Il
caso in commento è giunto all’attenzione degli ermellini dopo che la Corte di Appello
di Trieste, confermando la decisione di primo grado, aveva ritenuto illegittimo
il licenziamento intimato ad un dipendente per aver prestato attività di lavoro
in favore di terzi, durante un periodo di malattia.
Nel
motivare la propria decisione, la Corte territoriale aveva osservato che lo
svolgimento della attività di lavoro da parte del dipendente, era intervenuto
in orario serale, extralavorativo, per di più al penultimo giorno di assenza
per malattia.
Inoltre,
le effettive condizioni morbose in cui
versava il lavoratore, attestate dalla certificazione medica, non risultavano
smentite da alcun elemento contrario.
Il
giudice dell’appello aveva quindi precisato che la società non aveva dimostrato
l'esistenza di un pregiudizio o ritardo nella guarigione del dipendente,
connesso all'espletamento di attività di lavoro in favore di terzi.
In
ogni caso, nel caso di specie, non si era realizzata alcuna violazione delle
disposizioni in tema di concorrenza, in considerazione della natura manuale
delle mansioni ascritte al lavoratore, la cui condotta era pertanto
insuscettibile di essere scrutinata alla luce del dettato normativo di cui
all'art.2105 c.c.
Avverso
tale pronuncia l’azienda aveva adito la Cassazione, deducendo l'incoerenza
della decisione impugnata rispetto agli standards conformi ai valori
dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale, secondo i quali va
individuata la giusta causa di recesso ai sensi dell'art.2119 c.c. anche in
presenza di diverse valutazioni operate dal Contratto Collettivo Nazionale di
Lavoro.
La
ricorrente, pertanto, reputava fuori contesto il richiamo disposto dai giudici
del gravame all’art.32 del C.C.N.L. di settore, rimarcando che la contestazione
mossa al lavoratore non investiva la violazione del codice disciplinare, bensì
il vulnus arrecato ai doveri fondamentali di fedeltà, buona fede e correttezza.
La
società, inoltre, aveva lamentato l'errore di fondo della sentenza impugnata
per aver negato rilievo al dettato normativo di cui all'art.2105 c.c.,
trattandosi di disposizione di applicazione generale in relazione a
qualsivoglia rapporto di lavoro subordinato, senza distinzioni fra mansioni
specialistiche o generiche, dolendosi, da ultimo, per l'omessa valutazione da
parte dei giudici del gravame, della intensità dell'elemento intenzionale che
connota la condotta posta in essere dal lavoratore.
Investita
della questione, la Suprema Corte ha ritenuto infondate le predette censure
mosse dalla ricorrente.
Nella
premessa, la Corte ha osservato che l'accertamento della effettiva sussistenza,
nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro
normativo e le sue specificazioni, e della loro attitudine a costituire giusta
causa di licenziamento, si pone sul piano del giudizio di fatto, demandato al
giudice di merito e, pertanto, incensurabile in Cassazione se privo di errori
logici o giuridici.
Nell'ottica
descritta, non può tralasciarsi che, nel
caso di specie, la Corte territoriale aveva reso una motivazione perfettamente comprensibile e
coerente con le risultanze processuali esaminate in ordine alla insussistenza
della dedotta gravità della mancanza ascritta al lavoratore.
In
sostanza, a fronte di una logica e
corretta motivazione della sentenza di appello, con la quale era stato accertato
che il dipendente stava svolgendo attività presso terzi al di fuori dell'orario
di lavoro ed al penultimo giorno di assenza per malattia, in relazione alla
quale neanche era stato dimostrato che la predetta attività avesse determinato
un aggravamento o un ritardo nella guarigione, il ricorso si risolve in una
inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del
giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all'ottenimento di una
nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio
di Cassazione.
Parimenti,
risulta non pertinente il richiamo disposto alla pretesa violazione dell'art.2105
c.c., concernendo, ancora una volta, un filtro con il quale interpretare i
fatti emersi in istruttoria, così come non significativa risulta la denunciata
critica riferita alla esegesi dell'art.32 del C.C.N.L..
Infine,
la Suprema Corte ha riscontrato le medesime carenze alla censura genericamente
modulata sul vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in
ordine alla valutazione degli elementi oggettivi e soggettivi della condotta
manchevole ascritta al dipendente.
Per
tutte le richiamate motivazioni, la Cassazione ha concluso con il rigetto del
ricorso.
Valerio
Pollastrini
Nessun commento:
Posta un commento