondenti alla
qualifica di “assistente di cantiere”.
Dopo
il licenziamento irrogatogli dalla società datrice di lavoro, il dipendente aveva
impugnato il recesso, chiedendo formalmente all’azienda la specificazione dei motivi che l’avevano
indotta ad un simile provvedimento, senza ricevere alcuna risposta.
Nel
costituirsi in giudizio, l’azienda aveva precisato che il lavoratore aveva
svolto la propria attività presso il cantiere libico fino a quando aveva
chiesto di fare rientro in Italia.
In
particolare, la società aveva evidenziato la peculiarità della posizione
giuridica del ricorrente con riferimento a quanto stabilito con provvedimento
n.88/369 dal Comitato Generale Popolare Libico, relativo all’impiego di manodopera straniera
in Libia in caso di avvenuta cessazione del lavoro per qualsiasi ragione (1).
La
convenuta sottolineava, altresì, che, in precedenza, il dipendente aveva
risolto il rapporto di lavoro in Libia
con altra ditta italiana, per poi fare rientro nello stesso Paese con un visto
di affari, non idoneo per l’espletamento di prestazioni di lavoro subordinato.
L’azienda
sosteneva, inoltre, che il ricorrente aveva omesso di richiedere la residenza
in Libia e che solo in presenza della stessa sarebbe stato possibile ottenere un permesso di lavoro prima del decorso dei
tre anni.
Per
tale ragione, nel corso dei circa quattro mesi di durata del rapporto, il
lavoratore avrebbe operato nel cantiere libico solo in via provvisoria e grazie
ai buoni rapporti intrattenuti dalla convenuta con i funzionari addetti ai competenti uffici che, però,
avevano ben presto fatto presente alla deducente che la situazione non poteva essere
ulteriormente tollerata e che, in
difetto del visto di lavoro, il ricorrente avrebbe dovuto cessare la sua
attività lavorativa.
Nonostante
fosse stato informato della richiesta delle autorità libiche, il ricorrente si
sarebbe, tuttavia, rifiutato di richiedere la residenza in Libia ed aveva fatto
rientro in Italia per fruire del periodo di ferie maturate, rendendo, di fatto,
impossibile la prosecuzione del rapporto, tanto che la decisione di risolvere
il contratto gli era stata comunicata una volta rientrato in patria.
Secondo
la convenuta, pertanto, la risoluzione
del rapporto sarebbe attribuibile ad una impossibilità sopravvenuta della
prestazione lavorativa, e quindi non imputabile
alla volontà datoriale.
Il
Tribunale di Lucca, ritenuto inefficace il recesso, aveva condannato la società
a riassumere il ricorrente ed a corrispondergli tutte le retribuzioni dovute
dal licenziamento alla data dell’effettiva riassunzione, oltre interessi e
rivalutazione dalle singole scadenze al saldo.
Il
giudicante aveva escluso la fondatezza
dell’assunto formulato dalla convenuta, secondo il quale, nella specie, non vi
sarebbe stato alcun licenziamento, ma solo l’attivazione di una clausola
risolutiva apposta nel contratto di lavoro individuale.
Anche
in tal caso, infatti, l’azienda avrebbe
dovuto comunicare al proprio dipendente le ragioni per le quali intendeva
recedere dal rapporto.
Dall’istruttoria
espletata era comunque emerso che il dipendente era rientrato in Italia non
solo per fruire di un periodo di ferie, ma anche per richiedere il rinnovo del “visto
business”, mostrando, quindi, l’intenzione di ritornare in Libia appena
ottenuto il permesso.
Tali
considerazioni avevano indotto il Tribunale ad osservare come, all’atto del
licenziamento, non si fosse ancora
verificata nessuna situazione di impossibilità oggettiva della prestazione, stante
anche l’accertata tolleranza da parte delle autorità libiche di lavoratori in
possesso del solo “visto business”.
Dagli
atti, inoltre, non era stato possibile accertare se il ricorrente si fosse effettivamente
rifiutato di ottenere la residenza in Libia e neppure se la società convenuta avesse
formulato una richiesta in tal senso.
A
seguito dell’impugnazione presentata dal datore di lavoro, la Corte di Appello
di Firenze aveva respinto il gravame,
determinando, in base alle risultanze della disposta C.t.u. contabile, l’indennità
risarcitoria spettante al dipendente per l’inefficace licenziamento in
complessivi 251.617,84 €, oltre interessi legali.
Contro
questa sentenza, l’azienda aveva proposto ricorso per Cassazione, ribadendo che la risoluzione del
contratto sarebbe stata determinata dal verificarsi della condizione risolutiva
prevista dall’articolo 23 del contratto individuale, relativo al rilascio del
visto di ingresso e del permesso di lavoro da parte delle autorità libiche.
Investita
della questione, la Suprema Corte ha ritenuto infondata tale doglianza, dal
momento che il lavoratore si era recato
in Italia, oltre che per godere delle ferie, anche per chiedere il “visto
business”, sufficiente per il suo rientro
in Libia.
La
società aveva poi lamentato che la
sentenza impugnata non avrebbe valutato la questione della riconducibilità della
risoluzione del contratto all’avverarsi della riferita circostanza di cui alla
clausola risolutiva espressa.
Ritenendo
infondata anche tale censura, gli ermellini hanno sottolineato come la Corte
territoriale avesse congruamente valutato ed escluso la dedotta impossibilità
sopravvenuta, o l’esistenza di una clausola risolutiva espressa, ed avesse
comunque escluso il suo verificarsi, avendo il lavoratore richiesto il rinnovo
del “visto business”.
Del
resto, l’articolo 23 del contratto di lavoro riprodotto in ricorso, prevedeva che
fosse l’azienda a doversi curare, senza
nessuna responsabilità diretta, dell’ottenimento
del visto di ingresso e del permesso di lavoro, con l’obbligo del dipendente di fornirle tutta
la documentazione occorrente allo scopo.
Sul
punto, la Cassazione ha escluso che l’adempimento della società fosse stato provato,
osservando che la mancata collaborazione del dipendente non era stata
specificamente dedotta.
Con
altro motivo di ricorso, l’azienda aveva contestato alla Corte del merito di aver ritenuto erroneamente
che la presenza in Libia di lavoratori privi degli indicati permessi, oltre che
della “desert pass”, fosse tollerata dalle autorità libiche.
Anche
questa censura risulta inammissibile, poiché richiede alla Cassazione un nuovo accertamento di fatto
ed una riconsiderazione delle risultanze istruttorie, precluse al giudice di
legittimità.
La
Suprema Corte aveva poi escluso la supposta impossibilità sopravvenuta della prestazione
lavorativa, in quanto la ricorrente non aveva chiarito in quale sede
processuale ed in che modo tale questione sarebbe stata sottoposta al giudice
di appello, impedendo così un esame della censura.
In
base a tutte le richiamate considerazioni, la Cassazione ha rigettato il
ricorso.
Valerio
Pollastrini
1)
-
obbligo di abbandono del territorio della Libia entro tre mesi ed intervallo di
almeno tre anni prima della possibilità di ottenere il rilascio di una nuova
autorizzazione;
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