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giovedì 23 ottobre 2014

Dipendente che durante l’assenza per malattia lavora presso altra azienda

Nella sentenza n.22386 del 22 ottobre 2014, la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi della questione inerente alla legittimità del licenziamento del dipendente assente per malattia, sorpreso a svolgere un’attività lavorativa in favore di terzi.

Il caso in commento è giunto all’attenzione degli ermellini dopo che la Corte di Appello di Trieste, confermando la decisione di primo grado, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato ad un dipendente per aver prestato attività di lavoro in favore di terzi, durante un periodo di malattia.

Nel motivare la propria decisione, la Corte territoriale aveva osservato che lo svolgimento della attività di lavoro da parte del dipendente, era intervenuto in orario serale, extralavorativo, per di più al penultimo giorno di assenza per malattia.

Inoltre,  le effettive condizioni morbose in cui versava il lavoratore, attestate dalla certificazione medica, non risultavano smentite da alcun elemento contrario.

Il giudice dell’appello aveva quindi precisato che la società non aveva dimostrato l'esistenza di un pregiudizio o ritardo nella guarigione del dipendente, connesso all'espletamento di attività di lavoro in favore di terzi.

In ogni caso, nel caso di specie, non si era realizzata alcuna violazione delle disposizioni in tema di concorrenza, in considerazione della natura manuale delle mansioni ascritte al lavoratore, la cui condotta era pertanto insuscettibile di essere scrutinata alla luce del dettato normativo di cui all'art.2105 c.c.

Avverso tale pronuncia l’azienda aveva adito la Cassazione, deducendo l'incoerenza della decisione impugnata rispetto agli standards conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale, secondo i quali va individuata la giusta causa di recesso ai sensi dell'art.2119 c.c. anche in presenza di diverse valutazioni operate dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro.

La ricorrente, pertanto, reputava fuori contesto il richiamo disposto dai giudici del gravame all’art.32 del C.C.N.L. di settore, rimarcando che la contestazione mossa al lavoratore non investiva la violazione del codice disciplinare, bensì il vulnus arrecato ai doveri fondamentali  di fedeltà, buona fede e correttezza.

La società, inoltre, aveva lamentato l'errore di fondo della sentenza impugnata per aver negato rilievo al dettato normativo di cui all'art.2105 c.c., trattandosi di disposizione di applicazione generale in relazione a qualsivoglia rapporto di lavoro subordinato, senza distinzioni fra mansioni specialistiche o generiche, dolendosi, da ultimo, per l'omessa valutazione da parte dei giudici del gravame, della intensità dell'elemento intenzionale che connota la condotta posta in essere dal lavoratore.

Investita della questione, la Suprema Corte ha ritenuto infondate le predette censure mosse dalla ricorrente.

Nella premessa, la Corte ha osservato che l'accertamento della effettiva sussistenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e, pertanto, incensurabile in Cassazione se privo di errori logici o giuridici.

Nell'ottica descritta, non può tralasciarsi  che, nel caso di specie, la Corte territoriale aveva reso  una motivazione perfettamente comprensibile e coerente con le risultanze processuali esaminate in ordine alla insussistenza della dedotta gravità della mancanza ascritta al lavoratore.

In sostanza,  a fronte di una logica e corretta motivazione della sentenza di appello, con la quale era stato accertato che il dipendente stava svolgendo attività presso terzi al di fuori dell'orario di lavoro ed al penultimo giorno di assenza per malattia, in relazione alla quale neanche era stato dimostrato che la predetta attività avesse determinato un aggravamento o un ritardo nella guarigione, il ricorso si risolve in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di Cassazione.

Parimenti, risulta non pertinente il richiamo disposto alla pretesa violazione dell'art.2105 c.c., concernendo, ancora una volta, un filtro con il quale interpretare i fatti emersi in istruttoria, così come non significativa risulta la denunciata critica riferita alla esegesi dell'art.32 del C.C.N.L..

Infine, la Suprema Corte ha riscontrato le medesime carenze alla censura genericamente modulata sul vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla valutazione degli elementi oggettivi e soggettivi della condotta manchevole ascritta al dipendente.

Per tutte le richiamate motivazioni, la Cassazione ha concluso con il rigetto del ricorso.

Valerio Pollastrini

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