Nel
caso di specie, una dipendente si era rivolta al giudice lamentando la condotta persecutoria subita dal datore di
lavoro, dalla quale sarebbero scaturite ai
suoi danni alcune patologie.
Per
tali ragioni, la donna aveva richiesto un risarcimento dei danni biologico,
morale ed esistenziale pari, complessivamente, a 105.000,00 €.
Sia
il Tribunale che la Corte di Appello, però, avevano rigettato il ricorso,
precisando che la lavoratrice non era stata in grado di dimostrare il supposto
comportamento vessatorio posto in essere ai suoi danni.
A
proposito del mobbing, infatti, è stato ricordato come l’elemento
discriminatorio, sotto il profilo oggettivo, sia costituito dalla frequenza e ripetitività nel tempo degli
abusi compiuti dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, mentre, sotto quello soggettivo, esso è rappresentato
dalla coscienza ed intenzione del primo di causare danni.
Investita
della questione, la Suprema Corte ha innanzitutto richiamato la consolidata
giurisprudenza sulla materia (1), in base alla quale il datore di lavoro non solo è
contrattualmente obbligato a prestare una particolare protezione rivolta ad
assicurare l’integrità fisica e psichica del dipendente, ma deve, altresì, esimersi da
comportamenti che possano cagionare danni.
Gli
ermellini hanno quindi ricordato come, sul piano normativo, l’art.2087 cod.
civ. costituisca il cardine su cui ruotano le tutele predisposte contro una
simile fattispecie vessatoria.
Si
tratta della disposizione che impone al datore di lavoro l’adozione di tutte le misure necessarie per garantire l’integrità
psico-fisica e la personalità morale del lavoratore, tutelandone la salute, la
dignità e i diritti fondamentali, nel rispetto
degli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione.
Attraverso
l’ausilio dei principi espressi negli anni dalla stessa Corte (2), la Cassazione ha
rimarcato come la condotta mobbizzante sussista in presenza:
-
di
comportamenti di carattere persecutorio, posti in essere contro la vittima con
intento vessatorio, in modo miratamente
sistematico e prolungato nel tempo, sia da parte del datore di lavoro, che da
un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti;
-
di
un evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del
dipendente;
-
del
nesso eziologico tra le condotte suddette ed il pregiudizio subito dalla
vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
-
dalla
presenza dell’elemento soggettivo, intendendosi per tale l’intento persecutorio
unificante di tutti i comportamenti lesivi.
Al
termine di questa premessa, la Suprema Corte ha osservato che, a differenza di
quanto disposto dal richiamato art.2087 cod. civ., che impone al datore di
lavoro l’onere di provare di aver
adottato tutte le cautele impostegli dalla stessa norma, per ciò che attiene al
mobbing, invece, spetta al lavoratore dimostrare compiutamente la sussistenza degli
elementi caratterizzanti una simile condotta.
Tornando
al caso in commento, la Cassazione ha ricordato come, a detta della Corte del
merito, i fatti dedotti dall’appellante non fossero sufficienti ad attestare la
supposta condotta mobbizzante.
Per
tale ragione, la Corte di legittimità ha concluso con il rigetto del ricorso.
Valerio
Pollastrini
1)
-
Cass., Sentenza n.18927/2012;
2)
-
Cass., Sentenza n.12048 del 21 maggio 2011; Cass., Sentenza n.7382 del 26 marzo
2010;
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