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giovedì 2 ottobre 2014

Onere della prova per l’accertamento del mobbing

Nella sentenza n.19782 del 19 settembre 2014, la Corte di Cassazione ha ricordato che, per l’accertamento del mobbing, il lavoratore è chiamato a fornire in maniera rigorosa la prova della supposta condotta vessatoria subita.

Nel caso di specie, una dipendente si era rivolta al giudice  lamentando  la condotta persecutoria subita dal datore di lavoro, dalla quale sarebbero scaturite  ai suoi danni alcune patologie.

Per tali ragioni, la donna aveva richiesto un risarcimento dei danni biologico, morale ed esistenziale pari, complessivamente, a 105.000,00 €.

Sia il Tribunale che la Corte di Appello, però, avevano rigettato il ricorso, precisando che la lavoratrice non era stata in grado di dimostrare il supposto comportamento vessatorio posto in essere ai suoi danni.

A proposito del mobbing, infatti, è stato ricordato come l’elemento discriminatorio, sotto il profilo oggettivo, sia costituito  dalla frequenza e ripetitività nel tempo degli abusi compiuti dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, mentre,  sotto quello soggettivo, esso è rappresentato dalla coscienza ed intenzione del primo di causare danni.

Investita della questione, la Suprema Corte ha innanzitutto richiamato la consolidata giurisprudenza sulla materia (1), in base alla quale il datore di lavoro non solo è contrattualmente obbligato a prestare una particolare protezione rivolta ad assicurare l’integrità fisica e psichica del  dipendente, ma deve, altresì, esimersi da comportamenti che possano cagionare danni.

Gli ermellini hanno quindi ricordato come, sul piano normativo, l’art.2087 cod. civ. costituisca il cardine su cui ruotano le tutele predisposte contro una simile fattispecie vessatoria.

Si tratta della disposizione che impone al datore di lavoro l’adozione di tutte  le misure necessarie per garantire l’integrità psico-fisica e la personalità morale del lavoratore, tutelandone la salute, la dignità e i diritti fondamentali, nel rispetto  degli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione.

Attraverso l’ausilio dei principi espressi negli anni dalla stessa Corte (2), la Cassazione ha rimarcato come la condotta mobbizzante sussista in presenza: 

-         di comportamenti di carattere persecutorio, posti in essere contro la vittima con intento vessatorio,  in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, sia da parte del datore di lavoro, che da un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti;

-         di un evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;

-         del nesso eziologico tra le condotte suddette ed il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;

-         dalla presenza dell’elemento soggettivo, intendendosi per tale l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

Al termine di questa premessa, la Suprema Corte ha osservato che, a differenza di quanto disposto dal richiamato art.2087 cod. civ., che impone al datore di lavoro  l’onere di provare di aver adottato tutte le cautele impostegli dalla stessa norma, per ciò che attiene al mobbing, invece, spetta al lavoratore dimostrare compiutamente la sussistenza degli elementi caratterizzanti una simile condotta.

Tornando al caso in commento, la Cassazione ha ricordato come, a detta della Corte del merito, i fatti dedotti dall’appellante non fossero sufficienti ad attestare la supposta condotta mobbizzante.

Per tale ragione, la Corte di legittimità ha concluso con il rigetto del ricorso.

Valerio Pollastrini

1)      - Cass., Sentenza n.18927/2012;
2)      - Cass., Sentenza n.12048 del 21 maggio 2011; Cass., Sentenza n.7382 del 26 marzo 2010;

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