Nel caso di
specie, il Tribunale aveva accolto la domanda con la quale un lavoratore aveva
chiesto l’accertamento della natura subordinata del rapporto rubricato
formalmente come autonomo.
La Corte di Appello, tuttavia, aveva
disposto in favore del lavoratore il diritto a percepire il compenso relativo
ad un rapporto di lavoro a progetto.
Dalle risultanze dell’istruttoria,
infatti, la Corte del merito aveva escluso che il lavoratore fosse riuscito a
provare la sussistenza di un rapporto diverso da quello di consulenza professionale
parasubordinata e, pertanto, aveva escluso la pretesa natura subordinata del
contratto.
Contro questa sentenza, il lavoratore
aveva adito la Cassazione, lamentando che la Corte di Appello avrebbe escluso
la subordinazione attribuendo erroneamente valore decisivo al nomen iuris del contratto intercorso tra
le parti, ignorando la mancata
indicazione nel contratto a progetto del relativo programma di lavoro e non
considerando le risultanze processuali sulle effettive caratteristiche della
prestazione lavorativa, così come emerse dalle deposizioni testimoniali che, se
tenute in debito conto, avrebbero condotto ad una diversa pronunzia in ordine
alla configurazione giuridica dello stesso rapporto.
In particolare, il ricorrente aveva
sostenuto che, in considerazione delle attività intellettuali ad oggetto del
rapporto in esame, la Corte territoriale, ai fini di una corretta applicazione
dell’art.2094 c.c., avrebbe dovuto considerare
i c.d. elementi sussidiari o complementari della subordinazione, da valutare
complessivamente.
Investita della questione, gli ermellini
hanno ritenuto fondate le censure mosse dal ricorrente, precisando che il
giudice dell’appello aveva escluso la dipendenza del lavoratore attraverso la
semplice constatazione del nomen iuris
del contratto intervenuto tra le parti, senza tener conto che tale elemento
rappresenta solamente uno degli elementi
di valutazione per qualificarne la natura, dovendosi, invece, inquadrare
giuridicamente il rapporto stesso sulla base delle modalità di svolgimento
dell'attività lavorativa.
Sul punto, la Cassazione ha ricordato
che, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato o
autonomo, la volontà delle parti ed il nomen
iuris non costituiscono fattori assorbenti.
A tal fine, infatti, assume una rilevanza
decisiva il comportamento delle parti
posteriore alla conclusione del contratto, elemento necessario per
l'accertamento di una nuova diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso
dell'attuazione del rapporto e diretta a modificare singole clausole
contrattuali e, talora, la stessa natura del rapporto inizialmente prevista.
Si tratta di un principio ignorato nella
specie dalla Corte del merito che, nel riferirsi al progetto di lavoro, aveva
evidenziato che lo stesso appariva sufficientemente enunciato nel contratto
sottoscritto dalle parti, nel quale il corrispettivo risultava congruamente
commisurato.
Gli ermellini, però, hanno precisato che,
anche nel contratto di lavoro a progetto (1), il nomen iuris non può assumere un valore
preminente rispetto alla disamina di un eventuale diverso comportamento tenuto
dalle parti successivamente alla conclusione del contratto.
A questo proposito, la Suprema Corte ha
ricordato che ogni attività umana
economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro
subordinato che di lavoro autonomo e che l'elemento che contraddistingue il primo dal secondo è
costituito dall’assoggettamento del prestatore ai poteri organizzativo, direttivo
e disciplinare del datore di lavoro.
In relazione alle difficoltà che sovente
si incontrano nella distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato,
occorre osservare che la giurisprudenza di legittimità è solita avvalersi di criteri
distintivi sussidiari, quali la presenza di una pur minima organizzazione
imprenditoriale, ovvero l'incidenza del rischio economico, l'osservanza di un
orario, la forma di retribuzione, la continuità delle prestazioni e via di
seguito.
Queste, in sostanza, le ragioni che
hanno indotto la Suprema Corte a cassare la sentenza impugnata e a disporre il
rinvio del procedimento alla Corte di Appello, la cui nuova valutazione dovrà
tener conto dei principi sopra richiamati e di tutte le istruttorie non
valutate.
Valerio Pollastrini
1) – di cui all’art.61 del D.Lgs.
n.276 del 10 settembre 2003;
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