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martedì 7 ottobre 2014

Responsabilità dell’azienda per reati ambientali

Nella sentenza n.40530 del 1° ottobre 2014, la Corte di Cassazione ha ritenuto un’impresa responsabile del reato ambientale configurato dall’abbandono incontrollato dei rifiuti da parte dei lavoratori.

Il Tribunale di Torino aveva  condannato il proprietario e l’amministratore unico di una società alla pena di  1.800,00 € di ammenda ciascuno per il reato di cui all’art.256, comma 2, del D.Lgs. n.152/2006, scaturito dalla mancata vigilanza sui dipendenti che avevano abbandonavano rifiuti bituminosi, in violazione del disposto dell'art.192, comma 1, del D.Lgs. citato.

Il Tribunale, accertato che il deposito dei rifiuti risultava provato dalle videoriprese di una telecamera presente in luogo adiacente al fatto, aveva escluso  che le dimensioni dell'azienda  fossero tali da ritenere che quella di  scaricare abusivamente del materiale inquinante fosse un’autonoma iniziativa  degli operai, i quali, peraltro, non avevano alcun interesse a porre in essere una simile condotta, piuttosto che recarsi in discarica.

Contro questa decisione, gli imputati avevano proposto ricorso per Cassazione, contestando al giudice del merito l'inosservanza della legge penale con riferimento all'accertamento dell'elemento psicologico del reato e del rapporto di causalità tra condotta ed evento.

Ad avviso dei ricorrenti, il giudice territoriale avrebbe ravvisato una sorta di responsabilità oggettiva, trascurando l'accertamento dell'elemento psicologico ed omettendo di considerare una serie di elementi di fatto, dai quali sarebbe stato possibile accertare un movente ritorsivo nella condotta dei lavoratori,   i quali non avevano continuato il rapporto di lavoro con la società e si erano rifiutati di deporre.

La sentenza impugnata, infatti,  non avrebbe spiegato perché  i dipendenti avessero effettuato lo scarico, nonostante fossero a conoscenza della presenza della  telecamera, né  avrebbe motivato quale vantaggio economico avrebbe ottenuto l'imprenditore, esponendosi al rischio di un procedimento penale  a fronte di un risparmio non superiore a 200,00 €, vista la quantità dei rifiuti.

I ricorrenti, inoltre, avevano censurato  la ritenuta irrilevanza della lettera del settembre 2006, nella  quale  ai dipendenti era stato rammentato il divieto di scarico abusivo, nonché la successiva lettera del 2010 che, in presenza di una simile condotta, palesava la sanzione del licenziamento.

Gli imputati avevano poi rilevato l'impossibilità di controllare ogni comportamento dei dipendenti che, nel caso di specie, sarebbe stato determinato da finalità ritorsive o dall'esigenza di evitare le attese alla discarica.

Investita della questione, la Suprema Corte ha ritenuto il ricorso  manifestamente infondato e dunque inammissibile.

Richiamando la giurisprudenza di legittimità (1) gli ermellini hanno ricordato come l’art.2, comma 3, del D.Lgs. n.22/1997 già prevedesse la responsabilizzazione e la cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nel ciclo di gestione dei rifiuti e dei beni da cui originano gli stessi e di come  tale principio sia stato ribadito dall’art.178, comma 3, del  D.Lgs. n.152/2006.

La stessa Cassazione, inoltre, aveva già avuto modo di chiarire (2) che le responsabilità per la  corretta gestione dei rifiuti gravano su tutti i soggetti suddetti, risultando le stesse configurate  anche a livello di semplice istigazione, determinazione, rafforzamento o facilitazione nella realizzazione degli illeciti.

Il concetto di "coinvolgimento", infatti, era stato specificato dall’art.10 del D.Lgs. n.22/1997 e, attualmente, trova conferma nell’art.188 del D.Lgs. n.152/2006 (3), ma, sul punto, la giurisprudenza di legittimità aveva specificato come anche la mera osservanza delle condizioni di cui all'art.10 non valga ad escludere la responsabilità dei detentori e/o produttori di rifiuti, allorquando costoro si rendano responsabili di comportamenti materiali o psicologici che possano determinare una compartecipazione, anche a livello di semplice facilitazione, negli illeciti commessi dai soggetti dediti alla gestione dei rifiuti (4).

La Corte ha poi precisato che i principi sin qui richiamati sono stati sostanzialmente ribaditi dagli artt.2 e 16  del D.Lgs. n.205 del 3 dicembre 2010.

Sempre a detta della giurisprudenza (5), inoltre, appare evidente che quello configurato nel citato art.256, comma 1, non sia un reato proprio. Per la sua sussistenza, infatti, non è necessario che  venga  integrato da soggetti esercenti professionalmente l'attività di gestione rifiuti, in quanto la norma fa riferimento a "chiunque".

Tuttavia, in presenza di una attività di gestione svolta da un'impresa, è parimente certa  la vigenza dei principi sopra richiamati in ordine alla individuazione dei soggetti responsabili.

Conseguentemente, è stato così affermato che, in tema di rifiuti, la responsabilità per l'attività di gestione non autorizzata non attiene necessariamente al profilo della consapevolezza e volontarietà della condotta, potendo scaturire da comportamenti che violino i doveri di diligenza per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione, legittimamente richiesti ai soggetti preposti alla direzione aziendale (6).

Del resto,  successivamente,  la  Cassazione aveva ribadito (7) che il reato di abbandono incontrollato di rifiuti è ascrivibile ai titolari di enti ed imprese ed ai responsabili di enti anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che pongano in essere tale  condotta.

Tornando al  caso di specie, la Suprema Corte ha osservato che il Tribunale aveva accertato che i due lavoratori  erano stati ripresi da una telecamera mentre scaricavano da un furgone della ditta tre sacchi di pietrisco, frammenti di mattone e macerie murarie da 25 kg ciascuno in un punto all'interno del Parco Fluviale del Po.

Il giudice del merito, inoltre,  aveva ritenuto che le dimensioni dell'impresa, composta da 14 dipendenti, un numero limitato di mezzi ed un unico furgone, non fossero tali da far ritenere che la condotta dei lavoratori fosse stata il frutto di una autonoma iniziativa,  in violazione delle direttive e ad insaputa dei datori di lavoro.

Nel trarre il proprio convincimento, il giudice   aveva considerato anche il risparmio di spesa determinato dallo scarico abusivo, rispetto al regolare smaltimento in discarica, nonché la mancanza di un interesse dei lavoratore a contravvenire alle disposizioni aziendali.

Il Tribunale aveva poi precisato che il problema consisteva nello stabilire se i dipendenti avessero operato in un contesto favorevole a condotte vietate, ritenendo irrilevante l'affissione di una lettera in bacheca quattro anni prima,  tenuto conto della mancanza di un autonomo interesse a scaricare abusivamente i detriti.

Parimenti irrilevante, inoltre, era stata ritenuta la lettera aziendale del 2010, in quanto successiva al fatto e quindi di tipo cautelativo a seguito della denunzia penale.

Si tratta di un percorso argomentativo che risulta fondato su tipici accertamenti in fatto, nonché esplicitato attraverso una serie di passaggi logicamente coerenti, in linea con i principi di diritto esposti, e che, pertanto, non può essere censurato dalla Suprema Corte.

Per tutte le richiamate considerazioni, la Cassazione ha concluso con il rigetto del ricorso e la conseguente condanna di ciascun imputato al pagamento delle spese processuali, nonché della somma di  1.000,00 € in favore della Cassa delle Ammende.

Valerio Pollastrini

 
1)      – Cass., Sentenza n.23971 del 25 maggio 2011; Cass. pen., Sentenza  n.6420 del 7 novembre 2007;
2)      – Cass., Sentenza n.7746 del 24 febbraio 2004;
3)      - salvo le ipotesi di concorso di persone nel reato;
4)      - Cass., Sentenza n.1767 del  6 febbraio 2000;
5)      – Cass., Sentenza n.23971/2011;
6)      - Cass. pen., Sentenza n.47432 dell’11 dicembre 2003;
7)      - Cass. pen., Sentenza n.24736 del 18 maggio 2007;

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