Il
Tribunale di Torino aveva condannato il
proprietario e l’amministratore unico di una società alla pena di 1.800,00 € di ammenda ciascuno per il reato di
cui all’art.256, comma 2, del D.Lgs. n.152/2006, scaturito dalla mancata
vigilanza sui dipendenti che avevano abbandonavano rifiuti bituminosi, in violazione
del disposto dell'art.192, comma 1, del D.Lgs. citato.
Il
Tribunale, accertato che il deposito dei rifiuti risultava provato dalle
videoriprese di una telecamera presente in luogo adiacente al fatto, aveva
escluso che le dimensioni
dell'azienda fossero tali da ritenere
che quella di scaricare abusivamente del
materiale inquinante fosse un’autonoma iniziativa degli operai, i quali, peraltro, non avevano
alcun interesse a porre in essere una simile condotta, piuttosto che recarsi in
discarica.
Contro
questa decisione, gli imputati avevano proposto ricorso per Cassazione,
contestando al giudice del merito l'inosservanza della legge penale con
riferimento all'accertamento dell'elemento psicologico del reato e del rapporto
di causalità tra condotta ed evento.
Ad
avviso dei ricorrenti, il giudice territoriale avrebbe ravvisato una sorta di
responsabilità oggettiva, trascurando l'accertamento dell'elemento psicologico
ed omettendo di considerare una serie di elementi di fatto, dai quali sarebbe
stato possibile accertare un movente ritorsivo nella condotta dei lavoratori, i quali
non avevano continuato il rapporto di lavoro con la società e si erano rifiutati
di deporre.
La
sentenza impugnata, infatti, non avrebbe
spiegato perché i dipendenti avessero effettuato
lo scarico, nonostante fossero a conoscenza della presenza della telecamera, né avrebbe motivato quale vantaggio economico avrebbe
ottenuto l'imprenditore, esponendosi al rischio di un procedimento penale a fronte di un risparmio non superiore a
200,00 €, vista la quantità dei rifiuti.
I
ricorrenti, inoltre, avevano censurato la ritenuta irrilevanza della lettera del
settembre 2006, nella quale ai dipendenti era stato rammentato il divieto
di scarico abusivo, nonché la successiva lettera del 2010 che, in presenza di
una simile condotta, palesava la sanzione del licenziamento.
Gli
imputati avevano poi rilevato l'impossibilità di controllare ogni comportamento
dei dipendenti che, nel caso di specie, sarebbe stato determinato da finalità
ritorsive o dall'esigenza di evitare le attese alla discarica.
Investita
della questione, la Suprema Corte ha ritenuto il ricorso manifestamente infondato e dunque
inammissibile.
Richiamando
la giurisprudenza di legittimità (1) gli ermellini hanno ricordato come l’art.2,
comma 3, del D.Lgs. n.22/1997 già prevedesse la responsabilizzazione e la cooperazione
di tutti i soggetti coinvolti nel ciclo di gestione dei rifiuti e dei beni da
cui originano gli stessi e di come tale
principio sia stato ribadito dall’art.178, comma 3, del D.Lgs. n.152/2006.
La
stessa Cassazione, inoltre, aveva già avuto modo di chiarire (2) che le
responsabilità per la corretta gestione
dei rifiuti gravano su tutti i soggetti suddetti, risultando le stesse
configurate anche a livello di semplice
istigazione, determinazione, rafforzamento o facilitazione nella realizzazione
degli illeciti.
Il
concetto di "coinvolgimento", infatti, era stato specificato dall’art.10
del D.Lgs. n.22/1997 e, attualmente, trova conferma nell’art.188 del D.Lgs.
n.152/2006 (3), ma, sul punto,
la giurisprudenza di legittimità aveva specificato come anche la mera
osservanza delle condizioni di cui all'art.10 non valga ad escludere la
responsabilità dei detentori e/o produttori di rifiuti, allorquando costoro si
rendano responsabili di comportamenti materiali o psicologici che possano
determinare una compartecipazione, anche a livello di semplice facilitazione,
negli illeciti commessi dai soggetti dediti alla gestione dei rifiuti (4).
La
Corte ha poi precisato che i principi sin qui richiamati sono stati sostanzialmente
ribaditi dagli artt.2 e 16 del D.Lgs.
n.205 del 3 dicembre 2010.
Sempre
a detta della giurisprudenza (5), inoltre, appare evidente che quello configurato nel
citato art.256, comma 1, non sia un reato proprio. Per la sua sussistenza,
infatti, non è necessario che venga integrato da soggetti esercenti
professionalmente l'attività di gestione rifiuti, in quanto la norma fa
riferimento a "chiunque".
Tuttavia,
in presenza di una attività di gestione svolta da un'impresa, è parimente certa
la vigenza dei principi sopra richiamati
in ordine alla individuazione dei soggetti responsabili.
Conseguentemente,
è stato così affermato che, in tema di rifiuti, la responsabilità per
l'attività di gestione non autorizzata non attiene necessariamente al profilo
della consapevolezza e volontarietà della condotta, potendo scaturire da
comportamenti che violino i doveri di diligenza per la mancata adozione di
tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione, legittimamente
richiesti ai soggetti preposti alla direzione aziendale (6).
Del
resto, successivamente, la Cassazione aveva ribadito (7) che il reato di
abbandono incontrollato di rifiuti è ascrivibile ai titolari di enti ed imprese
ed ai responsabili di enti anche sotto il profilo della omessa vigilanza
sull'operato dei dipendenti che pongano in essere tale condotta.
Tornando
al caso di specie, la Suprema Corte ha
osservato che il Tribunale aveva accertato
che i due lavoratori erano stati ripresi
da una telecamera mentre scaricavano da un furgone della ditta tre sacchi di
pietrisco, frammenti di mattone e macerie murarie da 25 kg ciascuno in un punto
all'interno del Parco Fluviale del Po.
Il
giudice del merito, inoltre, aveva
ritenuto che le dimensioni dell'impresa, composta da 14 dipendenti, un numero
limitato di mezzi ed un unico furgone, non fossero tali da far ritenere che la
condotta dei lavoratori fosse stata il frutto di una autonoma iniziativa, in violazione delle direttive e ad insaputa
dei datori di lavoro.
Nel
trarre il proprio convincimento, il giudice aveva considerato anche il risparmio di spesa
determinato dallo scarico abusivo, rispetto al regolare smaltimento in
discarica, nonché la mancanza di un interesse dei lavoratore a contravvenire
alle disposizioni aziendali.
Il
Tribunale aveva poi precisato che il problema consisteva nello stabilire se i
dipendenti avessero operato in un contesto favorevole a condotte vietate,
ritenendo irrilevante l'affissione di una lettera in bacheca quattro anni
prima, tenuto conto della mancanza di un
autonomo interesse a scaricare abusivamente i detriti.
Parimenti
irrilevante, inoltre, era stata ritenuta la lettera aziendale del 2010, in
quanto successiva al fatto e quindi di
tipo cautelativo a seguito della denunzia penale.
Si
tratta di un percorso argomentativo che risulta fondato su tipici accertamenti
in fatto, nonché esplicitato attraverso una serie di passaggi logicamente coerenti,
in linea con i principi di diritto esposti, e che, pertanto, non può essere
censurato dalla Suprema Corte.
Per
tutte le richiamate considerazioni, la Cassazione ha concluso con il rigetto
del ricorso e la conseguente condanna di ciascun imputato al pagamento delle
spese processuali, nonché della somma di 1.000,00 € in favore della Cassa delle
Ammende.
Valerio
Pollastrini
1)
–
Cass., Sentenza n.23971 del 25 maggio 2011; Cass. pen., Sentenza n.6420 del 7 novembre 2007;
2)
–
Cass., Sentenza n.7746 del 24 febbraio 2004;
3)
-
salvo le ipotesi di concorso di persone nel reato;
4)
-
Cass., Sentenza n.1767 del 6 febbraio
2000;
5)
–
Cass., Sentenza n.23971/2011;
6)
-
Cass. pen., Sentenza n.47432 dell’11 dicembre 2003;
7)
-
Cass. pen., Sentenza n.24736 del 18 maggio 2007;
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